Prosegue la “guerra dei prezzi” tra Arabia Saudita e Russia, con il primo che tenta di sottrarre il mercato europeo al secondo offrendo grossi sconti. Non convince, tuttavia, la tesi che va per la maggiore e che vorrebbe Mosca artefice di una strategia volta a colpire simultaneamente Arabia Saudita e Stati Uniti. Per comprendere le ragioni della guerra dei prezzi, meglio volgere lo sguardo al mercato.
I prezzi del petrolio dopo il tonfo del 6 marzo, quando esplose la ‘guerra dei prezzi’ tra Riad e Mosca, non si sono più ripresi. Stamane, 16 marzo, all’apertura delle quotazioni il Brent era fissato a 32,2 dollari al barile: il 35% in meno del 7 marzo. Ma vi è di più, con l’attacco dell’Arabia Saudita al cuore del mercato europeo cui la Russia destina larga parte della sua produzione di greggio e derivati. Lo ha fatto offrendo il suo greggio bandiera, l’Arabia Light, a 25 dollari al barile, con uno sconto del 30% sul Brent, mettendo così fuori mercato l’Ural, il principale greggio russo.
30%, lo sconto sul Brent offerto da Riad sul mercato europeo per mettere fuori gioco il greggio russo Ural

Riad ha inoltre annunciato che ad aprile porterà la sua produzione ai limiti della capacità produttiva: a 12,3 milioni barili al giorno: il 25% in più del mese scorso e 3,2 milioni di barili al giorno in più dei 9 cui avrebbe voluto abbassarla pur di rallentare la caduta dei prezzi.
Una maggior produzione saudita non potrà che deprimere
ulteriormente i prezzi. Se lo scontro si accentuerà, la Russia avrà solo due
possibilità:
1. accettare la sfida allineando al ribasso i suoi prezzi a quelli sauditi;
2. ridurre le sue esportazioni in Europa (e non solo).
In entrambi i casi vedrà defalcati pesantemente i suoi introiti petroliferi con cui finanzia il bilancio statale, molto meno di un tempo ma pur sempre per il 40%.
Con un prezzo del petrolio a 25 dollari al barile, la Russia avrà difficoltà a finanziare il suo bilancio
Lo stesso Putin aveva motivato la sua opposizione al calo d’offerta proposto dall’Opec sostenendo che il prezzo del petrolio di quei giorni, sui 50 dollari al barile, era superiore al livello in grado di finanziare il suo bilancio (break-even price fiscale) di 42,4 dollari al barile (rispetto a 100 dollari di un tempo). Con un prezzo del petrolio a 25 dollari al barile e anche quelli del metano in picchiata, gli sarà molto difficile farlo, potendo comunque attingere alle ampie riserve valutarie estere di cui dispone, stimate in 570 miliardi dollari.
Diversi commentatori, ad iniziare dal Financial Times ripreso dall’ambasciatore Sergio Romano sul ‘Corriere’ (La ‘guerra fredda’, il petrolio, e i (veri) interessi dell’Europa, 15 marzo) hanno sostenuto la tesi che il crollo dei prezzi sia l’esito di una architettata strategia della Russia volta a colpire simultaneamente Arabia Saudita e Stati Uniti, nel convincimento di poter sostenere una fase di bassi anche per un lungo periodo, secondo James Henderson direttore dell’Oxford Institute of Energy Studies, sino a tre anni. Lo potrebbe fare, sostengono, grazie alle sue ricche riserve valutarie e al fondo sovrano istituito negli ultimi anni coi proventi del petrolio e metano.
Sul fatto che il crollo dei prezzi colpirà duramente la produzione statunitense non vi è alcun dubbio. Così come è indubbio che a soffrirne sarà anche l’Arabia Saudita con riserve valutarie prossime comunque a quelle russe, costi di produzione estremamente più bassi di quelli russi, anche se con un break-even price (fiscale) di 85 dollari barile.
Non convince la tesi di una strategia architettata dalla Russia, per 3 ragioni
Che i presunti obiettivi della strategia russa siano colpiti e affondati non rende tuttavia di per sé più plausibile la tesi della guerra dei prezzi come guerra politica. Per tre ragioni.
Primo: perché una strategia di tale importanza, che impegnerebbe la Russia per anni, non la si improvvisa nel giro di pochi giorni o settimane. In fondo ancora nel dicembre scorso la Russia aveva aderito alla decisione dell’Opec Plus di ridurre di altri 500 mila bbl/g la produzione di greggio facendosene carico per 350 mila bbl/g, riuscendo così ad arginare l’enorme oversupply di petrolio con prezzi che si erano mantenuti sino al 20 gennaio sui 65-70 dollari al barile, per poi cominciare a declinare per gli effetti del coronavirus.
Secondo: perché è ignota la lunghezza e l’intensità della crisi delle economie innescata dal coronavirus sull’intero mondo dell’energia e quindi i costi da sostenere per un qualsiasi paese produttore, come la Russia.
Terzo: perché quando si innesca una caduta dei prezzi è maledettamente difficile poi arginarla, come accadde nel 1998-1999 quando scesero al di sotto del 10 dollari al barile, avviando con effetto domino pesantissime recessioni nelle economie dei paesi produttori, a partire proprio da quella russa.
Non credo proprio, in conclusione, che retroscena politici aiutino a capire le enormi criticità che vanno attraversando il mondo del petrolio e il dramma che va colpendo l’economia mondiale. Per comprendere le ragioni della guerra dei prezzi, meglio volgere lo sguardo al mercato più che alla (dietrologia) politica.
Alberto Clò è direttore della rivista Energia
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Foto: PxHere
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