Le recenti tensioni in Medio Oriente hanno aggiunto un nuovo livello di incertezza alle prospettive del mercato petrolifero. Difficile prevedere i prossimi passi del confronto tra Washington e Teheran. Una potenziale vittima della crescente tensione tra Iran e Stati Uniti è l’Iraq, finito al centro dell’attenzione di Teheran. Ma le infrastrutture petrolifere e metanifere sono altamente vulnerabili in molti paesi del Medio Oriente. Ad assestare un duro colpo al mercato petrolifero mondiale hanno contribuito nel frattempo anche le turbolenze in Libia.
Nei primi giorni del 2020, il fragile ordine del Medio Oriente è quasi collassato a seguito dell’assassinio da parte dell’Amministrazione Trump dell’alto ufficiale militare iraniano Generale Qassem Soleimani. Teheran ha reagito colpendo due basi militare statunitensi nel vicino Iraq. È difficile prevedere i prossimi passi di questo confronto ancora in atto tra Washington e Teheran. Le autorità iraniane hanno minacciato di chiudere lo Stretto di Hormuz, punto di transito marittimo del petrolio e del gas naturale, essenziale per la sicurezza energetica globale. I mercati internazionali dipendono da affidabili rotte di trasporto, e il blocco anche temporaneo di un chokepoint quale è Hormuz può causare aumenti sostanziali dei costi e dei prezzi.
Situato tra Iran e Oman, collega il Golfo Persico con Golfo di Oman e Mar Arabico ed è il più importante passaggio critico a livello mondiale per l’alto volume di greggio, prodotti petroliferi e gas naturale che transita attraverso le sue strette corsie.
Lo Stretto di Hormuz è il più importante chokepoint energetico, chiuderlo sarebbe dannoso tanto per Teheran, già afflitto dal blocco degli Stati Uniti alle esportazioni, quanto per i suoi avversari
Nel 2019, il flusso di petrolio è ammontato in media sui 21 milioni di barili al giorno (mil. bbl/g), equivalente al 21% del consumo mondiale e circa a un terzo del commercio via mare di petrolio. Non solo, oltre un quarto del commercio di gas naturale liquefatto (GNL) transita per lo Stretto. La maggior parte di questo naviglio di idrocarburi è destinato all’Asia, specie Cina, India, Giappone, Corea del Sud e Singapore. La sua chiusura e la conseguente interruzione dei carichi sono misure drastiche, perché da lì transita quasi tutto l’export petrolifero della Repubblica Islamica e gran parte del suo commercio estero. Chiuderlo sarebbe dannoso tanto per Teheran che per i suoi avversari. Una misura probabilmente considerata come ultimo rimedio, nel caso in cui fosse a rischio la sua stessa sopravvivenza. È importante evidenziare come la massima pressione degli Stati Uniti sia il blocco delle esportazioni petrolifere iraniane. Non meraviglia che le autorità iraniane abbiano tacciato le sanzioni americane come «terrorismo economico» e di «guerra economica».
Una potenziale vittima della crescente tensione tra Iran e Stati Uniti è l’Iraq. L’Iran potrebbe intensificare le campagne in Yemen o in Libano, ma correrebbe il rischio di un confronto diretto con gli alleati sostenuti dagli Stati Uniti: in particolare, Arabia Saudita e Israele. Al centro dell’attenzione di Teheran è quindi probabile che finisca l’Iraq in quanto strategia più economica per espandere il proprio controllo e continuare il confronto con gli Stati Uniti, forte della presenza della propria intelligence e di risorse politiche. Eventi recenti hanno mostrato che l’Iraq è diventato un fornitore potenzialmente vulnerabile, proprio al crescere della sua importanza strategica. Negli ultimi anni la capacità di produzione e di esportazione è aumentata rapidamente: nel 2010 l’Iraq ha esportato 2 mil. bbl/g saliti all’inizio del 2020 a 4 mil. bbl/g. Il crescere della capacità irachena è stato uno sviluppo molto ben accolto in quanto le sanzioni hanno ridotto le esportazioni iraniane a soli 0,3 mil. bbl/g.
Le infrastrutture petrolifere e metanifere in Iran, Iraq, Arabia Saudita, Kuwait, Qatar e Emirati Arabi Uniti sono altamente vulnerabili ad attacchi missilistici, di droni, cibernetici e altri sistemi d’arma.
Nel 2020, sia Cina che India sono attese ricevere circa 1 mil. bbl/g di petrolio iracheno, mentre un altro milione dovrebbe viaggiare verso vari paesi europei. Nel caso dell’India, questo ammontare rappresenta circa il 20% delle importazioni di greggio. Tra gli altri acquirenti figurano anche gli Stati Uniti che, stando ai dati del Dipartimento dell’Energia, tra gennaio e ottobre 2019 hanno importato 337.000 bbl/g (e poco meno di 1 mil. bbl/g da altri produttori del Medio Oriente).
Nel medio termine, le accresciute preoccupazioni per la sicurezza potrebbero rendere più difficile per l’Iraq aumentare la propria capacità produttiva. Quel che potrebbe compromettere la possibilità di raggiungere una spare capacity sufficiente a soddisfare la crescente domanda globale nella seconda metà del decennio. In gennaio, le International Oil Companies hanno iniziato a rimpatriare il proprio personale per motivi di sicurezza in modo da prevenire eventuali attacchi e contrattacchi tra Stati Uniti, da una parte, e Iran e le sue milizie irachene, dall’altra. Qualsiasi nuovo confronto militare tra le due parti può assestare un duro colpo ai mercati petroliferi globali. Le infrastrutture petrolifere e metanifere in Iran, Iraq, Arabia Saudita, Kuwait, Qatar e Emirati Arabi Uniti sono altamente vulnerabili ad attacchi missilistici, di droni, cibernetici e altri sistemi d’arma. Ad assestare un duro colpo al mercato petrolifero mondiale hanno contribuito nel frattempo anche le turbolenze in Libia. Dalla defenestrazione ed uccisione del leader di lunga data Muammar Gheddafi nel 2011, il Paese è ulteriormente precipitato nel caos e tumulti, diviso in amministrazioni rivali ognuna supportata da diverse nazioni: il governo riconosciuto dalle Nazioni Unite con sede a Tripoli, guidato da Fayez al-Sarraj, e uno con sede nell’est del Paese, guidato da Khalifa Haftar, un tempo alto generale dell’esercito di Gheddafi.
La vicinanza della Libia all’Europa e l’alta qualità di molte delle sue varietà di greggio fanno sì che minacce alla sua produzione possono ripercuotersi in maniera consistente sui mercati internazionali
Nel tentativo di ottenere una leva prima dei colloqui di pace, da inizio gennaio Haftar ha interrotto il trasporto di petrolio dai porti sotto il suo controllo. Si tratta di circa 800.000 bbl/g per un ammontare vitale per il Paese di circa 55 milioni di dollari al giorno. Gran parte della ricchezza petrolifera della Libia si trova nell’area orientale del vasto Stato nordafricano, ma i ricavi passano per la National Oil Company che ha sede a Tripoli ed afferma di servire l’intero Paese tenendosi al di fuori dei conflitti tra fazioni rivali.
Nel 2019 la Libia ha estratto circa 1,3 mil. bbl/g. Nel 2011, il taglio della maggior parte delle esportazioni nazionali di petrolio ha contribuito a sospingere i prezzi internazionali del greggio oltre i 120 doll./bbl, picco della fase successiva alla crisi finanziaria. Il mercato è ora invece generalmente ritenuto molto meglio fornito. Ma la vicinanza del Paese all’Europa e l’alta qualità di molte delle sue varietà di greggio fanno sì che minacce alla sua produzione possono ripercuotersi in maniera consistente sui mercati internazionali.
Le recenti tensioni in Medio Oriente hanno aggiunto un nuovo livello di incertezza alle prospettive del mercato petrolifero. Difficile prevedere l’evolvere della situazione, ma da inizio febbraio il rischio di una grave minaccia per le forniture di petrolio sembra essersi attenuato. Ad oggi, il mercato può contare su una solida base con cui reagire a qualsiasi escalation e tensione in Medio Oriente: una produzione non-OPEC in forte aumento e scorte OCSE superiori alla media per 9 milioni di barili.
Ma questa calma temporanea non può darsi per scontata, perché le tensioni in Medio Oriente possono sempre avere un significativo impatto negativo sulla stabilità del mercato petrolifero globale.
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L’articolo è pubblicato su Energia 1.20 e porta la data 10 febbraio 2020
Gawdat Bahgat è Professore al National Defense University, Washington, DC
Foto: PxHere
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