16 Marzo 2020

Recensione – Possiamo salvare il mondo, prima di cena

LinkedInTwitterFacebookEmailPrint

Confesso di non averci capito granché. L’intenzione dell’Autore (Jonathan Safran Foer) è certamente buona: suscitare nei lettori una reazione tale da indurre cambiamenti nelle loro abitudini quotidiane per combattere i cambiamenti climatici. Temo però che l’effetto sia esattamente contrario.

D’altra parte è lui stesso a scrivere che: «è atrocemente difficile, tragicamente difficile parlare della crisi del Pianeta, in modo da renderla credibile» (p. 39). Non aiuta che l’Autore lo faccia con argomentazioni discutibili – ad esempio che la Terra stia attraversando «un periodo di leggero raffreddamento» (p. 98) – spesso contraddittorie e con dati talvolta errati o sinora mai letti (né documentati). Un po’ di umiltà sarebbe stata sicuramente più utile alla causa.

Quel che propone e ribadisce mille volte è, in sintesi, che la panacea della lotta al surriscaldamento del Pianeta è il mangiare vegano e quindi, a ritroso, che la sua maggior causa è l’essere carnivori e quindi l’allevamento di animali (in totale, a suo dire, in numero di 210 miliardi nel mondo; dato di fonte ignota). La medesima tesi sostenuta circa trent’anni fa dal guru Jeremy Rifkin nel suo Beyond Beef (1992). «L’eliminazione dell’uso della carne di manzo – scrisse – sarà accompagnata da un rinascimento ecologico».

Quanto alle cause delle emissioni di gas serra, Foer quasi assolve le fonti fossili, che non sono «l’incarnazione della rovina assoluta» (p. 20). Mentre le alternative non sono granché migliori. Dal passaggio, ad esempio, alle auto elettriche «non si evince una tendenza chiara e costante verso una diminuzione complessiva delle emissioni» (p. 47), considerando anche che quelle dovute alle auto «non costituiscono più del 20%» del totale, mentre «serve il doppio dell’energia per produrre un’auto elettrica rispetto a una convenzionale»! (p. 189). Nel libro di fossili si parla quasi di sfuggita, in modo controcorrente rispetto al politicamente corretto. «Abbiamo fatto affidamento su informazioni pericolosamente scorrette» (p. 83), finendo per concentrare «la nostra attenzione sui combustibili fossili, ma questo ci ha fornito un quadro incompleto della crisi del Pianeta» (p. 83). Più che nella transizione energetica, termine mai usato dall’Autore, il contributo più importante per contrastare il riscaldamento globale sta nell’«azione quotidiana» individuale che attiva «contagi sociali» nelle persone che ci circondano. A iniziare, come detto, da un’«azione collettiva per cambiare il nostro modo di mangiare – nello specifico, niente prodotti di origine animale prima di cena» (p. 76-77).

E a cena? La ragione dell’essere vegani è che gli allevamenti potrebbero essere addirittura «la causa principale dei cambiamenti climatici» (sic!) (p. 109), disattendendo tutte le risultanze dei rapporti dell’IPCC. L’Autore non lascia comunque molte speranze, suscitando nel lettore sentimenti di rassegnazione che disincentivano l’azione. «Quand’anche – scrive infatti a p. 69 – fossimo in grado di raggiungerlo [l’obiettivo di contenere il riscaldamento entro i 2 °C, n.d.a.] vivremo in un mondo meno ospitale», travagliato da un interminabile elenco di calamità: 40% in più di conflitti armati, «drammatico incremento della mortalità umana», rischio di estinzione di metà di tutte le specie animali e via andare. E comunque, non essendoci limite al peggio, «anche se gli essere umani sopravvivessero al riscaldamento globale, il successivo proverbiale diluvio quasi certamente porrà fine al nostro breve regno su questo pianeta» (p. 234).

Vien da pensare che, se non vi è nulla da fare e il tempo stringe, non è certo cambiando la dieta che se ne vien fuori. Per invogliare all’azione bisogna nutrire speranze. Quel che non è, riportando l’Autore un articolo apparso su «The New York Times» secondo cui: «questa civiltà è morta e non possiamo fare niente per salvarci» (p. 156). Sua intenzione vorrebbe essere quella di suscitare nel lettore quell’attenzione, quell’angoscia, quella rabbia in grado di fargli maturare un pieno convincimento sul’«estinzione di massa» in atto – la sesta dell’umanità (p. 91) – suscitandogli un’immediata reazione: smettere di mangiar carne. Salvo poche pagine dopo riportare, quasi lamentandosene, che – nonostante l’estinzione in atto – la vita media della popolazione mondiale è passata dai 35 anni pre-Rivoluzione Industriale, agli attuali 80 anni. Un’estinzione quindi che ti allunga la vita. Nonostante questa critica ritengo che il libro vada letto: perché testimonia come l’informazione, la comunicazione, la (presunta) conoscenza delle cose possa – volente o meno – suscitare una reazione contraria a quella auspicata. E come non si possa sentenziare su ciò che non si conosce attraverso un affastellato insieme di taglia e incolla tratti da un infinito numero di documenti, rapporti, articoli che, nel loro insieme, non possono definirsi una bibliografia ragionata sul tema dei cambiamenti climatici e delle ragionevoli risposte che potrebbero darvi risposta. Se Foer viene annoverato tra i principali divulgatori e attivisti ambientali – visto il successo dei suoi numerosi libri, tale da lamentarsi d’aver speso ben due anni per divulgarli – abbiamo una dimostrazione dell’inconsistenza di scritti che pur sostengono di voler migliorare le cose.


Jonathan Safran Foer
Possiamo salvare il mondo, prima di cena. Perché il clima siamo noi
Ed. italiana di Ugo Guanda Editore, Milano, 2019, pp. 313 (18 euro)


Alberto Clô è direttore Responsabile di «Energia»

Foto: Pixabay


0 Commenti

Nessun commento presente.


Login