27 Marzo 2020

Smart working: ci sentiamo immobili, ma stiamo entrando nel futuro

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Questa disgraziata epidemia sta facendo emergere la netta linea di demarcazione tra l’essenziale – cibo, acqua, energia, sanità, logistica, infrastruttura digitale – e il superfluo – a partire da certe funzioni sterili all’interno dei servizi, settore che negli anni si è espanso fino a raggiungere i 3/4 del Pil dei paesi ricchi. Ma non bisogna essere troppo critici: i servizi offrono anche molto contenuto produttivo e l’incredibile esperimento di smart working cui stiamo assistendo può ridurre la pletora di funzioni disproduttive. Oltre a una maggior soddisfazione dei lavoratori e delle loro performance, si ha anche un positivo impatto sull’ambiente.

“Tutta l’infelicità dell’uomo deriva dalla sua incapacità di starsene nella sua stanza da solo”, scriveva Pascal nei suoi Pensieri. Di qui il suo attivismo frenetico, i suoi affari furiosi, il suo vagare nel mondo, la sua inquietudine. Di qui, per dirla con linguaggio moderno, la crescita del Pil, essendo esso null’altro che l’espressione monetaria dell’azione umana. Ora però un invisibile organismo mette in crisi questo modello e costringe l’uomo a starsene chiuso in una stanza: finisce l’azione, crolla il Pil.

Qui non seguiremo Pascal nelle sue considerazioni esistenziali – che pure, con il loro invito a una vita sobria, hanno non poca rilevanza per la questione climatica – ma chiediamoci piuttosto cosa questa epidemia disgraziata possa insegnarci.

Tutta l’infelicità dell’uomo deriva dalla sua incapacità di starsene nella sua stanza da solo – Blaise Pascal, Pensieri

Se c’è una prima verità che emerge è la linea di demarcazione netta tra l’essenza e il superfluo. Da una parte il cibo, l’acqua, l’energia, la sanità, la logistica che trasporta le merci, l’infrastruttura digitale che rende ancora possibile il villaggio globale, e poco altro. Dall’altra parte tutto il resto, in primis i servizi, ovvero quel settore che negli anni si è espanso a dismisura fino a raggiungere i 3/4 del Pil dei paesi ricchi.

In questi giorni vediamo che questa massa grandiosa di azione umana si è sgonfiata come fosse una bolla di chewing gum tanto da far sorgere la seguente domanda: quello dei servizi è sempre un contributo alla generazione del Pil oppure si tratta, in certi casi, di una appropriazione di Pil? La questione è immensa e non può essere trattata qui, ma certo essa esiste e questi giorni di virus – che ci dicono che esiste una sorta di piramide di Maslow dei settori economici che stabilisce una gerarchia tra ciò che è necessità e ciò che non lo è – ce la ripropongono.

Essa è antica quanto lo è l’economia se è vero, come è vero, che Smith nella “Ricchezza delle nazioni” ha dedicato ampio spazio alla questione di quali lavori fossero realmente produttivi e quali no. Con riferimento al presente, potremmo citare il bel libro di Mariana Mazzucato, “Il valore di tutto. Chi lo produce e chi lo sottrae nell’economia mondiale” o, al di fuori del mainstream economics, le simpatiche e ironiche riflessioni di Mario Fabbri nel suo libro “L’economia immaginaria”. 

Esiste una sorta di piramide gerarchica dei settori economici che stabilisce ciò che è necessario da ciò che non lo è, ma il tema deve ancora trovare il suo cantore

Il tema, ripetiamo, è immenso e deve trovare ancora il suo cantore, un John Maynard Keynes della burocrazia disproduttiva o un Karl Marx della finanza vuota e rapace o, ancora, un Alfred Marshall dei costi di transazione pervasivi e folli che affliggono le pubbliche amministrazioni, le aziende e, in ultimo, i cittadini di tutto il mondo, a qualsiasi latitudine essi vivano.

Cresce il reddito, cresce la complessità dell’economia, cresce la pletora di funzioni sterili e disproduttive che si abbatte sulle persone. Usiamo qui il termine disproduttivo perché queste funzioni sono assai più che improduttive: più che non produrre valore esse lo distruggono. Mutatis mutandis questi costi di transazione stanno all’espansione dell’economia come il carbonio sta alla crescita dei consumi energetici. Bisogna assolutamente trovare il modo di ridurre entrambi e la sventura del Covid-19 deve indurre una riflessione sul problema.

Ma non dobbiamo essere troppo critici perché nel settore dei servizi c’è indubbiamente anche molto contenuto produttivo

Ma non dobbiamo essere troppo critici perché nel settore dei servizi c’è indubbiamente anche molto contenuto produttivo. E di fatto, in questi giorni terribili di virus, quel contenuto è vivo e viaggia nella rete istante dopo istante e genera benessere. Milioni di lavoratori si collegano in smart working e fanno a casa quello che in circostanze normali avrebbero fatto in ufficio.

Lo smart working si è abbattuto sulle aziende come uno tsunami, travolgendo blocchi mentali e incrostazioni organizzative che hanno tenuto in scacco il mondo aziendale per decenni. Le aziende hanno subìto un processo di accelerazione senza precedenti trovandosi costrette a fare in qualche giorno quello che avrebbero presumibilmente fatto in decenni. Non sono occorsi tavoli di confronto Human Resources-Trade Unions, o round ripetuti di brainstorming o design thinking all’interno delle aziende per capire, valutare, soppesare, misurare, bilanciare l’impatto dello smart working sulla vita delle istituzioni e delle persone.

Covid-19 ha fatto in un paio di giorni quello che i tavoli di lavoro avrebbero fatto in due-tre decenni

Il virus ha avuto ragione di schiere di barriere mentali che albergavano in copioso splendore all’interno delle diverse istituzioni, private o pubbliche, dissolvendole all’istante. Covid-19 ha fatto in un paio di giorni quello che i tavoli di lavoro avrebbero fatto in due-tre decenni. Come cubetti di ghiaccio fusi dalla fiamma, le esitazioni presenti ai tavoli di lavoro – e qui ritorna la questione cruciale del lavoro disproduttivo che alimenta se stesso – si sono sciolte: l’acqua è tornata acqua.

Si tratta di un grandioso esperimento mai tentato prima che ci mostra come sia possibile organizzare il lavoro in modo diverso. Far viaggiare l’informazione nella rete anziché far spostare le persone: questo ci dicevano due-tre decenni fa i visionari della rete. Oggi quell’utopia è diventata realtà. Citeremo qui alcuni numeri tratti da articoli che in questi giorni fioriscono in rete.

Il 13 marzo c’erano circa 555.000 lavoratori in smart working in Italia

Secondo uno speciale apparso sul Corriere della Sera, alla data del 13 marzo c’erano circa 555.000 lavoratori in smart working in Italia, con un aumento del traffico dati dalle abitazioni compreso tra il 20 e il 50%. La distanza tra le piccole e grandi aziende è considerevole. Nel 2019 solo il 12% delle prime aveva iniziative strutturate di smart working e il 51% erano disinteressate al fenomeno, percentuali che diventano rispettivamente il 58% e il 3% nelle grandi aziende e il 16% e il 7% nella Pubblica Amministrazione (dati Polimi).

In parole povere il quadro all’interno del paese è eterogeneo, aggravato inoltre dal fatto che circa 11 milioni di persone e 9,6 milioni di abitazioni non sono ancora raggiunte dalla banda ultra larga, come riportato dal Dataroom di Milena Gabanelli.

In Italia circa il 50% dei lavori può essere svolto dalla propria abitazione

In un articolo apparso recentemente su Lavoce.info, Boeri e Caiumi stimano che in Italia circa un quarto dei lavori può essere svolto dalla propria abitazione, un terzo da casa o spostandosi senza dover necessariamente avere contatti de visu e circa la metà dei lavori possono essere fatti da casa avendo contatti sporadici. In altri termini, il potenziale di lavoro da casa è considerevole, intorno al 50%.

Per quanto concerne la produttività dello smart working, diversi studi ne evidenziano la crescita rispetto a forme tradizionali di lavoro. Qui citiamo lo studio di Nicolas Bloom et at. pubblicato nel 2015 sul Quarterly Journal of Economics. L’indagine, effettuata su un’agenzia di viaggi cinesi di 16.000 dipendenti, è giunta alla conclusione che il lavoro da casa dà luogo non solo a un miglioramento della performance tra il 13% e il 22%, ma anche a una maggiore soddisfazione sul lavoro. 

Il lavoro da casa non solo migliora la performance (+13-22%), ma dà anche maggior soddisfazione

A risultati analoghi perviene il recente studio italiano Smart-working: work flexibiliy without constraints condotto da Marta Angelici e Paola Profeta dell’Università Bocconi che mostra come lo smart working generi maggiore soddisfazione complessiva nel lavoratore e incrementi di produttività. Ed è interessante osservare come la soddisfazione sul lavoro aumenti anche se i lavoratori fanno più sforzi: ciò significa che gli smart worker sono pronti a scambiare un maggior impegno sul lavoro con una maggiore flessibilità, perché ciò in ultimo accresce la loro soddisfazione sul lavoro.

Gli smart worker sono pronti a scambiare un maggior impegno sul lavoro con una maggiore flessibilità

Citiamo infine Mariano Corso, Responsabile Scientifico dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano che afferma quanto segue: “si può stimare un incremento di produttività del 15% per lavoratore, una riduzione del tasso di assenteismo pari al 20%, risparmi del 30% sui costi di gestione degli spazi fisici”.

Tutto ciò si traduce in un impatto positivo sull’ambiente, ovvero in minori spostamenti delle persone e, quindi, in meno emissioni di inquinanti e di gas serra. I vantaggi sono enormi. In uno studio che ha preso in considerazione 16 paesi (inclusi Cina, India, Germania, USA e UK), la multinazionale Regus ha stimato che la crescita dello smart working potrebbe dar luogo, entro il 2030, a un minore pendolarismo (3,53 miliardi di ore di pendolarismo all’anno) che si tradurrebbe in minori emissioni di CO2 comprese tra 182 e 214 milioni di tonnellate all’anno (equivalenti alle emissioni catturate da 4,7-5,5 miliardi di alberi).

L’effetto benefico del minor pendolarismo sulle emissioni di CO2 è stimato pari a quello delle emissioni catturate da 5 miliardi di alberi al 2030

Si noti che lo studio è precedente all’emergenza coronavirus e stima l’abbattimento assumendo tassi di crescita moderati dello smart working. Quanti gas serra possono essere abbattuti con un’implementazione massiva dello stesso?

In sintesi, la riorganizzazione del lavoro con un’espansione considerevole dello smart working, ad esempio 2-3 giorni a settimana, potrebbe essere uno degli insegnamenti principali di Covid-19. Il virus, oltre al suo impatto nefasto di morte, dolore e depressione economica, potrebbe lasciarci questa eredità. Organizzare il nostro lavoro in modo diverso, smettendo di pendolare forsennatamente da un luogo all’altro, non solo nella corsa e nello stress, ma pure nella bassa produttività.

Naturalmente, un cambio di paradigma così profondo richiede un ripensamento globale dell’organizzazione e delle relazioni di lavoro che valorizzi la fiducia tra datore di lavoro e lavoratore, e che orienti il lavoro al risultato e al prodotto più che al numero di ore lavorate. Smettere di legare le carriere alle ore di presidio – non di lavoro, si badi – all’interno degli uffici, facendole dipendere, piuttosto, dai risultati prodotti. Ciò sarebbe, chiaramente, una rivoluzione copernicana che riorienterebbe completamente la cultura del lavoro delle aziende e della pubblica amministrazione.

D’altra parte, è chiaro che un maggior numero di ore lavorate non significa affatto un maggior reddito e una maggiore produttività. Piuttosto è vero il contrario: i paesi più produttivi sono proprio quelli in cui più basso è il numero di ore lavorate.

È tempo di fare una riflessione su questo tema e, nello specifico, sul ruolo che nel mondo futuro può avere lo smart working. Lo dobbiamo al nostro Pianeta, perché la riduzione potenziale dei gas serra legato allo smart working è immensa, e perché è illogico ingegnarsi con il solare, l’eolico e la carbon capture se poi non si catturano benefici che sono a portata di mano e che hanno un costo addirittura negativo.

Di più, lo dobbiamo ai morti causati dall’onda epidemica. Solo imparando da ciò che sta accadendo in questi giorni tragici, essi non saranno morti invano. 


Enzo Di Giulio è membro del Comitato Scientifico di «Energia»


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Foto: PxHere

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