Investito da un duplice shock domanda-offerta, il greggio è oggi più che mai pivot dell’insieme delle fonti energetiche. I prezzi medi sono scesi del 70% da inizio anno e non si esclude una caduta sotto i 10 dollari al barile. La crisi non si esaurirà con l’uscita dalla pandemia del coronavirus. E ciò non vale solo per il petrolio. Se l’Atene (delle fossili) piange, la Sparta (delle rinnovabili) infatti certamente non ride.
Impossibile, mai successo, impensabile. Sono i termini che più ricorrono nei commenti degli analisti, delle riviste specializzate, dei circuiti industriali su quel che va accadendo nel mondo dell’energia, ove la dimensione della crisi va assumendo ogni giorno contorni più impressionanti. Non se ne vede la fine nel convincimento che molto sia già stato comunque distrutto e che gli effetti si protrarranno nel tempo. Il 2020 viene dato ormai per perso; si prende a ragionare per il 2021.
Qualche numero guardando al petrolio, più che mai fonte pivot dell’insieme delle fonti, investito da un duplice shock domanda-offerta. La domanda è stimata in caduta di 11 mil.bbl/g a marzo e da 15 a 20 mil.bbl/g ad aprile secondo Bloomberg nell’articolo Oil’s Apocalyptic April Could Reverbarate for Years to Come del 31 marzo. Il dopo dipenderà dall’intensità e dalla durata della crisi, in funzione soprattutto dell’andamento dei trasporti che assorbono oltre la metà dei consumi totali.
Nel Nord America un litro di petrolio costa meno di un litro di birra
I prezzi medi sono scesi del 70% da inizio anno poco al di sopra dei 22 doll/bbl (dato 31 marzo), ma molte transazioni vengono fatte a livelli anche di molto inferiori. Diversi analisti non escludono una caduta a 10 doll/bbl come accadde nel 1998 in una situazione comunque allora relativamente migliore di quella attuale. Nel Nord America un litro di petrolio costa meno di un litro di birra.
La produzione, per contro, non è sostanzialmente caduta, con un surplus di offerta stimato sui 10 mil.bbl/g e una capacità di stoccaggio ormai satura. Per più ragioni. In primo luogo per la ‘guerra dei prezzi’ esplosa tra Russia e Arabia Saudita che sta assumendo contorni assurdi a danno di entrambe le parti.
L’Arabia Saudita ha imposto ad Aramco di spingere al massimo ed oltre i suoi livelli estrattivi sino a 12,7 mil. bbl/g (rispetto ai 9 che si era detta disposta a produrre seguendo le decisioni Opec del 5 marzo) e di attaccare la Russia nel cuore del suo principale mercato: quello europeo, offrendo sconti sino a 7 doll/bbl su quelli di riferimento del Brent.
40 miliardi di dollari le perdite sostenute fin qui dalla Russia nel folle scontro con l’Arabia Saudita
Finora la Russia ha saputo resistere grazie alle sue abbondanti riserve valutarie, alla svalutazione di un quinto del rublo; ai relativamente bassi cosi di produzione (10-20 doll/bbl), alla fiscalità decrescente col calare dei prezzi. Ad oggi, le sue perdite sono ammontate comunque a 40 miliardi di dollari, con un bilancio statale divenuto negativo.
La relativa rigidità dell’offerta si manterrà, in secondo luogo, sino a quando i prezzi saranno superiori ai costi marginali e per i danni che una sua rapida riduzione potrebbero apportare ai giacimenti. Si stima che a 25 doll/bbl il 10% della produzione non sia economica, destinata quindi a soccombere. È solo questione di tempo.
L’industria petrolifera degli Stati Uniti ne uscirà “devastata”, e le elezioni si avvicinano, sempre che si terranno..
A esserne colpita, “devastata” scriveva il PIW del 27 marzo, sarà l’industria statunitense, specie nello shale oil ma anche nei famosi stripper wells: pozzi con produzioni di pochi barili al giorno a che nel loro totale contribuiscono però per il 10% della produzione americana, con costi stimati in 20-50 doll/bbl.
Al nominale beneficio per l’economia americana del calo dei prezzi al consumo dei prodotti petroliferi si contrappongono i contraccolpi sull’industria petrolifera che tra diretti e indiretti occupa circa 11 milioni di lavoratori. E le elezioni si avvicinano, sempre che si terranno.
Da qui, un altro fatto fino a ieri impensabile: il tentativo della diplomazia americana di favorire un’intesa Russia-Arabia Saudita per sostenere i prezzi, appoggiando di fatto la proposta di inizio marzo del ‘Cartello Opec’ da sempre fortemente osteggiato dagli Stati Uniti ove nel 2019 il Congresso aveva esaminato una proposta di ‘No Oil Producing and Exporting Cartels, or NOPEC, Bill’ (poi non emanato) che prevedeva la possibilità che l’Opec fosse chiamata a rispondere al giudizio dell’autorità antitrust americana.
Non si sa se il tentativo americano andrà a buon fine, quel che si vedrà al più tardi alla prossima riunione dell’Opec prevista per il prossimo 9 giugno. Per molti paesi produttori la situazione si fa ogni giorno di più drammatica col rischio di destabilizzazione sociale e politica. La crisi non si esaurirà comunque con l’uscita dalla pandemia del coronavirus, ma si proietterà nel medio-lungo termine. Per due principali ordini di ragioni.
Molti paesi produttori rischiano destabilizzazione sociale e politica
Primo: se, come si sostiene, l’impatto della crisi sulla produzione shale statunitense dovesse risultare anche parzialmente permanente, l’Opec recupererebbe quote di mercato (dall’attuale 40% circa). Considerata la crisi interna di alcuni suoi principali membri (Algeria, Iraq, Iran, Libia, Venezuela) a beneficiarne sarebbe soprattutto il potere dell’Arabia Saudita e dei suoi alleati del Golfo (Emirati e Kuwait) aumentando la loro quota sull’insieme Opec dal 53% dello scorso anno.
Secondo: si stima in 131 miliardi di dollari (ad appena 61 miliardi) il taglio degli investimenti già decisi dalle compagnie petrolifere. L’indice S&P del comparto energetico è crollato del 52% dall’inizio dell’anno contro il -20% del totale S&P 500. Meno investimenti oggi minor offerta domani. La conseguenza negli anni a venire dipenderà dalla durata e intensità della crisi in corso, da quanta parte del calo della domanda sarà strutturale, da come riprenderà il percorso della transizione energetica che si farà non meno travagliato.
Se l’Atene (delle fossili) piange, la Sparta (delle rinnovabili) infatti certamente non ride. Per più ragioni: i disincentivi che i bassi prezzi avranno sull’efficienza energetica; idem sull’attrattività della auto elettrica, anche per l’impoverimento dei consumatori; la caduta degli investimenti nelle rinnovabili che dopo il picco del 2007, prima quindi dell’attuale crisi, avevano osservato un andamento declinante specie in Cina.
Alberto Clò è direttore della rivista Energia
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Foto: Víktor Vasnetsov
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