29 Aprile 2020

Sapiens, virus e la teoria del caos

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Siamo troppi, viaggiamo molto, commerciamo molto, distruggiamo biodiversità, facciamo guerre e mangiamo animali selvatici: tutto ciò dà luogo a una crescita delle epidemie? Dopo aver lanciato allarmi rimasti inascoltati, gli scienziati avvertono ora che c’è una connessione diretta tra la pandemia e la vocazione del genere umano per la crescita che lo porta allo sbancamento di interi ecosistemi.

Un giorno, forse, quando la storia sarà scritta, emergerà che Sars-CoV-2 è uscito fuori da un laboratorio di Wuhan nel quale ricercatori disattenti facevano esperimenti su migliaia di ceppi di virus, inclusi i coronavirus. Oppure, al contrario, sarà riaffermata la tesi dominante secondo la quale Sars-2-CoV è figlio di uno dei tanti wet markets disseminati nella Cina, soprattutto meridionale, nei quali sono venduti centinaia di animali selvatici per un giro d’affari pari a 74 miliardi di dollari. Oppure non lo sapremo mai, perché la vicenda rimarrà avvolta in quella nebbia della storia che spesso continua a coprire i fatti anche a secoli di distanza.

Qualunque sia la causa, bassa o nulla è stata la prevenzione attuata dagli Stati e dai loro leader. Che una pandemia dovesse arrivare – “the next big one” come la chiamavano gli scienziati (e David Quammen in Spillover) – era common knowledge nel mondo scientifico. Ma il grido d’allarme, che pure c’è stato, non è stato ascoltato.

Sì, è vero, mancava il “quando”, ma cosa importa se l’evento accade nel 2020 oppure nel 2035: in ogni caso accadrà ed è quindi bene che la società – che a differenza del singolo individuo è immortale – si prepari. Ma questo non è accaduto perché Sapiens è fatto così: se non si ritrova il cobra tra i piedi, non salta.

V’è una connessione diretta tra la pandemia e la vocazione di Sapiens per la crescita?

Ma oggi, quegli stessi scienziati che asseriscono di non essere stati ascoltati, tirano una linea e connettono due punti apparentemente distanti: la pandemia e la vocazione di Sapiens per la crescita. Poiché Sapiens è vorace e insaziabile – tra tutti gli assiomi strampalati della microeconomia quello di non sazietà è il più credibile – egli non ha freni e procede in una crescita senza fine i cui unici confini sono quelli stessi del Pianeta. Egli lo sta erodendo, andando oltre la sua capacità di sostenere la sua stessa crescita: l’insostenibilità di Sapiens è direttamente proporzionale al suo discorrerne: più cita la sostenibilità, più procede in direzione opposta.

Fino ad oggi è stato così, visto che si parla di sustainable development da almeno trent’anni, periodo nel quale svariati record di emissioni, deforestazioni, acidificazione dei mari, picchi di inquinamento, eccetera, sono stati battuti e travolti. Perché Sapiens è fatto d’azione e l’azione non è altro che crescita, e la crescita – dunque – è il suo destino. Egli si espande, nell’economia e nella demografia, conquista ecosistemi, li distrugge, li rimpiazza con grattacieli, strade, infrastrutture, città. In una parola mette in atto uno sbancamento continuo e progressivo degli ecosistemi infischiandosene di chi verrà dopo di lui.

“Nel 2014, un gruppo di ricerca coordinato da Stuart Pimm della Duke University stimò il normale tasso di estinzione sulla Terra, prima dell’apparizione dell’uomo, pari a 0,1 specie estinte per milione di specie per anno; il tasso odierno sarebbe 1.000 volte superiore, mentre i modelli per il prossimo futuro indicherebbero tassi di estinzione fino a 10.000 volte più alti”, così si esprime il botanico Stefano Mancuso in articolo di qualche giorno fa.

Ora gli scienziati asseriscono che c’è una relazione tra tale sbancamento degli ecosistemi e le pandemie, perché se si distrugge una foresta gli organismi che essa ospitava cercano una nuova casa ed entrano in contatto con il genere umano e, prima o poi, lo contaminano. Finché il virus se ne sta nel corpo del pipistrello che vive nella foresta, sarà molto improbabile che esso entrerà in contatto con l’uomo. Ma se l’uomo sbanca quella foresta, il pipistrello migra, comincia a vivere in prossimità delle città e diventa contiguo all’uomo. E prima o poi il virus contamina l’essere umano.

Le epidemie sono in crescita e la perdita di biodiversità è una delle cause

In realtà, il nesso tra perdita di biodiversità e trasmissione delle malattie è più complesso – come spiegato bene in un articolo apparso su Nature nel 2010 – perché, in linea di principio, la prima potrebbe anche indurre una diminuzione della seconda poiché riduce lo spazio a disposizione dei patogeni. D’altro canto, però, sembrerebbe che nel complesso la riduzione di biodiversità induca più malattie a ragione del nesso positivo tra crescita della densità delle specie serbatoio e trasmissione della malattia.

In sintesi, le epidemie sono in crescita, e la perdita di biodiversità è una delle cause. Tuttavia, non si può non considerare il fatto che le epidemie ci sono sempre state: la peste nera che ha sterminato circa cento milioni di persone a metà del Trecento in Asia e in Europa è stata una pandemia occorsa in un’epoca nella quale l’aggressione all’ecosistema da parte di Sapiens era agli inizi. La Spagnola è emersa durante la prima guerra mondiale, l’HIV avrebbe infettato il primo uomo nel 1908 e l’Asiatica è fenomeno del 1957.

In altre parole, gran parte degli eventi pandemici che hanno fatto la storia del genere umano sono avvenuti prima che il grande saccheggio di Homo Sapiens raggiungesse i vertici odierni. Dunque, se questa linea di riflessione è corretta, le epidemie e le pandemie hanno poco o nulla a che fare con la crescita di Sapiens. Piuttosto, sono un fatto dell’esistenza: accadono e basta.

Ma sembrerebbe che le cose non stanno così perché la frequenza delle epidemie è in aumento. E ciò è un problema, soprattutto in prospettiva perché significa che Covid-19 potrebbe essere solo l’inizio di un fenomeno complessivo la cui frequenza è destinata ad aumentare negli anni a venire.

È davvero così? Rispondere a questa domanda e districarsi nella sterminata letteratura sulla questione non è semplice. Uno studio molto commentato, apparso su Journal of the Royal Society Interface nel 2014, mostra come nel periodo che va dal 1980 al 2009 vi sia stato un considerevole incremento delle epidemie, in particolare di quelle zoonotiche – trasmesse dagli animali all’uomo – che rappresentano circa il 60% del totale dei focolai.

Come si può vedere dalla figura, virus e batteri sono i maggiori responsabili, e nella grande maggioranza dei casi le infezioni sono non-vectorborne, ovvero non trasmesse da vettori quali, ad esempio, zanzare, zecche e pulci. La salmonellosi e le gastroenteriti virali rappresentano il maggior numero dei casi di malattia.

Dunque, se si guarda a questi numeri tout court bisogna concludere che il dato è chiaro e che epidemie sono in crescita. Tuttavia, la conclusione viene rovesciata quando si guarda al dato pro-capite, che diminuisce significativamente. In altre parole, è come se la crescita dei casi di malattia fosse sostenuta dalla crescita della popolazione, e il risultato è intuitivo perché è chiaro che un aumento della base demografica fa aumentare – ceteris paribus – i casi di malattia.

A livello pro-capite, la tendenza sembrerebbe quella di un calo del trend delle malattie, ma è una magra consolazione..

Quindi, poiché il dato pro-capite diminuisce significativamente, bisognerebbe concludere che siamo di fronte a una diminuzione del trend delle malattie. D’altra parte è presumibile che i numeri impressionanti dell’attuale pandemia possano rovesciare queste conclusioni e indurre una crescita dei casi di malattia anche a livello pro-capite: lo sapremo quando tutto sarà finito e si farà il bilancio finale. E tuttavia, se anche questo accadrà, sarà difficile dedurre che le epidemie sono in aumento a causa della perdita di biodiversità, se la tesi della provenienza del virus da un wet market fosse confermata.

Più in generale, come mostra il già citato studio apparso su Nature, i driver delle epidemie sono molteplici e includono tanto fattori che impattano sui sistemi ecologici quanto mutamenti culturali. La figura che segue, che si riferisce specificamente alle zoonosi occorse dal 1940 al 2005, mostra come driver rilevanti siano il cambio d’uso della terra (18%), la suscettibilità umana alle infezioni (17%), l’intensificazione dell’agricoltura (13%), i mutamenti dell’industria alimentare (13%), ma anche le guerre e le carestie (7%) e, dulcis in fundo, mangiare animali selvatici (2%).

È bene sottolineare come la principale causa di zoonosi sia la voce “other” (26%) che riassume elementi quali i viaggi e il commercio internazionale, i cambiamenti nella demografia, il clima e condizioni meteorologiche.

In sintesi, siamo troppi, viaggiamo molto e commerciamo molto, distruggiamo biodiversità, facciamo guerre e mangiamo animali selvatici: tutto ciò dà luogo a una crescita delle epidemie. Ed è magra consolazione dire che a livello pro-capite i casi non aumentano, perché assumere che il perimetro demografico sia lo stesso di trenta anni fa è mero esercizio accademico. Al contrario, la crescita della base demografica unita alla globalizzazione hanno proiettato l’intera umanità in un territorio nuovo e infido nel quale la scelta culinaria di un cittadino della Cina meridionale può riverberarsi, drammaticamente, sull’umanità intera.

Alla fine abbiamo compreso che quella strana storia – della quale, sotto sotto, tutti avevamo dubitato – della farfalla che battendo le ali in Brasile causa un tornado in Texas era vera. Ed è un dettaglio irrilevante il fatto che non si tratti di una farfalla ma di un pipistrello, e che l’impatto sia migliaia di volte quello di un tornado. In ultimo – ed è questo il succo della storia – accrescendo la sua potenza Sapiens ha magicamente espanso anche quella del pipistrello. Bingo!


Enzo Di Giulio è membro del Comitato Scientifico di «Energia»

Sul tema virus e epidemie leggi anche:
A proposito di Spillover, di Enzo Di Giulio, 22 Aprile 2020

Foto: Pixabay

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