5 Maggio 2020

Darwinismo petrolifero

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La più grave delle crisi petrolifere sconvolgerà il panorama dell’industria come lo conosciamo. Fallimenti all’ordine del giorno, fusioni e acquisizioni alla ribalta. Un tracollo non appare più inverosimile. Soprattutto degli Stati Uniti produttori, alla cui inattesa rinascita potrebbe seguire un’ancor più rapida caduta. La sicurezza energetica tornerebbe allora un imperativo, a fronte della politicizzazione del petrolio da parte di Russia e Arabia Saudita. Auspicabile è pertanto lo sviluppo delle nuove tecnologie low-carbon. Ma gioire della fine dell’industria petrolifera rischia di lasciare la bocca amara.

Quelli che lockdown globale dovuto al coronavirus sta infliggendo all’industria petrolifera sono solo gli ultimi, anche se più feroci, colpi di maglio che l’hanno fatta sprofondare in una delle peggiori crisi della sua ultrasecolare storia. All’esplodere della pandemia, l’industria del petrolio c’è infatti arrivata già indebolita. Per molteplici ragioni:

  • il contro-shock dei prezzi del 2014;
  • la disaffezione degli investitori, con un crollo dei valori azionari del settore energetico nell’S&P 500 del 40% contro un aumento del 56% dell’intero indice;
  • le ombre proiettate sul suo futuro dalla transizione energetica.

Dall’inizio dell’anno i prezzi sono scesi del 70% con una velocità di caduta superiore di tre volte a quella dei due passati contro-shock dei prezzi. In quello del 1997-1999 occorsero due anni perché tornassero ai livelli di partenza; in quello del 2014-2017 non vi sono più tornati.

Cosa accadrà questa volta non può dirsi, perché la crisi ha colpito contemporaneamente la domanda e l’offerta. E mentre la domanda non può reagire positivamente ai bassi prezzi – come dovrebbe accadere – perché impedita dalle misure di restrizione, l’offerta sta crollando a motivo dei bassi prezzi.

La “selezione darwiniana del mercato” rischia di lasciare sul campo il 70% delle shale oil companies USA

In quella che il settimanale Petroleum Intelligence Weekly (PIW) ha definito la “selezione darwiniana del mercato”,molte imprese cadranno sul campo se la crisi non si supererà in tempi abbastanza brevi. Soprattutto quelle che operano fuori dalle aree a basso costo del Medio Oriente o della Russia, tra cui le cosiddette independents che operano nello shale oil e che hanno consentito agli Stati Uniti nel 2019 – dopo 62 anni – di produrre più di quanto consumassero.

Se la fase di bassi prezzi perdurerà, si stima che il 70% di queste imprese (che contribuiscono per il 60% della produzione USA) possa fallire, avendo un breakeven medio superiore sino a tre volte i prezzi attuali e costi operativi per larga parte compresi nella fascia 50-60 doll/bbl.  

Fonte: UBS

Per contro, le grandi corporazioni nord-americane ed europee ce la faranno, anche se vanno registrando elevate perdite. Per la prima volta dalla II Guerra Mondiale, Shell ha annunciato un taglio dei dividendi (-66%) per accrescere la liquidità di 10 miliardi di dollari e ridurre a 35 doll/bbl il prezzo che le garantisca cash-flow positivi.

45 dollari al barile il prezzo medio per il 2020 secondo Eni

Altre imprese, come BP ed Eni hanno invece confermati i dividendi. Secondo quanto riportato dal PIW, Eni valuta che i prezzi si mantengano nella media dell’anno sui 45 doll/bbl, pari a quella dei primi quattro mesi dell’anno, ipotizzando quindi un loro rimbalzo rispetto ai 31 del bimestre marzo-aprile.

Il passato dimostra la capacità delle majors di superare cicli negativi dei prezzi anche con minimi a 10 doll/bbl, attraverso miglioramenti di efficienza produttiva, abbattimento di costi e breakeven (a discapito delle imprese fornitrici), utilizzo di innovative tecniche estrattive.

Verso una nuova fase di fusioni e acquisizioni

È prevedibile che all’uscita della crisi si avvii un processo di consolidamento industriale, con fusioni e acquisizioni (M&A), simile a quello che alla fine degli anni Novanta portò alla formazione delle super-majors. Ne saranno facile preda imprese minori ma anche di media-grande dimensione facilmente acquisibili dati i loro stracciati valori azionari. E, d’altra parte, meglio essere acquistati che perire.

L’Amministrazione Trump si è detta disponibile a sostenere l’industria petrolifera nazionale. L’Europa non lo farà, nonostante necessiti di imprese che le garantiscano approvvigionamenti esteri continui ed affidabili, superiori ai 9/10 dei suoi fabbisogni. La sicurezza energetica resta e temo resterà ancor più un imperativo. Altrimenti saranno gli altri a decidere per noi, da dove importare, a quali condizioni.

La sicurezza energetica diventa ancor più imperativa a fronte della politicizzazione del petrolio

L’Alleanza di Vienna che portò nel dicembre 2016 al formarsi dell’asse Arabia Saudita-Russia e all’ormai rinomato Opec Plus, prefigura secondo molti osservatori una maggior politicizzazione del petrolio a scapito dei meccanismi di mercato. Scenario tanto più plausibile se la caduta della produzione statunitense sotto i colpi della crisi sarà in parte permanente.

Un Presidente degli Stati Uniti che implora il Presidente Vladimir Putin e il Principe ereditario saudita di interrompere la “folle guerra dei prezzi” – adottando tagli della produzione sotto l’egida dell’Opec (nemico giurato del libero mercato made in USA) – dà conto di come lo scenario sia totalmente cambiato.

A parere di molti, si va prefigurando un duumvirato Arabia Saudita-Russia e rispettivi alleati, teso al controllo del mondo del petrolio. La dipendenza energetica sarà sempre più dipendenza politica. Lo sviluppo delle nuove tecnologie low-carbon, che potrebbero allentarne la criticità, è auspicabile e inevitabile, considerando l’acquisita piena competitività di solare ed eolico, grazie al formidabile crollo dei loro costi riportato nei recenti rapporti di Irena e BNEF.

La dipendenza energetica sarà sempre più dipendenza politica, è pertanto auspicabile e inevitabile lo sviluppo delle nuove tecnologie low-carbon

Finalmente le nuove rinnovabili non abbisognano più di alcun incentivo, mentre molti ritengono che la crisi attuale le possa addirittura agevolare nel confronto con le fonti fossili, come esposto nell’ultimo rapporto dell’Agenzia di Parigi. Una prospettiva confortante, che non elimina tuttavia la necessità di disporre di un’industria petrolifera solida, perché quello sviluppo richiede tempi lunghi e perché la componente europea vi sta investendo cifre sempre più consistenti (nel 2019 circa 5 miliardi di dollari).

Lo scenario di bassi prezzi del petrolio è verosimile perduri per molto tempo, perché la ripresa della domanda di petrolio dipenderà soprattutto dalla ripresa della mobilità che ne assorbe il 60%. Le misure di restrizione si allenteranno, ma si richiederanno comunque tempi lunghi perché possa riprendersi. L’interrogativo allora è se la futura offerta sarà a quel punto in grado di soddisfarla.

Se la futura offerta non sarà in grado di soddisfare la domanda, i prezzi aumenteranno a livelli oggi imprevedibili

Non può escludersi che possa dimostrarsi insufficiente: per la forte contrazione degli investimenti in corso da alcuni anni ed acuita dall’attuale crisi. Una fase negativa che è prevedibile si accentui per:

  • le accresciute incertezze di mercato;
  • una maggior avversione al rischio delle imprese;
  • la severa disciplina finanziaria che si sono date (non un dollaro o euro in più del cash-flow).

Meno investimenti oggi altro significano che minor offerta domani. Non verranno perforati nuovi pozzi, si chiuderanno quelli meno produttivi, quel che sta già avvenendo; si rallenteranno i progetti in essere e dilazioneranno o cancelleranno quelli previsti, i meno redditizi, giunti alla final investment decision. Nel Golfo del Messico come in Nigeria, nel Mare del Nord come in Texas, in Angola come in decine di altre località.

Se così sarà, una ripresa della domanda anche non ai livelli pre-crisi, potrebbe incontrare strozzature dal lato dell’offerta. Se così fosse, va da sé che i prezzi aumenterebbero a livelli oggi imprevedibili.

Una fine di cui gioire?

Una prospettiva che dovrebbe portare a riflettere prima di compiacersi che il coronavirus si porti via un’industria che resta ancora imprescindibile per molti anni nello sviluppo delle economie. A dispetto di chi resta convinto che del petrolio e del metano si possa fare a meno in tempi brevi; che questa epocale crisi sia una grande opportunità per passare al ‘dopo fossili’; che il crollo della domanda di petrolio – la peak oil demand – sia strutturale; che le risorse che pioveranno, se e quando pioveranno, dal cielo europeo, debbano essere destinate primariamente alla green economy.

Auspici solo in parte condivisibile dovendo fare il conto con un semplice fatto: che petrolio e metano, piaccia o no, contano ancor per oltre la metà dei consumi energetici e scalzarle con le economie letteralmente a terra è compito ancor più improbo se non impossibile. Perché il maledetto COVID-19 ha reso tutto più difficile.      


Alberto Clò è direttore della rivista Energia


Sulla crisi petrolifera leggi anche:
Petrolio: ma quale accordo “storico”?, di Alberto Clò, 15 Aprile 2020
L’Apocalisse del petrolio, di Alberto Clò, 2 Aprile 2020
Guerra dei prezzi: mercato o politica?, di Alberto Clò 16 Marzo 2020

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Foto: PxFuel

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