I prezzi negativi del WTI del 21 aprile hanno spinto numerosi analisti a prevedere l’inevitabile, vertiginoso e irreversibile rapido avvento della fine del petrolio. Non è il caso di compiacersene. In attesa che si compia la transizione energetica, di petrolio ce n’è ancora bisogno. Mentre una crisi energetica scatenata dalla pandemia potrebbe rappresentare una “tempesta perfetta” per lo sviluppo delle civiltà umane. Come già lo fu all’epoca dell’Impero Romano.
Il 21 aprile 2020 una strana notizia si è fatta strada nei media dominati dalla crisi sanitaria COVID-19, con un terzo della popolazione mondiale in lockdown e macabri bollettini giornalieri di contagiati e morti: –37 dollari al barile la quotazione del WTI!

Il lontano ricordo di prezzi superiori a 100 doll./bbl e l’estrapolazione paradossale di essere pagati per fare il pieno di carburante sicuramente ha colpito l’immaginazione di molti.
Questa anomalia è legata a fattori tecnici insiti nel funzionamento dei futures WTI, che impegnano gli acquirenti a prenderne consegna ad una data prestabilita presso il polo logistico (stoccaggio e pipelines) di Cushing, Oklahoma. Questo in teoria, nella pratica la consegna fisica non avviene quasi mai e i contratti (così come per il Brent all’ICE di Londra), sono soprattutto strumenti finanziari a fini sia speculativi che di copertura dei rischi (hedging).
Il 21 aprile era la data di scadenza del contratto WTI per consegna in maggio, e coloro che avevano ancora in mano contratti d’acquisto (si pensa soprattutto investitori non professionisti, in particolare clienti privati di fondi quotati in borsa come l’US Oil Fund e il fondo BAO della Bank of China) doveva vendere i propri contratti in una anomala situazione di crollo dei consumi dovuto alla pandemia, con mancanza degli acquirenti tradizionali di prodotto fisico (raffinerie, compagnie aree) e depositi stracolmi.
4,7 miliardi di dollari le perdite stimate dovute alle liquidazioni a prezzi negativi
I trader professionisti avevano già in precedenza riportato la scadenza dei propri contratti sul mese di giugno, mentre per numerosi clienti di questi fondi (gestiti molto male…) non c’è stata altra scelta che liquidare la propria posizione l’ultimo giorno a prezzi negativi, ossia pagando l’acquirente.
Si stima che le perdite totali dovute a questo collasso siano state dell’ordine di 4,7 miliardi di dollari. L’evento cristallizzava una situazione di crollo delle quotazioni dall’inizio della crisi legata al COVID-19. Un gran numero di analisti ha visto una conferma delle previsioni sull’inevitabile, vertiginoso e irreversibile declino dell’utilizzo di questa materia prima in tempi brevi.
La fine del petrolio? Sarei incline a non tirare conclusioni affrettate, e nemmeno ad auspicarle. La crisi che stiamo vivendo ci ricorda come lo sviluppo delle società umane sia condizionato da due fattori essenziali: malattie trasmissibili su larga scala (germi patogeni e virus) e disponibilità di energia in quantità sufficienti. L’avvento di una crisi energetica in concomitanza o immediatamente al seguito di una pandemia potrebbe rappresentare un netto arresto, se non arretramento, nello sviluppo delle società umane.
Lo sviluppo delle società umane è storicamente condizionato da 2 fattori: malattie ed energia
L’evoluzione stessa ha come motore l’energia. E l’energia, sulla Terra, ha una fonte principale, il Sole, che la irradia in ogni istante con 173.000 Terawatt, una potenza superiore di 10.000 volte al fabbisogno mondiale totale (circa 15 Terawatt).
Come riassume bene il biologo evoluzionista Douglas C. Wallace, “Il flusso costante di energia solare nella biosfera terrestre ha permesso lo sviluppo di sistemi sempre più complessi attraverso il meccanismo della codifica e duplicazione dell’informazione attraverso gli acidi nucleici (DNA e RNA). Per 3,5 miliardi di anni il costante flusso energetico, abbinato alla capacità di stoccaggio dell’informazione degli acidi nucleici e la selezione naturale sono risultati in organismi sempre più complessi, e quindi all’uomo.”
Un interessante esempio di effetto combinato delle pandemie e della variazione nella quantità di energia disponibile si trova nella recente interpretazione della caduta dell’Impero Romano da parte dello storico americano Kyle Harper. Tra le principali cause della caduta dell’Impero, che al suo apice controllava più di un terzo della popolazione mondiale, vi sono dapprima una serie di devastanti pandemie e infine un brutale cambiamento climatico.
Tra le principali cause della caduta dell’Impero Romano vi sono dapprima una serie di devastanti pandemie e infine un brutale cambiamento climatico
L’Impero Romano con la sua grande estensione e varietà di popolazioni, unite per la prima volta nella Storia da vasti ed efficienti sistemi di scambi e di trasporti, rese possibile l’avvento della prima pandemia di cui abbiamo conoscenza, la peste Antonina. Probabilmente un’epidemia di vaiolo (virus variola major) che decimò la popolazione dell’Impero tra il 165 e il 180 d.C. Fu seguita da altre pandemie, in particolare la devastante di peste bubbonica (batterio Yersinia pestis) ai tempi dell’imperatore Giustiniano nel VI sec. d.C., che avrebbe ucciso più della metà degli abitanti dell’Impero. A questa tragedia si sommò l’effetto dell’inizio della «Piccola Era Glaciale Tardo Antica» conseguente ad una serie di potenti eruzioni vulcaniche: il più forte rafreddamento nell’emisfero nord degli ultimi due millenni, che perdurò fino al 660 d.C.
La diminuzione brutale dell’energia disponibile (in questo caso solare) perturbò profondamente la produzione di cibo e l’organizzazione imperiale, ed ebbe conseguenze drammatiche e malthusiane sulle popolazioni e le condizioni di vita.
La diminuzione brutale dell’energia disponibile ebbe conseguenze drammatiche e malthusiane sulle popolazioni
All’inverso, le tecnologie della rivoluzione industriale del XIX secolo permisero all’uomo di avere a disposizione una concentrazione di energia inedita e tale da sostenere un’esplosione demografica senza precedenti. Tuttora, l’energia disponibile rimane un fattore limitante per lo sviluppo.
Anche se COVID-19 avrà un effetto rilevante sui consumi di energia del 2020 (-6% secondo l’IEA), questi hanno seguito un profilo di costante aumento negli ultimi 25 anni (+75% nel 1993-2018 per un totale di 14 Gtoe nel 2018) e passato il punto critico della crisi sanitaria dovrebbero tornare a crescere sotto la spinta in particolare delle economie non OCSE.
La pandemia rischia inoltre di incidere negativamente sulle emissioni di CO2. Il trend di diminuzione delle emissioni dovuto alla crisi sanitaria (-8% secondo l’IEA) può rapidamente neutralizzarsi e invertirsi. I paesi Ocse, in particolare gli europei e gli Stati uniti, su cui ricade l’onere essenziale dello sforzo per la transizione alle fonti rinnovabili, sono anche quelli più colpiti dalla pandemia, con possibili riduzioni degli investimenti per la transizione energetica dettati dalla crisi economica e dal debito galoppante.
È verosimile inoltre che i fabbisogni di energia aumentino ulteriormente a causa dei cambiamenti climatici, che spingerebbero i consumi legati al raffrescamento e all’agricoltura, non compensati da un minore fabbisogno invernale. Un recente studio stima questo incremento nell’intervallo 11-27% all’orizzonte 2050 nel caso di un aumento moderato della temperatura; il doppio, nel caso di un forte aumento. Le regioni più colpite saranno quelle tropicali e quelle meridionali di Stati Uniti, Cina ed Europa.
Già prima di COVID-19, la IEA temeva per questo decennio un gap tra domanda e offerta di petrolio a causa degli scarsi investimenti
Nel frattempo, il crollo dei prezzi sta mettendo in grave difficoltà il settore petrolifero, e in particolare lo shale oil degli Stati Uniti. Non è una buona notizia. L’IEA valutava a inizio anno che in mancanza di nuovi investimenti la produzione di petrolio potrebbe essere drammaticamente insufficiente già in questo decennio, con un gap tra domanda e offerta di 28 milioni bbl/g (su una domanda totale di 87 mil. bbl/g nel 2030). Questo, prima che esplodesse la pandemia e crollassero i prezzi.
In questo scenario di grave disequilibrio tra domanda e offerta non solo i prezzi di Brent e WTI potrebbero rapidamente ritornare a un livello tra i 70 e i 100 doll./bbl, ma perfino salire a livelli oggi difficilmente immaginabili.
Perv evitare questa “tempesta perfetta” di crisi energetica innescata dalla pandemia è necessario agire con equilibrio, mantenendo le capacità di produzione e investimento dell’industria petrolifera in modo da poter gestire i bisogni energetici crescenti durante la transizione inevitabile verso le fonti rinnovabili o comunque decarbonizzate.
Nel 2020 un’umanità tecnologicamente avanzata che credeva essersi liberata per sempre dalle epidemie che ciclicamente devastavano intere popolazioni, si è ritrovata incredibilmente vulnerabile rispetto ad antichi e conosciuti nemici: i virus. Forse non dovrebbe dimenticare che il suo sviluppo dipende anche e soprattutto dalla quantità di energia di cui dispone.
Orlando Ferrario è dirigente a Parigi e specialista in strategia aziendale con esperienza nel settore Oil&Gas
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Foto : La peste di Azoth, Nicolas Poussin da Wikipedia
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