18 Giugno 2020

Un’ondata di gelo sugli investimenti energetici

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Gli investimenti energetici sono essenziali per la transizione energetica verso un’economia a basse o nulle emissioni di carbonio e il contrasto ai cambiamenti climatici. Qual è il loro andamento e come rischia di mutar a fronte della pandemia e della crisi economica che le farà seguito? Il nuovo rapporto annuale dell’Agenzia Internazionale dell’Energia non si limita, come al solito, a un rendiconto a consuntivo ma propone stime per il 2020. E sono a dir poco raggelanti...

È uscito nei giorni scorsi l’annuale rapporto dell’Agenzia di Parigi sugli investimenti energetici. Non a consuntivo, come al solito, ma con stime previsive sul loro andamento nel 2020. Un rapporto molto utile perché dà conto dello tsunami che si è abbattuto sul mondo dell’energia e sugli effetti depressivi che ne potrebbero derivare sugli investimenti. Senza i quali, è banale dirlo, non vi sarà l’auspicata transizione energetica al dopo-fossili, ma solo l’inerziale andamento delle cose: il ‘business as usual’.

Quel che del resto è accaduto dal 2015, quando si sottoscrisse l’Accordo di Parigi. Un andamento, secondo il rapporto dell’Agenzia dello scorso anno, che non mostrava “alcuna riallocazione degli investimenti necessaria a portarli in linea con gli obiettivi dell’Accordo di Parigi” (IEA, World Energy Investment 2019, pag. 6).

L’andamento degli investimenti non mostra “alcuna riallocazione degli investimenti necessaria a portarli in linea con gli obiettivi dell’Accordo di Parigi” – IEA, World Energy Investment 2019

In sostanza, al di là dei grandi proclami nei Summit internazionali, del dichiarato impegno – più presunto che vero – di alcuni grandi gruppi energetici, della sostenuta più che piena competitività delle tecnologie low-carbon, le cose non sono andate come sostenuto e promesso. Nel quadriennio 2015-2019 la crescita dei consumi di energia e delle emissioni è stata superiore a quella nel precedente quadriennio 2011-2015. Nel 2018 dei 1.800 miliardi di dollari investiti nel mondo, solo un terzo è stato destinato a tecnologie low-carbon, contro i due terzi alle fonti fossili.

Con queste proporzioni la struttura del mix energetico non era destinata a cambiare gran che. La batosta del coronavirus ha peggiorato le cose, minacciando di impattare su tempi e traiettoria della transizione energetica e di ridefinire le priorità dei governi: privilegiando le urgenze di breve periodo (salvataggi imprese, difesa occupazione, redditi famiglie) sulle esigenze di lungo periodo, quale appunto i cambiamenti climatici.

Dei 7,3 trilioni di dollari deliberati dai paesi G20 per la ripresa economica solo il 4% può definirsi green

Dei 7,3 trilioni di dollari deliberati dai paesi aderenti al G20 a supporto della ripresa delle economie solo il 4% può definirsi green, in grado cioè di ridurre le emissioni di gas serra. Ne è ulteriore testimonianza il fatto che dopo il flop della COP 25, la COP 26 programmata a Glasgow per il prossimo novembre continua ad essere rinviata, da ultimo a fine 2021, su richiesta della Gran Bretagna che avrebbe dovuta organizzarla in partnership con l’Italia, totalmente muta al riguardo.

I dati da cui parte l’analisi dell’Agenzia sono raggelanti. Il settore più colpito è quello degli idrocarburi, col solo petrolio che potrebbe conoscere nel 2020 un calo delle vendite di 1.000 miliardi di dollari rispetto all’anno scorso. Le perdite per il settore elettrico sono invece di (almeno) 180 miliardi di dollari.

Non solo idrocarburi (-30%), anche rinnovabili (-10%) e infrastrutture elettriche (-8%)

Minori ricavi, minori cash flow, minor liquidità, elevati debiti, minor domanda potrebbero causare, prevede l’Agenzia, un calo nel 2020 degli investimenti di circa un quinto, pari in termini assoluti a 400 miliardi di dollari: concentrato negli idrocarburi (-30%); e in minor misura nelle rinnovabili (-10%) e, sorprendentemente, nelle infrastrutture elettriche (-8%), nonostante la buona redditività garantita dai regolatori.

Calo da confrontarsi non tanto con gli investimenti degli scorsi anni, ma con quelli ampiamente superiori che si sarebbero dovute sostenere per modificare i sistemi energetici mondiali. Quelli nelle rinnovabili, ad esempio, avrebbero dovuto raddoppiare (Fatih Birol su Le Figaro, Les investissements dans l’énergie sont en chute libre) così come nelle infrastrutture elettriche per sostenerne la penetrazione.

La non escludibile possibilità che si sia avviato un ciclo negativo dei prezzi delle fonti fossili unita all’incertezza che avvolge ogni variabile reale, rischia di allontanare il contenimento del surriscaldamento.

Più che con gli investimenti degli scorsi anni, il calo va confrontato con quelli ampiamente superiori che servirebbero per la transizione e il contrasto al climate change: le sole rinnovabili avrebbero dovuto raddoppiare

La transizione energetica richiederebbe secondo accreditate stime 50 trilioni di dollari entro il 2050, pari a circa 1,7 trilioni ogni anno. Insostenibili nelle attuali contingenze anche per l’indebolimento del sistema finanziario internazionale, col non escludibile rischio che si inneschi una nuova ‘crisi finanziaria’.

Bassi prezzi delle fossili e del carbonio, riducono la competitività delle alternative low-carbon, mentre la gravissima crisi socio-economica che attanaglia molti paesi emergenti li spinge a continuare a preferire il carbone, dilazionando investimenti nelle rinnovabili.

L’allentamento delle politiche climatiche parrebbe d’altra parte essere compensato dalla parallela riduzione delle emissioni (-8% la stima per il 2020 ai livelli di dieci anni fa), effetto anch’esso subdolo del coronavirus. La discontinuità delle emissioni che si ebbe con la recessione del 2008, dimostra tuttavia che la ripresa delle economie porta con sé un loro aumento, anche se la dimensione della crisi è oggi sei volte superiore.

Vi è largo consenso che la crisi offra al mondo intero un’opportunità unica per una più decisa azione pro-clima

Non è comunque da escludere che sulla scia della recessione livelli e struttura dei consumi di energia possano modificare preferenze e comportamenti dei consumatori portando ad una permanente erosione della domanda. Videoconferenze, lavoro da remoto, vacanze “nel proprio cortile”, shopping online, potrebbero far sì che niente sia più come prima (Si veda Outbreak status and outlook in Rystad Energy, COVID-19 Report, 28 maggio 2020).

Vi è largo consenso che la crisi offra al mondo intero un’opportunità unica per una più decisa azione pro-clima veicolando gli stimoli all’economia verso una crescita cosiddetta sostenibile. È quanto affermano, tra gli altri, il premio Nobel Joseph Stiglitz e Lord Nicholas Stern in un recente working paper: “Imminent fiscal recovery packages could entrench or partly displace the current fossil-fuel-intensive economic system (via) stimulus policies that are perceived to deliver large economic multipliers, reasonably quickly, and shift our emissions trajectory towards net zero” (Will COVID-19 fiscal recovery packages accelerate or retard progress on climate change?). È questa la via imboccata ancor prima del coronavirus dall’Unione Europea con lo European Green Deal (EGD) tesa, unica area al mondo, a conseguire una neutralità carbonica nel 2050, e ribadita successivamente con ancor maggior forza.

Realizzare progetti destinati a essere poco utilizzati, se la domanda tarderà a riprendersi, non è sostenibile

Tornando al calo degli investimenti previsto dall’Agenzia gioca anche, tra le sue ragioni, il rischio di acuire, investendo, l’eccesso di capacità produttiva che attraversa tutti i settori energetici con conseguente ulteriore pressione al ribasso dei prezzi e dei margini. Realizzare progetti destinati a essere poco utilizzati, se la domanda tarderà a riprendersi, non è sostenibile. Affannate e affamate dal presente le imprese tirano a sopravvivere più che guardare al futuro.

La riluttanza a impegnare capitali – sul versante sia dell’offerta che della domanda – potrebbe spingere le imprese o le famiglie a ridurre il ‘tasso di rinnovo’ delle loro macchine o delle loro caldaie, allungandone il ciclo di vita, così rallentandone il miglioramento tecnologico e l’efficientamento energetico.

Né vi è poi alcuna garanzia che i consumatori siano diventati migliori, dopo il trauma del coronavirus, preferendo beni energeticamente più efficienti, capovolgendo, ad esempio, la propensione ad acquistare SUV in quantità tale da annullare i benefici della vendita di auto elettriche (acquisti effettuati, presumibilmente, dalle stesse fasce di reddito, dato l’alto costo di entrambe le categorie di veicoli).

Se, come molti sostengono, l’attuale crisi costituisce una grande opportunità per cambiare il (deludente) corso delle cose, è anche vero che le molte incertezze che l’attraversano potrebbero allontanarlo dagli obiettivi di piena sostenibilità

La riluttanza a investire solleva lo spettro – sostiene l’Agenzia – di un sistema energetico caratterizzato da sistematici sotto-investimenti in nuove tecnologie, continuando a far affidamento sull’esistente stock di capitale. Conclusione: se, come molti sostengono, l’attuale crisi costituisce una grande opportunità per cambiare il (deludente) corso delle cose, è anche vero che le molte incertezze che l’attraversano potrebbero allontanarlo dagli obiettivi di piena sostenibilità.

Generando, ammonisce l’Agenzia, effetti perniciosi nel medio-lungo periodo. Una contrazione degli investimenti non proporzionale allo shock della domanda e i lunghi tempi associati ai progetti di investimento (specie per le rinnovabili sempre più oggetto di ostracismo) potrebbero determinare in futuro un mismatch domanda/offerta quando l’economia mondiale, come è sperabile avvenga, ritroverà un profilo di crescita. “Col rischio – evidenzia l’Agenzia – che i tagli d’oggi creino in futuro squilibri nei mercati tali da generare nuovi cicli espansivi dei prezzi dell’energia” che ostacolerebbe l’uscita dalla buca della recessione.

A iniziare, ancora una volta, dal tutt’altro che defunto petrolio, ove il taglio degli investimenti che si profila nel corso del 2020 ridurrebbe l’offerta nel 2025 di 9 milioni di barili al giorno: col rischio che essa non sia in grado di soddisfare una domanda pur inferiore ai livelli pre-crisi di 100 milioni barili al giorno con un inevitabile rimbalzo all’insù dei prezzi. Meno petrolio ma più caro.


Alberto Clò è direttore della rivista ENERGIA

Sul tema investimenti energetici leggi anche:
Industria petrolifera: la via della transizione passa tra Scilla e Cariddi, di Enzo Di Giulio, 11 Febbraio 2020

Transizione, investimenti e nuove dipendenze energetiche, di Alberto Clò, 29 Luglio 2019
Se gli investimenti energetici non vanno nella direzione auspicata, di Redazione, 12 Luglio 2019
Gli investimenti energetici del 2017, di Redazione, 18 Luglio 2018

Foto: Pexels

1 Commento
edoxit 

Egr. prof. Clò , i suoi articoli sono decisamente interessanti e ne condivido in pieno la visione sebbene al momento tutt’altro che premianti nei mercati finanziari. Tuttavia sul costo e la resa di tali investimenti vi sono alcuni luoghi comuni che nn corrispondono ai fatti. Dalle call conference dei principali gruppi petroliferi emerge un irr di circa il 10-11% , peraltro confermato in precedenza da enel in alcuni suoi recenti investimenti. Dati che essendo forniti da operatori attivi nel settore sono più attendibili dei dati degli istituti di ricerca. Ma come osservato dall’amministratore delegato di total questo vale a livello di investimenti e nn di equities. Nella vendita di questa tipologia di progetti sono standard i cosiddetti contratti ppa con vendita anticipata di energia prodotta dal progetto stesso. questo consente un leverage che porta al ribasso il costo dell’investimento generando che stando alle ultime transazioni , total in India ed Eni falck negli states , porterebbe il costo degli stessi a circa 500 mil/gw di potenza prodotta contro i circa 700 della realizzazione diretta. In tal caso la redditività dell’investimento sarebbe del tutto comparabile con quella del settore della raffinazione verde , irr 15%, o di poco inferiore come peraltro confermato dai roace sia di Bp nella sua revisione del piano pluriennale che da total negli annessi alla ultima conference call. Questo senza tener conto della resa immediata che alcuni interlocutori del settore oil , vedi equinor , stanno facendo materializzando parte dei loro investimenti , e allo sviluppo verticale del business. Peraltro questo sviluppo verticale è la vera trasformazione poichè sta coinvolgendo sia la rete di vendita che le stazioni di servizio rendendole dei servizi multi-brand multi-servizio. Quello che si profila è un integrazione verticale del settore con le rinnovabili come parte del settore stesso ( sarebbe il caso di osservare come i settori più a rischio da questa presunta innovazione siano quelli dei servizi schiacciati sia dall’espansione bancaria che da quella dell’oil che peraltro , vedi l’eporium multi-servizio Eni , si stanno interconnettendo fra loro). Tutto questo per evidenziare che nn è affatto vero che il settore passi dalle rese stratosferiche del business oil a quelle dimezzate del settore. Anche perchè l’irr dell’investimento singolo oil nn tiene conto di numerosi aspetti del business nella sua totalità tra cui la rischiosità dell’investimento , il costo degli insuccessi , il costo dei finanziamenti e altro che nel totale degli investimenti portano i due business ad essere comparabili a livello di roace anche senza l’effetto leva, si veda gli annessi sul roace dell’ultima conference call total. E questo per il rendimento operativo perchè sul rendimento netto pesa la scure della tassazione che nel caso dell’oil è del 60-70% nell’upstream mentre nelle rinnovabili pesa per il 20-30%. Quindi le nuove vie per le società petrolifere sono ben lunghi dall’essere disastrose e tutto ciò è tanto più vero quanto più una compagnia è esposta nell’upstream rispetto a quelle che hanno una forte componente di mid e downstream poichè quest’ultimi nn presentano i rischi dell’upstream dando luogo ad una maggior redditività e una minor tassazione. Per questo appare incomprensibile il calo borsistico della nostra Eni a rispetto ad altre compagnie come Total ben più forti nel mid-downstream. Tutto questo si può anche riscontrare nei bilanci di alcune compagnie del settore green energy come enel green power che a fronte di circa 43 gw di potenza mostra una resa operativa di circa 4.5 mld con una crescita prevista per il 2020 di 3.3 gw a fronte di investimenti per circa 2 mld. Sono d’accordo con lei anche sul futuro del settore che inevitabilmente vedrà una fusione fra i settori utilities e quello oil e anche sul fatto che queste ultime siano nettamente avvantaggiate nn solo per eventuali pratiche di dumping ma per le sinergie di costo. Ad esempio scegliendo di installare un impianto wind offshore , su cui peraltro pesa la barriera di ingresso del knowhow per le aziende nn oil , su un esistente impianto gas si potrebbe sfruttare la connessione gas per trasportare l’energia prodotta green e trasformata con il power to gas secondo la strategia near field già messa in campo nell’oil da eni. Quanto agli scenari…onestamente mi sembra assai poco credibile che al 2050 circa l’80% del parco auto sia elettrico sopratutto dopo lo shock pandemico come previsto da bp. Penso che lo scenario opec sia quello più probabile e che cmq l’oil è ben lungi dall’essere fuori dalla competizione. E questo a prescindere dalle considerazioni sulla fondatezza , direi assolutamente presuntiva , delle considerazioni più che altro di autorità su caso sia green e su quanto realmente sia inquinante rimettere in circolo qualcosa che prima era presente. A fronte di questa lunga dissertazione Le vorrei chiedere cosa ne pensa delle dispute sugli oleodotti europei e sulla battaglia innescata e su quanto siano realmente indicativi di una volontà diffusa di abbandonare nn tanto l’oil quanto il gas tenuto conto del ruolo anche e sopratutto politico che tale posizione le permette di giocare. Anche le recenti dispute nel mediterraneo orientale la dicono lunga sull’importanza di queste fonti. E a questo riguardo mi piacerebbe il suo parere sulla questione della presunta scoperta turca di un giant e sopratutto sulle tempistiche previste che hanno citato esplicitamente il campo di zohr. Tempistiche solo Eni è in grado di garantire e che aprono un interessante potenziale risvolto nell’area. Peraltro con la riapertura del terminale di Damietta mettono l’operatore italiano al centro dell’hub del gas mediterraneo. La ringrazio per l’attenzione


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