L’industria degli idrocarburi deve fare i conti con la dura realtà del dopo-coronavirus. Schiacciata tra gli annunci di politiche climatiche aggressive e l’incertezza sui futuri livelli della domanda, l’intera industria si sta rattrappendo. Quali conseguenze? Il passaggio verso tecnologie sostenibili è politicamente virtuoso ma economicamente meno fruttuoso, mentre il disallineamento tra domanda e offerta per i mancati investimenti potrebbe portare ad un’impennata dei prezzi funesta per l’uscita dalla recessione. Se dovesse verificarsi, non si incolpi l’imprevedibilità del mondo del petrolio ma l’incapacità a comprendere la situazione attuale, alla quale si preferisce fantasticare su scenari immaginifici.
Mentre dilaga l’entusiasmo aspettando la pioggia di denaro (intorno ai 550 miliardi di euro) che cadrà dall’Europa per dar seguito al Green Deal, l’intera industria energetica – europea e non – deve fare i conti con la dura realtà del dopo-coronavirus. La capitalizzazione delle imprese energetiche quotate nel mercato americano si è ridotta nel primo trimestre 2020 di 1.000 miliardi di dollari, circa due volte quella dell’intera borsa italiana.
A soffrirne sono tutti i comparti ad iniziare da quello degli idrocarburi. Comparto che alla caduta della domanda, dei prezzi, dei cash flows, deve ora fronteggiare gli impairment test sulle aspettative di minori prezzi del petrolio.
La capitalizzazione delle imprese energetiche sul mercato USA si è ridotta nel primo trimestre 2020 di 1.000 miliardi di dollari; a soffrire di più, le oil&gas
Un campione delle 102 maggiori imprese americane ha apportato svalutazioni per 92 miliardi di dollari, pari a circa il 10% del net present value delle loro riserve provate.
17,5 miliardi di dollari quelle apportate da BP dopo aver ridotto le aspettative al 2050 dei prezzi del petrolio da 70 a 55 dollari al barile e di quelli del gas da 4 a 2,9 doll./Mbtu.
22 miliardi di dollari quelle di Shell, per aver abbassato da 60 a 50 doll/bbl le previsioni di prezzo.
Per Eni la svalutazione è stata molto limitata, 3,5 miliardi di euro (upstream-raffinazione), presentata comunque come “miglior bilanciamento del portafoglio” volto a fare del Gruppo “leader della decarbonizzazione”.
BP, Shell, Eni sono tra le compagnie che hanno svalutato i propri asset, solo ExxonMobil continua a credere nel futuro del petrolio
Solo ExxonMobil continua a credere nel futuro del petrolio – avvantaggiandosi del disimpegno altrui – col rifiuto ad apportare alcuna svalutazione.
Non tutte le imprese ce la faranno, con una selezione darwiniana che porterà al fallimento di molte imprese indipendenti; a consolidamenti simili a quelli che alla fine degli anni 1990 portarono alla formazione delle mega-majors; a cessioni di asset, anche se non è facile trovare acquirenti; a tentativi di scalata, ostili o meno, specie di società che non credono al futuro del petrolio.
Le operazioni di M&A conosceranno una ripresa, come avvenuto con l’acquisto da parte della major Chevron per 13 miliardi di dollari (debiti compresi) di Noble Energy, operatrice del maxi giacimento di metano Leviathan nelle acque di Israele.
Schiacciata tra gli annunci di politiche climatiche aggressive e l’incertezza sui futuri livelli della domanda, l’industria degli idrocarburi si sta rattrappendo
Al di là della contingenza, è comunque l’intera filiera industriale degli idrocarburi che si sta rattrappendo: schiacciata tra l’incertezza sui futuri livelli della domanda e gli annunci di politiche climatiche aggressive per accelerare una transizione energetica che semplicemente non c’è – se sono veri i dati dell’Agenzia di Parigi che riportano una quota delle fossili nel mix energetico mondiale nel 2019 dell’81% contro l’80% del 2000 – cui si aggiungono la pressione degli azionisti a ridurre il peso dei business tradizionali.
L’esplorazione è il primo ambito sacrificato, con costi di nuovi progetti che variano da 1 a 10 miliardi dollari e tempi lunghi fino a un decennio
La scelta della generalità delle imprese è stata quella di ridurre pesantemente gli investimenti a partire da quelli nell’esplorazione. Individuare e realizzare un nuovo progetto potrebbe costare d’altronde da 1 a 10 miliardi dollari e richiedere sino a un decennio per divenire produttivo.
Così facendo le imprese taglierebbero però il ramo su cui stanno non infelicemente appollaiate. Perché decarbonizzare “shiftando” verso tecnologie sostenibili sarà politicamente virtuoso ma molto penalizzante dato un profitability gap sino a quattro volte inferiori rispetto all’attività petrolifera.
Il passaggio verso tecnologie sostenibili è politicamente virtuoso ma economicamente molto meno fruttuoso
Senza investimenti nell’upstream – stimati nel 2020 in circa 340 miliardi di dollari contro gli 800 miliardi del 2014 – l’offerta inevitabilmente si ridurrà: dell’8% all’anno per il petrolio e del 6% per il gas metano. Con prezzi oggi poco al di sopra dei 40 dollari al barile, metà delle riserve mondiali, stima Rystad Energy, è troppo costosa per essere estratta (Si veda The bottom of the barrel, The Economist).
Se la domanda riprenderà, come sostiene l’Agenzia di Parigi, sarà quindi inevitabile un balzo dei prezzi stimato da Jp Morgan nel 2025 addirittura a 190 dollari. D’altra parte nel 2011 la perdita di 2 milioni di barili al giorno di greggio libico fu sufficiente a spingere i prezzi a 120 dollari al barile, nemmeno tre anni dopo la crisi finanziaria.
190 doll./bbl l’impennata che potrebbe subire il prezzo del petrolio al 2025 – JP Morgan
Rystad Energy, pur condividendo questa analisi, ritiene che i prezzi non andrebbero oltre i 60-70 dollari al barile perché a questi livelli la produzione, a partire dallo shale oil americano, potrebbe riprendere. Ampio è comunque il consenso che vi sia il rischio di passare in pochi anni dallo scenario di oversupply che ha caratterizzato il passato quinquennio ad uno di undersupply con un forte “price spike” come da ultimo sostenuto anche dal Financial Times.
Se così malauguratamente dovesse accadere, l’uscita dalla buca della recessione sarà ancor più difficile, mentre a nulla potrà l’ancora neonata transizione energetica. Non si incolpi però, se questo avverrà, l’imprevedibilità del mondo del petrolio ma si prenda atto dell’incapacità a comprendere la situazione attuale, evitando di rincorrere scenari lontanissimi dall’avverarsi: a partire dalla retorica ambientalista sulla transizione energetica.
Dovesse accadere, non si incolpi l’imprevedibilità del petrolio
Ciascuno desidera bassi prezzi della benzina, senza però comprendere cosa significhino prezzi troppo bassi. I loro cicli si sono verificati anche in passato. Ma processi di aggiustamento ai prezzi dell’offerta e della domanda sono stati sempre in grado di recuperare condizioni di equilibrio dei mercati. Questa volta non è così: perché domanda e offerta più che ai prezzi rispondono ad altre variabili all’economia (la prima) e alla crisi delle imprese (la seconda). Col concreto rischio che possano confliggere.
Alberto Clò è direttore della rivista ENERGIA
Sul tema petrolio e investimenti energetici leggi anche:
Un mercato dissolto, di Redazione, 3 Luglio 2020
Un’ondata di gelo sugli investimenti energetici, di Alberto Clô, 18 Giugno 2020
Pandemie e crisi energetiche: la fine del petrolio non è (al momento) auspicabile, di Orlando Ferrario, 27 Maggio 2020
Darwinismo petrolifero, di Alberto Clô, 5 Maggio 2020
Petrolio: ma quale accordo “storico”?, di Alberto Clô, 15 Aprile 2020
Foto: Pixabay
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