19 Agosto 2020

L’importante ora è spendere bene

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Tra European Green Deal e fondi per la ripresa post-pandemica, l’Unione Europea metterà a disposizione un notevole ammontare di capitali da destinare ad investimenti “verdi”. Molti o pochi? Molti rispetto al niente del passato; niente rispetto al quanto necessario per raggiungere la neutralità carbonica. Oltre al fatto, di cui non sembra tenersi conto, che questi fondi sono gravati da strette condizionalità, cruciale sarà la loro destinazione: secondo l’Agenzia Internazionale dell’Energia, le rinnovabili tradizionali (solare ed eolico) possono contribuire solo per un quarto all’obiettivo, mentre il restante dovrà essere colmato da tecnologie non ancora pienamente sviluppate. È necessario quindi puntare su queste e non continuare a sussidiare soluzioni oramai mature e sempre meno efficaci.

Una leggera euforia sta attraversando nel nostro Paese la galassia degli interessi costituiti nell’energia. Il motivo: la possibilità di beneficiare della gran massa di soldi messa in campo dall’Unione Europea per dar seguito allo European Green Deal. Da qui, il magnificat di ogni opzione tecnologica, vecchia e nuova che sia, da cui dipenderà la riduzione delle emissioni per guadagnare nel 2030 la piena neutralità carbonica, al netto logicamente degli esiti nefasti della crisi causata dalla pandemia.

In un recente rapporto l’Agenzia di Parigi ha sostenuto che: “mentre le attuali tecnologie possono contribuire alla riduzione delle emissioni, sono del tutto insufficienti a conseguire l’obiettivo net-zero-carbon”. Le rinnovabili tradizionali, specie solare ed eolico, possono contribuirvi solo per un quarto, mentre per i tre quarti bisognerà fare affidamento su altre tecnologie, ora allo stato di prototipo o meramente dimostrativo.

Solare ed eolico possono contribuire solo per ¼ alla neutralità carbonica, il resto dovrà essere colmato da tecnologie non ancora pienamente sviluppate – Agenzia Internazionale dell’Energia

È necessario quindi puntare su queste e non continuare a sussidiare soluzioni mature sempre meno efficaci, pur se più efficienti per il drastico calo dei loro costi. Insomma: se sono in grado di camminare da sole, non abbisognano di stampelle.

Per raggiungere la neutralità carbonica bisognerà, bisognerebbe, realizzare investimenti di gran lunga superiori ai flussi correnti. La Commissione ha sostenuto che per ridurre del 40% al 2030 le emissioni europee di gas serra ne necessitano 260 miliardi addizionali ogni anno.

Cifra che si innalza di molto se l’asticella della riduzione, come vorrebbe la Commissione, venisse portata al 50%-55%. Quel che richiede un aumento della spesa più che proporzionale, data la curva crescente dei costi marginali di abbattimento delle emissioni.

Per ridurre del 40% al 2030 le emissioni europee di CO2 servono 260 miliardi addizionali ogni anno – Commissione europea

Di quanto superiore? La Commissione non l’ha calcolato, essendo le sue proposte come sempre squisitamente politiche, disancorate cioè da ogni fattibilità economica, così incurante delle ricadute sull’economia e sulla competitività delle industrie.

Diciamo, grosso modo, che bisognerebbe investire ogni anno 450 miliardi euro addizionali. Ovvero, in dieci anni, 4.500 miliardi di euro. I fondi messi a disposizione dal Consiglio Europeo rappresenterebbero poco più di un decimo.

Con la tribolata decisione del 21 luglio, l’Unione per la prima volta sottoscrive debito europeo mettendo a disposizione dei 27 paesi membri 2.364 miliardi di euro: 1.074 miliardi tratte dal bilancio comunitario 2021-2017, 750 miliardi come Recovery Fund, poi denominato Next Generation EU (NGEU) (390 come sussidi e 360 come prestiti), 540 a valere su altri strumenti (MES, BEI, Sure).

All’Italia ne spetteranno 209 miliardi (82 sussidi, 127 prestiti). Mentre la maggior parte delle risorse dovrà essere destinata alla ripresa economica, il 30% del bilancio comunitario e NGUE, per 547,2 miliardi euro, dovrà essere destinato alla realizzazione di investimenti verdi.

547,2 miliardi euro, molti o pochi?

Molti o pochi? Molti rispetto al niente del passato; niente rispetto al fabbisogno futuro. Gli ecologisti già ne denunciano l’insufficienza, con un possibile gap di 1.600 miliardi di euro.

Attorno alle risorse rese disponibili e al loro intreccio con il Green Deal si stanno alimentando molte speranze. Prima che si traducano in effettivi investimenti green, necessiteranno tuttavia tempi lunghi. Le decisioni del Consiglio dovranno infatti essere ratificate dal Parlamento europeo, che ha già espresso forti dissensi, ed essere infine approvati dai Parlamenti nazionali.

L’effettiva erogazione dei fondi – spalmata nell’arco dei sei anni della legislatura europea – avverrà dopo la presentazione dei piani nazionali da parte degli Stati membri che la Commissione dovrà esaminare ed approvare, sotto lo sguardo feroce dei paesi ‘frugali’.

I fondi, in sostanza, sono gravati da strette condizionalità, di cui non sembra tenersi conto, rispetto ad altri possibili fondi. I tempi per poterne disporre sono poi molto lunghi ed incerti, mentre l’orizzonte del 2030 è ormai prossimo considerando i tempi degli investimenti.

3 criteri per l’Italia per spendere bene

Non ci si illuda comunque che i soldi siano tutto. L’importante è il modo in cui saranno spesi, soprattutto, ma non solo, per presentarci credibili all’esame degli organismi europei, ed i criteri che si seguiranno. Tre in particolare.

Primo: concentrare gli interventi, all’interno di una strategia globale, verso alcune prioritarie opzioni tecnologiche, coagulando attorno ad esse le eccellenze scientifiche e industriali del Paese, così da offrire opportunità di riconversione e di crescita alla nostra industria.

Secondo, speculare al punto precedente, non dare soldi a pioggia in interventi di scarsa se non negativa efficacia (come incentivare monopattini).

Terzo: perseguire un’ampia cooperazione internazionale sui progetti più qualificanti, che consenta all’Europa di acquisire una propria autonomia, superando l’attuale sudditanza estera, specie verso la Cina. Politiche unilaterali salvano la coscienza ambientale ma a poco o nulla valgono.

Guardando in casa nostra determinante saranno le procedure e l’azione dell’organismo tecnico cui sarà demandato il compito di vagliare i progetti qualificabili come green, al di là della tassonomia europea. Sulla base, si spera, di processi decisionali veloci ma fondati su approfondite istruttorie, evitando interventi di breve respiro ma premianti quanto a consenso elettorale. Di risorse in passato ne abbiamo gettate già troppe per permetterci altre dissennatezze.


Alberto Clò è direttore della rivista ENERGIA

Sul tema investimenti energetici leggi anche:
Legare PPA a ETS per favorire gli investimenti, di Redazione, 9 Luglio 2020
La Tassonomia sta andando nella direzione sbagliata, di Ilkka Räsänen, 8 Luglio 2020
Odissea di investimenti e la fitta tela del Green Deal, di Redazione, 26 Giugno 2020
Un’ondata di gelo sugli investimenti energetici, di Alberto Clô, 18 Giugno 2020

Foto: Unsplash

1 Commento
Leo 

Nè in questo articolo nè, purtroppo, nel Green Deal Europeo o nella bozza nota di quello italiano c’è anche solo un accenno all’urgenza di limitare la produzione di beni, specie se di alto costo energetico. Eppure ce lo hanno raccomandato – se vogliamo salvare la vita sulla Terra – voci autorevoli come Vincenzo Balzani in Italia,
https://www.senato.it/application/xmanager/projects/leg18/attachments/documento_evento_procedura_commissione/files/000/000/440/Balzani_Salvare_il_Pianeta_Prima_parte.pdf ,

l’European Environmental Bureau in Europa , il cui lungo rapporto è sintetizzato in questo articolo di Francesco Paniè – che ne contiene anche il link

https://www.lastampa.it/tuttogreen/2019/08/28/news/il-mito-della-crescita-verde-portera-al-collasso-ecologico-1.37371005

e, implicitamente, il Rocky Mountains Institute in America:

https://rmi.org/how-much-co2-is-embedded-in-a-product/

Leo


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