26 Agosto 2020

Petrolio: la tenuta dei prezzi e la iattura di una minore offerta futura

LinkedInTwitterFacebookEmailPrint

I prezzi del petrolio si sono ripresi dal tracollo visto durante i mesi del lockdown e sembrano per ora tenere. Tra le ragioni, la strategia vincente dell’Arabia Saudita e una domanda petrolifera in rapida risalita. Se la situazione dovesse mantenersi tale, bisognerebbe iniziare a preoccuparsi dell’offerta futura. Gli investimenti sono crollati e molte imprese sono spinte ad abbandonare il settore. A partire da BP che ha scelto la via dell’eutanasia petrolifera. Un’eventuale impennata dei prezzi rischierebbe di soffocare le ripresa delle economie avanzate e aggravare la miseria di quelle povere.

La tenuta dei prezzi del petrolio – da inizio a fine giugno sui 40 dollari al barile (Brent Crude) – e la loro successiva graduale crescita oltre i 45 dollari al barile, una fase di stabilità inimmaginabile solo pochi mesi fa, è l’esito combinato di più fattori.

Primo: il successo dell’accordo Opec Plus tra i paesi produttori che l’hanno sottoscritto (10 Opec e 9 non-Opec), con livelli di compliance superiori in alcuni mesi al 100% e un calo della produzione complessiva oltre i livelli convenuti nell’accordo del 12 aprile. Segno della tenuta del duopolio Arabia Saudita-Russia e della sua capacità di governare i rispettivi sistemi satellitari, all’insegna di una triplice c: compliance, cuts, compensation.

L’azzardata guerra dei prezzi di Mohammad bin Salman contro la Russia si è rivelata una strategia vincente

La mossa che pareva azzardata del principe saudita Mohammad bin Salman di sferrare ai primi di marzo una guerra dei prezzi contro la Russia, che li aveva portati a fronte di una domanda dissoltasi in poche ore a livelli a una cifra, ha sortito alla fin fine i suoi effetti (per approfondire si rimanda al mio articolo su ENERGIA 2.20).

Il rischio che possa ripetersi è infatti il maggior deterrente a non rispettare l’Accordo. Nel mese di luglio la produzione mondiale di petrolio è ammontata a 89,4 milioni di barili al giorno: 10 milioni in meno del luglio 2019.

Secondo fattore: una risalita della domanda mondiale di petrolio dalla buca in cui era precipitata ad aprile (-20 milioni di barili al giorno contro i 30 inizialmente previsti) con la fine del lockdown e la graduale ripresa delle economie.

La domanda di petrolio è risalita dalla buca in cui era precipitata

Il balzo oltre i 45 dollari al barile, il più alto livello da cinque mesi in qua, riflette sentimenti di ottimismo, specie negli Stati Uniti, sulla ripresa delle economie e quindi della domanda di petrolio, nonostante la recrudescenza della pandemia. A fine anno se ne stima un calo rispetto all’anno scorso sui 6-7 milioni di barili al giorno inferiore ai 9-10 prima previsti.

Il relativo deficit offerta/domanda a giugno si è tradotto per la prima volta in un calo delle scorte che è proseguito a luglio. Da qui la decisione dell’Opec Plus di accrescere la sua offerta sino a 2 milioni di barili al giorno, portando il calo deciso ad aprile da 9,7 a 7,7 milioni di barili al giorno. Troppo e troppo presto, secondo molti analisti (si veda ad esempio Has The Oil Market Finally Turned A Corner?, OilPrice, 11 agosto).

Prima di pensare che la nottata sia passata necessita infatti che il combinato disposto di questi fattori, lato domanda e lato offerta, prosegua nel secondo semestre dell’anno. Nonostante il miglioramento dei sentimenti sulla ripresa delle economie e il convincimento che le cose vadano meglio di quanto paventato, l’incertezza sul futuro resta elevata. Tutto, o quasi, dipende dall’andamento delle economie.

L’Europa continua ad essere in affanno coi governi che stanno iniettando molta moneta nelle loro economie, anche se il grosso dei soldi messi a disposizione dal Consiglio Europeo del 21 luglio richiederà molto tempo e diversi complessi passaggi istituzionali prima di essere effettivamente erogabili.

Il secondo trimestre 2020 sarà ricordato come uno dei peggiori dell’intera storia petrolifera

La ripresa dei prezzi sul mercato americano ha ridato fiato alla produzione domestica, che ha ceduto da gennaio a giugno molto meno di quanto inizialmente previsto (da 17,9 a gennaio a 16,1 milioni di barili giorno a giugno) anche se non è in grado di sostenere nuove perforazione, il completamento dei nuovi pozzi, la riattivazione di una parte di quelli chiusi.

Il numero degli impianti (rig) per le perforazioni petrolifere è crollato drasticamente, mentre il combinato dei rig O&G ha toccato il minimo storico da quando Baker Hughes iniziò a conteggiarli nel 1987. Quel che si rifletterà sui futuri flussi di offerta, destinati inevitabilmente a flettere.

Fonte: Baker Hughes

A soffrire è soprattutto il comparto shale che al calo della produzione vede affiancarsi la drastica riduzione dei finanziamenti o l’aumento del costo del capitale. Molte indipendenti stanno chiedendo protezione dal fallimento.

Il secondo trimestre 2020 sarà ricordato come uno dei peggiori dell’intera storia petrolifera, con consistenti perdite, cash flows negativi, difficoltà a pagare gli interessi sugli elevati debiti. “A turning point in how Western majors will look and act in the future” l’ha definito il Petroleum Intelligence Weekly del 7 agosto, con le imprese schiacciate tra le pene del presente e l’incertezza sul futuro.

La disciplina finanziaria che si erano date dal contro-shock del 2014 diverrà ancor più severa. L’abbattimento della domanda, dei prezzi, dei ricavi, ha portato ad una svalutazione degli asset per 50 miliardi di dollari nell’insieme di ExxonMobil, Chevron, Shell, BP, Total, Eni.

Le compagnie europee puntano a evolvere da Big Oil a Big Energy, a partire da BP che ha scelto la via dell’eutanasia petrolifera

La risposta strategica delle compagnie europee è rivedere il loro modello di business da international oil companies, tese allo sfruttamento delle riserve minerarie, a integrated energy companies volte “alla soddisfazione dei consumatori” a dire del CEO della BP Bernard Looney. In sintesi: da Big Oil a Big Energy.

La scelta più rivoluzionaria è sicuramente quella annunciata dalla BP che ha scelto, con l’entusiasmo degli investitori, la via dell’eutanasia impegnandosi a ridurre del 40% la produzione di petrolio entro il 2030 (da 2,5 a 1,5 milioni di barili al giorno) per conseguire una neutralità carbonica nel 2050. (Quel che ha gettato nel panico molti dei paesi produttori in cui opera).

Per riuscirvi, intende decuplicare gli investimenti nelle rinnovabili, per 5 miliardi dollari l’anno, per raggiungere i 50 GW di potenza elettrica e costruire 70mila stazioni di ricarica elettrica. In slogan: dalle trivelle ai mulini a vento. Ricordando l’altro fallito annuncio tradotto in un nuovo logo della società “Beyond Petroleum” non è detto però che si realizzi.

Una “capitolazione – ha scritto argutamente il Petroleum Intelligence Weekly del 21 agosto scorso – agli investitori che hanno investito massicciamente nell’auto elettrica che pur non avendo ancora generato profitti, sta nondimeno facendo meglio dei petrolio sui mercati borsistici”.

Incredibile il caso della quotazione della Nikola Motor Corp. che ha capitalizzato 31 miliardi di dollari (più di Ford e Fiat Chrysler) pur non avendo ancora progettato, realizzato, venduto una sola auto a idrogeno, cui dovrebbe essere votata.

A beneficiare della scelta di BP saranno ExxonMobil e Chevron

A beneficiare di questa capitolazione, più che gli azionisti di BP, che vedranno decurtati i ritorni sul capitale investito – al di là degli assurdi elevati moltiplicatori aziendali – saranno le prime due majors: ExxonMobil e Chevron, insieme alle altre compagnie convintamente bullish sul futuro del petrolio, che si avvantaggeranno del disimpegno di una concorrente.

Anche negli Stati Uniti, tra chiusure, bancarotte, riconversioni green, si prevede un taglio di 1,1 milioni di barili giorno. Il calo dei prezzi e delle loro prospettive porterà inevitabilmente ad una riduzione della base di riserve provate di petrolio e gas, la cui entità è per definizione funzione delle tecniche di estrazione e dei prezzi, aumentando al loro aumentare e viceversa.

Minori investimenti e minori riserve, anche per la crescente difficoltà a rimpiazzare la produzione corrente, non potranno che determinare un collo di bottiglia nell’offerta dei prossimi anni. Mentre una transizione energetica impregnata di finanza speculativa non muoverà un solo passo in avanti.

Se la domanda tornerà a fine 2021 sostanzialmente ai livelli precedenti la crisi –IEA, AIE, Opec prevedono un calo medio di appena il 2% sul 2019 – e l’offerta prenderà a flettere, non si potrà che registrare un balzo dei prezzi che rischia di soffocare le ripresa delle economie avanzate e aggravare la miseria di quelle povere.

Chi sostiene compiaciuto che il petrolio è ormai fuori dal campo del gioco energetico dovrà spiegarne la ragione e indicare come rimediare all’una e all’altra iattura.     


Alberto Clô è direttore di ENERGIA   


Sul tema del petrolio leggi anche:
Petrolio: l’imprevedibile prevedibile, di Aberto Clô, 29 Luglio 2020
Un mercato dissolto, di Redazione, 3 Luglio 2020
Un’ondata di gelo sugli investimenti energetici, di Aberto Clô, 18 Giugno 2020
Darwinismo petrolifero, di Aberto Clô, 5 Maggio 2020
Petrolio: ma quale accordo “storico”? , di Aberto Clô, 15 Aprile 2020
L’Apocalisse del petrolio, di Aberto Clô, 2 Aprile 2020

Foto: Pixabay

0 Commenti

Nessun commento presente.


Login