Ripubblichiamo il commento di Alberto Clò, Direttore responsabile della Rivista, apparso su ENERGIA 3.20, il numero dedicato ai 40 anni della Rivista
Se esiste un obiettivo che ci siamo dati sin dall’inizio della nostra «avventura» è dire le cose come stanno. Non piegandole ai nostri convincimenti, ai nostri valori, perché discorrere di energia questi solleva, ma narrandole nella freddezza dei numeri, nella loro compiutezza, attenendoci ai fatti, selezionando le fonti statistiche da cui attingere o elaborandone direttamente da noi. Cercando di rifuggire dal pensiero unico dominante che in ogni contingenza ha condizionato la percezione collettiva di quel che avveniva per far volgere comportamenti individuali, strategie aziendali, politiche nella direzione desiderata o per celare le responsabilità di quel che accadeva. Questa distonia tra fatti e percezione – ha scritto Daniel Yergin nella sua monumentale storia petrolifera – diventa particolarmente acuta e nociva nei «momenti di panico, quando diviene essenziale l’informazione, o meglio la sua mancanza». Momenti di cui è piena la storia passata e presente.
Ne eravamo consapevoli quando impostammo il primo numero della Rivista uscito nel settembre del 1980. Si era nel pieno della Seconda Crisi Petrolifera innescata dalla Rivoluzione Iraniana in cui la percezione dei fatti – che vi fosse una profonda scarsità fisica di petrolio – era totalmente divergente dalla realtà dei fatti – legata alle nazionalizzazioni delle multinazionali, alla rottura dei circuiti commerciali, all’emergere della fissazione dei prezzi da parte dei mercati borsistici. Una distonia che rischiava di portare il nostro Governo ad adottare «misure di guerra» (1) per risolvere un’inesistente scarsità dovuta ai prezzi politici a livelli inferiori ai costi di importazione del petrolio. Fu sufficiente un loro allineamento ai valori medi europei per passare d’emblai da un temuto «buco petrolifero» (sino a un terzo dei consumi) a un eccesso di offerta(2)! Da quell’esperienza maturò l’idea di «Energia», per aprire uno spazio indipendente di ricostruzione dei fatti, di loro analisi, di confronto di idee e di policy. Anche al fine di averne futura memoria per trarne insegnamento e colmarne gli abituali vuoti. Di altri temi nel tempo si è ritenuto utile dire come stanno le cose. Di tre in particolare.

A iniziare dall’incredibile black-out elettrico che attraversò l’intero Paese, dal Piemonte alla Sicilia, nella quieta e calda notte del 28 settembre 2003, allietata dalla «notte bianca» a Roma. Un evento «solo in apparenza accidentale» – come si volle far credere – «ma in effetti prevedibile e da noi previsto» in un articolo scritto su «Energia» con Davide Pastorino, dove denunciavamo che i ripetuti deficit di potenza dei mesi precedenti palesavano una fragilità del sistema elettrico di cui non si aveva contezza da parte dei responsabili (3). Non potevamo però immaginare che le cose precipitassero nel più tragicomico dei modi: restare senza luce con le centrali letteralmente spente. Un Guinness dei primati. Un black-out causato, si sostenne, dalla scarsità di potenza elettrica, quando i tre quarti era inattiva; dall’uscita sedici anni prima (!) dal nucleare «vero peccato originale del black-out» secondo il Ministro dell’Industria di allora (4). Le ragioni erano altre: a partire dall’imperizia nel disegnare le riforme di liberalizzazione del sistema elettrico – ridefinendo malamente la gerarchia di governo e di comando e separando proprietà-gestione delle rete con conseguente crollo degli investimenti – all’eccessivo tiraggio quella notte delle importazioni, con l’assoluta libertà lasciata ad Enel di fare i propri interessi(5). Tutte faglie nelle riforme che la Rivista avrebbe affrontato. Dalle diverse commissioni di inchiesta che furono prontamente istituite nulla trapelò, così che nessuno avrebbe risposto del proprio operato, obblighi, responsabilità. Il secondo evento, correlato al primo, si ha quando riemerge negli anni successivi la «voglia di nucleare», dopo i disastri del passato, con la proposta del Governo (6) e dei vertici di Enel (7) di avviare la costruzione di 12 reattori, così da portare il nucleare al 25% del nostro mix energetico. Il tutto sulla base di assunzioni totalmente sballate (8), di cui pochi dubitarono.
Per chiarire come stessero le cose, «Energia» pubblicò 14 articoli in materia tra 2008 e 2011. A bloccare il tutto sarebbe poi intervenuto il referendum anti-nucleare del 2011, questa volta tombale. Non fosse accaduto, saremmo oggi a lamentare i molti soldi gettati al vento – il piano di Enel ne prevedeva circa 50 miliardi di euro – mentre Enel non avrebbe intrapreso il percorso strategico che l’ha portato a divenire la prima azienda elettrica del mondo. Il terzo tema, siamo ai giorni nostri, su cui la Rivista ha vieppiù focalizzato il suo impegno è quello dei cambiamenti climatici e delle politiche di contrasto a livello internazionale e nazionale. Pur condividendo appieno la necessità di intraprendere severe politiche di aggiustamento per contenere il riscaldamento del Pianeta entro la soglia (almeno) dei 2°C, nostro intento è quello di rifuggire dalle semplificazioni che sostengono che raggiungere questo obiettivo sia cosa facile, poco costosa, rapida. Quasi bastasse volerlo. Le cose non stanno così. La sfida da affrontare è immane: ribaltare il rapporto fossili/non-fossili oggi attestato a 80-20%, esattamente come venti anni fa (9).
La transizione energetica non ha fatto passi in avanti anche per l’assoluta inadeguatezza degli investimenti. Da qui la fallacia delle previsioni, disegnate nell’assunzione di un mondo ideale che non è. Evidenziare gli ostacoli che lastricano la via della decarbonizzazione; indicare le soluzioni che sono realisticamente possibili, raccogliendo un imprescindibile consenso sociale, è la linea editoriale che la Rivista si è data. Un obiettivo tutt’altro che facile considerando che la gran massa di informazioni rese disponibili dalle nuove tecnologie non ha accresciuto punto la consapevolezza dei problemi da affrontare, anche se la coscienza ambientale è accresciuta nelle popolazioni. Percezione e fatti anche qui sembrano divergere. La narrazione dei temi climatici da parte dei mass media è dirimente nella percezione che ne ha l’opinione pubblica, che non dispone di un’adeguata base conoscitiva per maturare una sua opinione se non per appartenenza politica o attrazione ideologica. La narrazione ha il potere di plasmare le credenze, evocare emozioni, richiamare i valori (10). Essa oscilla tra l’ottimismo di chi nega ogni male dando ad intendere che possa estirparsi rapidamente e il catastrofismo di chi fa credere che un tempo uomo e natura fossero in armonico equilibrio, squarciato dall’avvento delle fonti fossili. La complessità dei temi che attraversano i cambiamenti climatici dovrebbe far sì che rischi e incertezze, in senso spaziale e temporale, siano il caveat di ogni comunicazione: si tratti dell’entità e rapidità del riscaldamento in funzione delle emissioni; dei meccanismi di feedback in atmosfera, dei possibili effetti economici. La più parte della comunicazione trasuda invece certezze, verità, sentenze. Il grande nemico della conoscenza e della scienza non è l’ignoranza, ma l’illusione della certezza (11).

Altro aspetto è la progressiva frammentazione della comunicazione con l’irrompere del mondo dei social media in assenza di alcun contraddittorio o verifica di attendibilità, così alimentando falsi convincimenti su qualsiasi tema e direzione. Se «dire le cose come stanno» è stato il primo intento che ci ha motivato, un altro merita rammentare: «guardare avanti», cogliere in anticipo i cambiamenti che, sotto traccia, andavano maturando e che si sarebbero imposti a distanza anche di molti anni, così da attrezzarsi intellettualmente per coglierne ragioni e possibili effetti. Nel convincimento che nell’energia sia necessario rapportarsi al lungo periodo, perché quando un problema diventa urgente è poi impossibile porvi rimedio nel breve. Quel che è avvenuto in tema di cambiamenti climatici, affrontato su «Energia» nel 1987 da William Kellog e nel 1990 da Oliviero Bernardini, che per primo analizzò le potenzialità di riduzione delle emissioni di gas serra in Italia o in tema di liberalizzazioni-privatizzazioni, regolazione, trattate da Giovanni Goldoni, di cui prendemmo a interessarci nei primi anni 1980. Della capacità di guardare avanti esemplare è stato l’articolo Dalla crisi energetica alla crisi ambientale del 2000 di Umberto Colombo e Ugo Farinelli (12). Al termine di una disamina sulle preoccupazioni che vieppiù emergevano dalla scienza sui possibili effetti del ciclo energetico sulla stabilità del clima globale, gli Autori, dopo aver enfatizzato il ruolo crescente che avrebbe avuto la generazione distribuita dell’energia, sostenevano che non ci si dovesse interrogare sul peso in futuro delle rinnovabili nel mix energetico, quanto piuttosto sugli effetti del telelavoro sulla mobilità. Esattamente la domanda cui si tenta oggi di rispondere. L’uscita dalla più grave crisi mondiale che l’economia e l’energia abbiano mai vissuto rende oltremodo complesso, ma per questo ancor più utile, il nostro impegno a comprendere come stiano le cose e come possano evolvere. Tra chi sostiene che «nulla sarà come prima» e chi è convinto che «nulla è cambiato». Vi è probabilmente del vero in entrambe le posizioni, da non vedersi tuttavia come contrapposte, ma piuttosto come complementari. Come guardare allora al presente e insieme al futuro? Come conciliare le urgenze immediate con le esigenze di lungo termine? Non vi è scenario elaborato prima della pandemia che regga all’incertezza che avvolge il futuro di ogni variabile: dai prezzi degli idrocarburi, da cui discende la competitività delle altre fonti, al livello della domanda di energia che potrebbe non tornare ai precedenti livelli(13), alle strategie delle imprese energetiche falcidiate nel loro valori e capacità di investimento.

Nell’energia l’incertezza è fisiologica, mentre l’illusione della certezza può risultare rovinosa, come insegnano i grandi fallimenti dopo le crisi degli anni Settanta. Le ampie risorse economiche messe a disposizione nei green recovery plan, specie in Europa, costituiscono un’utile opportunità per perseguire virtuose politiche ambientali. Ma non ci si illuda che i soldi siano tutto. Dipende dalla capacità di spenderli bene; di concentrarli verso pochi qualificanti priorità; di sostenere le innovazioni tecnologiche da cui dipende la possibilità di riduzione delle emissioni. Non ultimo, dipende dalla capacità di rafforzare la cooperazione internazionale, che nemmeno nella tragedia della pandemia ha avuto modo di realizzarsi, perché politiche unilaterali non valgono a risolvere problemi globali. Ogni anniversario, quale i 40 dalla nascita di «Energia», è occasione per verificare se gli intenti che ci eravamo posti siano stati o meno rispettati. A noi sembra, senza infingimenti, di esservi riusciti, anche rafforzando la nostra attività editoriale col Blog di «Energia» per inserirci nel mondo dei social media, allargando la platea degli autori, il perimetro dei temi trattati, lo spazio di confronto e riducendo le tempistiche di intervento nel dibattito. Tutto questo è stato possibile grazie all’impegno, alla passione, alla competenza dell’intera squadra di «Energia» – dal Comitato Scientifico al Comitato di Redazione – al sostegno dell’Automobile Club d’Italia e alla fruttuosa collaborazione avviata con la Fondazione Caracciolo. A tutti va il mio più forte apprezzamento e ringraziamento. E certo, non ultimo, grazie a chi ha continuato ad apprezzare il nostro lavoro. Da qui la volontà a proseguirlo.
Il post ripercorre l’articolo Continuare nel nostro impegno, ancor più complesso (pp. 46-48) di Alberto Clô pubblicato su ENERGIA 3.20
Alberto Clô è Direttore responsabile della rivista Energia
(1) Cfr. Clô A. (2000), Presentazione, in «Energia», n. 3, pp. 3-11. I piani ministeriali prevedevano razionamento delle forniture, chiusura delle più grandi fabbriche, oscuramenti, divieti, proibizioni, tra cui «erogazione della benzina a non più della metà del serbatoio» e «disinnesto della chiamata ai piani degli ascensori, in modo da obbligare la discesa a piedi».
(2) Giuseppe Turani su «La Repubblica» del 1° marzo 1980 in Allegria. Bisaglia è uno sceicco… farà una divertente ma veritiera ricostruzione di quegli accadimenti. La dinamica internazionale e nazionale che accompagnò la Seconda Crisi Petrolifera l’ho esposta in due articoli: Clô A. (1980), Un equilibrio instabile, in «Energia», n. 1, pp. 32-45; Clô A. (1980), La situazione energetica italiana: problemi vecchi e nuovi, in «Energia», n. 1, pp. 48-58.
(3) Cfr. Clô A. e Pastorino D. (2003), Fatti e Misfatti del deficit elettrico italiano, in «Energia», n. 2, pp. 4-13. A metà agosto 2003 si era verificato negli Stati Uniti un black-out che aveva paralizzato soprattutto New York. Commentandolo, l’allora presidente del GRTN, gestore della rete italiana, Carlo Andrea Bollino, ebbe a dichiarare che una simile vicenda era «quasi impossibile in Italia, paese che ha i suoi problemi ma non rischia un maxi black-out per una migliore qualità della rete e l’interconnessione coi paesi confinanti».
(4) Si rimanda all’intervista del Ministro Antonio Marzano al «Corriere della Sera» del 1° ottobre 2003.
(5) Cfr. Clô A. (2003), Fatti e Misfatti/2, dal deficit al black-out elettrico, in «Energia», pp. 2-15. A commento di quel mio articolo si rimanda a Vitale M. (2003), Energia, miglioriamo la programmazione, in «Corriere della Sera», 19 settembre; e Testa C. (2003), L’energia c’è e i consumi non sono così alti, in «Il Foglio», 30 settembre.
(6) L’annuncio venne fatto all’Assemblea di Confindustria il 22 maggio 2008 dal Ministro dell’Industria Claudio Scajola.
(7) Cfr. Enel (2008), Rinascita nucleare in Italia, audizione alla commissione di esperti del Ministero dello Sviluppo Economico, 11 dicembre.
(8) Tre su tutte: (a) che il costo di ogni centrale sarebbe stato di 3-4 miliardi di euro l’una, quando quello in costruzione della centrale francese di Flamanville è oggi stimato in 19 miliardi euro! (cfr. «Le Monde» (2020), Pierre Moscovici: «L’EPR fait face à une dérive financière à tous les étages», 9 luglio); (b) che il tempo di costruzione di una centrale sarebbe stato al massimo di cinque anni, così che nel 2019 ne avremmo costruite già otto!; (c) che la quasi totalità delle centrali sarebbe stata realizzata da imprese italiane; cfr. Clô A. (2010), Si fa presto a dire nucleare, il Mulino, Bologna.
(9) I dati sono di fonte Agenzia Internazionale dell’Energia.
(10) Cfr. Mayer F.W. (2012), Stories of Climate Change: Competing Narratives, the Media, and U.S. Public Opinion 2001-2010, Joan Shorenstein Center, Discussion Paper D-72, febbraio.
(11) Cfr. Pedrocchi E. (2019), Il clima globale. Quanta colpa ha l’uomo?, Società Editrice Esculapio, Bologna.
(12) Cfr. Colombo U. e Farinelli U. (2000), Dalla crisi energetica alla crisi ambientale, in «Energia», n. 3, pp. 52-61.
(13) Si rimanda al mio articolo su questo stesso numero.
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