La decarbonizzazione procede con estrema lentezza: a cinque anni dall’Accordo di Parigi il bilancio è desolante. Nel 2018 si sono investiti circa 800 miliardi di dollari nel settore upstream oil&gas e carbone contro circa 550 nei settori “green”. Nel frattempo, le emissioni di CO2 da combustione fossile continuano ad aumentare. A livello di finanza, i green bond crescono, ma restano meno dell’1%. Necessario per indirizzare produzioni e consumi lungo un percorso di decarbonizzazione sufficientemente rapido è dare un prezzo alla CO2, ma ancora non sembra nelle intenzioni come non lo era al tempo dell’Accordo di Parigi. Eppure, un carbon pricing sarebbe socialmente accettabili se la crescita della fiscalità climatica fosse compensata da una pari diminuzione di altri oneri.
Tra poco più di due mesi saranno passati cinque anni dal 12 dicembre 2015, quando a Parigi fu sottoscritto l’Accordo sui cambiamenti climatici. Credo che l’anniversario non offrirà il destro a festeggiamenti; e non a causa della persistente preoccupazione per il Covid-19.
Allora prevalse la soddisfazione per i risultati raggiunti, che una parte non piccola del mondo ambientalista trasformò in un torrente di commenti grondanti ottimismo. Ciò mi spinse a replicare sul portale di QualEnergia, schierandomi “fra quanti considerano molto più vuoto che pieno il bicchiere che l’accordo di Parigi ha lasciato sul tavolo”. Rileggendo quanto scritto allora, devo riconoscere che peccavo di ottimismo.
Rileggendo quanto scritto allora, devo riconoscere che peccavo di ottimismo
Anche prescindendo da eventi difficilmente prevedibili, come Trump alla Casa Bianca o Bolsonaro al Palácio do Planalto, il bilancio globale, cinque anni dopo, è ancora più desolante. Lo conferma uno splendido articolo di Enzo Di Giulio e Stefania Migliavacca (“Quanto è green la finanza mondiale?”) uscito sull’ultimo numero di ENERGIA, dove esercitano quel pessimismo della ragione, che in un recente libro (“Le trappole del clima”) Gianni Silvestrini e il sottoscritto considerano la precondizione per contrastare in modo consapevole la crisi climatica. E lo praticano talmente bene che, leggendoli, in confronto a loro mi sono sentito uno che predica bene, ma quando razzola talvolta lascia a desiderare (si veda il mio insufficiente pessimismo nel giudicare i risultati dell’Accordo di Parigi).
Lo fanno basandosi su dati incontrovertibili. A livello mondiale il rapporto tra tonnellate di CO2 emesse e tep di energia consumata era 2,39 nel 1990 e 2,32 nel 2018. Ventotto anni per ottenere sette punti decimali in meno ci descrivono una decarbonizzazione che procede con estrema lentezza, mentre la domanda di energia continua a crescere. Negli ultimi otto anni la CO2 da combustione fossile è quindi aumentata annualmente dell’1,1%.
Negli ultimi 8 anni la CO2 da combustione fossile è aumentata annualmente dell’1,1%
Costituiscono indubbiamente un segnale positivo gli allarmi crescenti nel mondo della finanza per il rischio in cui possono incorrere i finanziamenti a lungo termine per effetto dei cambiamenti climatici; allarmi che vedono in pole position BlackRock, cioè il maggiore fondo di investimento del mondo. Tuttavia, Di Giulio e Migliavacca documentano che, malgrado siano in crescita, gli investimenti green rimangono ancora inferiori a quelli nei combustibili fossili.
Nel 2018 circa 800 miliardi di dollari nel settore upstream oil&gas e carbone, contro circa 550 nei settori green, che in valore assoluto rappresentano meno di un quinto dei 3.000 miliardi necessari, secondo l’Aie, per realizzare uno sviluppo sostenibile. Considerazioni analoghe valgono per i green bond, la cui crescita è sostenuta. Ciò nonostante, nel 2019 rappresentavano meno dell’1% del relativo mercato mondiale.
Questi numeri e altri ancora riportati nell’articolo non lasciano dubbi sui trend attuali. Siamo in presenza di una transizione “debole”, con spazi limitati per accelerarla. Uno studio citato nell’articolo mette in evidenza che non è possibile mantenere sotto 2° C la crescita della temperatura globale, se la dismissione delle centrali elettriche tradizionali continuerà ad avvenire al termine del loro ciclo di vita. Se ad esempio la Cina confermerà l’intenzione di aggiungere nuovi 17 GW di centrali a carbone ai 12 GW già autorizzati nel 2018-2019, nella migliore delle ipotesi la loro sostituzione si verificherebbe poco prima del 2050. E considerazioni analoghe valgono per infrastrutture come il Nord Stream.
Un carbon pricing sarebbe socialmente accettabili se la crescita della fiscalità climatica è compensata da una pari diminuzione di altri oneri
Nelle conclusioni, come misura per indirizzare produzioni e consumi lungo un percorso di decarbonizzazione sufficientemente rapido, Di Giulio e Migliavacca ripropongono “l’internalizzazione del costo esterno nella struttura dei prezzi in modo tale da orientare la scelta degli agenti nella giusta direzione … ma ciò non accade”.
Che non sarebbe avvenuto nell’immediato futuro, era già scritto nelle pagine dell’Accordo sottoscritto a Parigi. Lo facevo notare nel mio intervento di allora sul portale di QualEnergia: nel testo “le parole carbon pricing non compaiono mai, nemmeno come uno degli auspici e delle indicazioni generiche di cui il documento non è certo avaro”; opzione viceversa socialmente accettabile, se la crescita della fiscalità climatica è compensata da una pari diminuzione di altri oneri.
Tutto sommato, per il contrasto al cambiamento climatico valgono criteri analoghi a quelli per il Covid-19. Il confronto tra i criteri adottati nei diversi paesi dimostra che più si tarda a intervenire, più l’epidemia diventa difficile da controllare.
L’articolo è stato originariamente pubblicato su Staffetta Quotidiana il 09-10-20 ed è qui riprodotto per sua gentile concessione.
GB Zorzoli è, tra le altre cose, membro del Comitato Scientifico della rivista ENERGIA
Su COP, Accordo di Parigi e tempi della transizione energetica leggi anche:
Quanto è verde la finanza mondiale?, di Redazione, 21 Settembre 2020
L’imprescindibile necessità degli investimenti (che non ci sono), di Redazione, 18 Settembre 2020
Covid: freno o turbo della transizione energetica?, di Redazione, 7 Settembre 2020
Recensione – Le trappole del clima. E come evitarle, di Enzo Di Giulio, 5 Marzo 2020
Verità e retorica: dov’è la transizione energetica? , di Enzo Di Giulio, 3 Febbraio 2020
COP 25: il fantasma di Kyoto incombe su Madrid, di Enzo Di Giulio, 16 Dicembre 2019
Parigi-Madrid in retromarcia: da COP21 a COP25, di Alberto Clò, 5 Dicembre 2019
Quando avverrà il carbon peak?, di Redazione, 29 Novembre 2019
Faremo in tempo?, di Redazione, 23 Settembre 2019
Parigi due anni dopo: alcune riflessioni sulla transizione energetica, di Redazione, 6 Febbraio 2018
Foto: PxHere
Caro G.B.,
E’ sempre un piacere leggere le tue autorevoli considerazioni sul mondo dell’energia, ma sorprende che ci si voglia ancora accanire nell’auspicare un ulteriore balzo della “Carbon Tax” per infine completare il gioco al massacro che la UE sta da tempo impegnandosi a fare.
Illudersi poi che l’ulteriore aumento di questo perverso meccanismo (tassare il “nemico” per riuscire a far prevalere l’irrazionale), possa poi essere compensato da una riduzione di altri oneri (tasse), credo che risulti alquanto irrealistico e fuorviante nella situazione attuale.
Il mondo continua ad aver bisogno di abbondante energia, ma a prezzi ragionevoli e davvero sostenibili, soprattutto se infine ci si vorrà svegliare, prima che sia troppo tardi, da questo sonno delle coscienze, per cominciare seriamente ad aiutare i troppi Paesi sottosviluppati del pianeta ad uscire dalle loro miserevoli condizioni di vita. E tali condizioni sono in gran parte anche dovute proprio al mancato accesso ad affidabili Fonti di energia – quelle convenzionali – che l’umanità ha scoperto come opportunamente utilizzare e sarebbe davvero un’azione inconsulta non utilizzarle, nel contempo mantenendo quei popoli nella loro pericolosa desolazione.
Potremmo presto amaramente dolercene.
Un caro saluto.
Rinaldo