11 Novembre 2020

Biden: un Presidente “dimezzato” anche nell’energia?

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La mancata Onda Blu dei Democratici e la probabile conferma dei Repubblicani al Senato hanno portato a indicare quella di Biden come una ‘vittoria dimezzata’. Inevitabile che ciò si ripercuota anche nelle ambizioni e nei margini di manovra sui temi di energia e clima. Cruciali saranno le priorità, nel breve totalmente assorbite dall’emergenza coronavirus, e gli aspetti politico-istituzionali, come la collocazione che il nuovo Presidente assumerà tra l’ala più radicale del suo partito e quella moderata della controparte Repubblicana. Cruciale sarà anche l’approccio verso l’industria degli idrocarburi, sia per ragioni interne agli Stati Uniti che per gli equilibri del mercato petrolifero.

Che impatto avrà l’elezione quale 46° presidente americano di Joe Biden sull’incrocio energia-clima? Quali cambiamenti potrebbero derivarne rispetto al negazionismo e all’isolazionismo di Donald Trump?

Nell’immediato poco o nulla accadrà, per l’assoluta priorità che Biden intende dare alla lotta al coronavirus e perché nei sondaggi la questione climatica era considerata “molto importante” solo dal 49% dei votanti contro il 79% per l’economia, il 62% per il coronavirus, il 52% per le disuguaglianze etniche e razziali  (Wildfires shine harsh light in US climate change divide, Financial Times).

La vittoria di Biden potrebbe portare nel breve a un ribasso prezzi petroliferi

Nel breve periodo, l’impatto lo si avrà semmai sulle aspettative dei mercati che, secondo alcuni osservatori, potrebbero far ribassare i prezzi (Would Biden Be Bearish for Oil Prices?, PIW, 30 ottobre), aggravando la crisi di un’industria già in forte affanno.

Ribasso che potrebbe aversi se, ad esempio, si avesse anche solo la percezione di un allentamento delle sanzioni verso Iran e Venezuela, che hanno sottratto al mercato almeno 2 milioni di barili al giorno, mentre l’alleanza Opec Plus ha in animo di aumentare di eguale quantità l’offerta dal prossimo 1° gennaio e la Libia ha aumentato in breve tempo la produzione da zero a 1 milione di barili al giorno (The Big Picture: Opec-Plus’ Triple Threat, Energy Compass, 30 ottobre).

Un aumento dell’offerta a fronte di un rallentamento della ripresa della domanda che potrebbe spingere al ribasso i prezzi. Ancor più se a questo associamo la possibile agenda climatica di Biden, che ha promesso “a transition away from the oil industry”.

I prezzi del petrolio non hanno per ora reagito all’esito elettorale mantenendosi sui 40 doll./bbl

Per ora, comunque, i prezzi non hanno segnato alcuna alterazione continuando ad oscillare intorno ai 40 dollari al barile. Quanto al medio-lungo termine i margini di manovra in tema di energia e clima della nuova Amministrazione dipenderanno da alcuni aspetti politico-istituzionali.

Primo: la mancata Onda Blu dei Democratici, indicata dai media come la ‘vittoria dimezzata’, ha portato ad un regolamento dei conti all’interno del partito a danno dell’ala più radicale, capeggiata da Alexandria Ocasio-Cortez che lo scorso anno propose un Green New Deal ancor più aggressivo di quello che l’Unione europea, copiandone il nome, avrebbe adottato di lì a poco.

Un autogol, il GND come formulato dalla deputata AOC e dal senatore Ed Markey, che, come ebbi a scrivere in un post dello scorso anno, avrebbe potuto perfino comportare la sconfitta dei Democratici. Ma il contesto allora era profondamente differente.

Tra l’ala radicale dei Democratici a quella moderata dei Repubblicani

Il minor peso attuale dell’ala radicale potrebbe favorire la ricerca da parte della nuova Amministrazione di punti d’intesa con l’ala moderata (non negazionista) dei Repubblicani.

A partire dai leader storici ed ex Segretari di Stato James A. Baker III e George P. Shultz, che – supportati da un crescente numero di parlamentari repubblicani convertitisi alla causa climatica – hanno proposto una carbon tax sulle emissioni prodotte nel punto in cui le fonti fossili entrano nell’economia (raffinerie, porti, giacimenti, miniere, etc.) per devolverne il ricavato, un ‘carbon dividend’, alle famiglie.

Secondo: se i Repubblicani, come sembra al momento in cui scriviamo, manterranno il controllo del Senato difficilmente verranno approvati provvedimenti legislativi penalizzanti per l’industria del petrolio e del metano. Industria che, vale rammentare, ha consentito agli Stati Uniti di guadagnare una piena autosufficienza energetica, bassi prezzi del metano, una grande crescita dell’occupazione (calata quest’anno di 100 mila unità).

I margini di manovra di Biden

Joe Biden potrebbe applicare leggi in vigore, a cominciare dal Clean Air Act, che non necessita dell’approvazione del Congresso, incontrando però verosimilmente numerosi ostacoli. Potrebbe semmai:

  • avvalersi dei poteri amministrativi di cui dispone, come del resto fece Barack Obama, rendendo più difficile il rilascio di permessi di ricerca di idrocarburi o di costruzione di nuove infrastrutture per il loro trasporto;
  • rendere più severi gli standard di efficienza delle automobili o aumentare gli incentivi alle rinnovabili o alle auto elettriche;
  • pianificare investimenti federali nella clean energy;
  • nominare alla Federal Energy Regulatory Commission o all’Environmental Protection Agency personalità non avverse alle rinnovabili o ostili alla lotta ai cambiamenti climatici;
  • non ultimo, rientrare, con un gesto politico emblematico, in tempi brevi nell’Accordo di Parigi la cui uscita è divenuta operativa, come da norme, il 4 novembre 2020, il giorno dopo le elezioni presidenziali e un anno dopo la sua comunicazione formale.

Rientrare nell’Accordo di Parigi?

Dal momento che l’Accordo di Parigi è ritenuto necessario ma non sufficiente ad abbattere le emissioni come richiesto dall’IPCC, la nuova Amministrazione dovrebbe porre la questione climatica al centro della politica estera americana: promuovendo la collaborazione con gli altri maggiori paesi in tema di innovazione tecnologica o di accordi multilaterali su obiettivi specifici (ad es. emissioni metano o il gas flaring di cui gli Stati Uniti sono un grande contributore).

Per riuscirvi, dovrà recuperare credibilità con atti concreti interni come l’abbattimento dell’uso del carbone nelle centrali elettriche, già sostenuto dalle convenienze di mercato, o sostegni alle rinnovabili che anche quest’anno vanno conoscendo una sensibile crescita, come attestato anche dall’ultimo rapporto IEA sulle rinnovabili.

Non si può infine dimenticare, guardando alla possibile politica di Biden verso l’industria degli idrocarburi, che fu vicepresidente di Obama negli anni in cui la shale revolution ha promosso la maggior espansione di questa industria dal secondo dopoguerra.

L’approccio verso l’industria degli idrocarburi resta cruciale, sia per gli equilibri interni agli Stati Uniti che per quelli del mercato petrolifero

Ed è a questa industria che va un’ulteriore considerazione che si ricollega all’inizio di questa riflessione: quale potrebbe essere il possibile impatto sugli equilibri di mercato del petrolio della vittoria di Joe Biden?

Il rischio è che l’accentuarsi dell’atmosfera di diffidenza, se non vera e propria, ostilità nei confronti dell’industria petrolifera acuisca il crollo degli investimenti nell’usptream petrolifero in atto da alcuni anni avviando un ciclo espansivo dei prezzi del greggio, qualora la domanda avesse anche solo parzialmente a riprendersi.

Che questo rischio possa essere contro-bilanciato dall’avanzata della transizione energetica (rimasta ancora al palo), è in teoria possibile, ma molto problematico. Un mismatch domanda-offerta non potrebbe che rimbalzare sui prezzi del petrolio e dei suoi derivati. E un aumento ai distributori americani della gasoline sarebbe la cosa più sgradita per gli elettori sia Democratici che Repubblicani.  


Alberto Clò è direttore della rivista ENERGIA


Sulle elezioni presidenziali USA leggi anche:
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Foto: Wikimedia

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