Cooperazione nella lotta ai cambiamenti climatici e competizione nella corsa alla transizione energetica sono due facce della stessa medaglia. Se con Donald Trump ha prevalso una contrapposizione tribalistica, come cambia l’approccio degli Stati Uniti alla questione climatica con l’elezione di Joe Biden alla Casa Bianca? Quali margini sussistono per estendere e rafforzare la cooperazione, oltre che con l’Unione Europea, con la Cina? Considerazioni di carattere geopolitico possono minare gli sforzi cooperativi? Lo abbiamo chiesto a Enrico Letta, Rettore della Paris School of International Affairs (PSIA) presso l’Università Sciences Po di Parigi e Presidente dell’Institut Jacques Delors. Pur se il quadro multilaterale – attualmente più sano a Oriente che ad Occidente – andrà migliorando, la geopolitica non sparirà. All’Europa spetta il compito di ritagliarsi un proprio ruolo.
La vittoria di Joe Biden nella corsa alla Casa Bianca è coincisa, come già si sapeva, con l’uscita formale degli Stati Uniti dall’Accordo di Parigi. Sebbene l’attenzione al multilateralismo ed alla questione climatica sia un elemento distintivo del nuovo Presidente rispetto al suo predecessore, diversi osservatori fanno notare come non dobbiamo attenderci mutamenti sostanziali e repentini della politica energetica degli Stati Uniti in ragione sia delle priorità (contenimento del coronavirus, supporto all’economia e all’occupazione) che della composizione di Camera e Senato, che potrebbe portare alla ricerca di una sponda moderata con i Repubblicani più che seguire l’ala oltranzista dei Democratici. Concorda con queste opinioni o ritiene che la questione energetica e climatica possa costituire la leva economica e diplomatica con cui Biden può aprire una nuova stagione?
No, non concordo con le analisi che prevedono una continuità tra le due Amministrazioni. Anzi, ritengo che sul macrotema della sostenibilità, intesa nella sua accezione più larga, registreremo un limpido cambio di passo. Questo perché la rottura di Trump è stata l’approdo non di un posizionamento tattico o contingente, ma di una vera dottrina negazionista sui cambiamenti climatici, nella quale ideologia e interessi sono apparsi sin da subito profondamente intrecciati. Decisamente un tratto identitario della sua Presidenza, dunque. Proprio per questa caratterizzazione intrinseca è evidente che voltare pagina avrà un impatto forte. Questo non significa chiaramente sottovalutare gli equilibri del Congresso e i potenziali vincoli domestici. Significa capire che qualsiasi partita si giocherà comunque su un altro, diverso, campo di gioco.
L’appello partito un anno fa dagli Stati Uniti con la proposta dei Democratici per un Green New Deal ha trovato immediata eco nel Vecchio Continente, con la Presidente della Commissione Ursula von der Leyen che ne ha fatto il perno del proprio mandato. Con la vittoria di Biden alla Casa Bianca possiamo attenderci un’intesa tra le due sponde dell’Atlantico per guidare una ripresa economica “verde” post-pandemica? Oltre alle dichiarazioni pro forma, in quale modo potrebbe o dovrebbe concretizzarsi questo rafforzamento della cooperazione UE-USA in ambito energetico-climatico?
Sì, sono convinto che sia quella una delle frontiere su cui impostare il rinnovato asse tra Stati Uniti ed Unione Europea. La scelta di Antony Blinken al Dipartimento di Stato si muove, mi pare, esattamente nella direzione di un rilancio del nesso euro-atlantico. Serve però una premessa di metodo, una cautela interpretativa direi, di cui tener conto ogniqualvolta si disegnano scenari futuri. L’avvertenza è la seguente: siamo, saremo, nel “mondo di dopo”. Dopo il Covid, dopo una cesura storica, dopo una tempesta improvvisa ed epocale. Ogni paradigma del passato è destinato, se non a saltare del tutto, certo a mutare profondamente. Anche il modello “verde” sarà integrato e corretto sulla base delle lezioni della pandemia. Penso, ad esempio, ai piani di prevenzione per le grandi catastrofi, che non sono orpelli o adempimenti formali da espletare, ma potenziali nuovi spazi di intervento in settori ad alto o altissimo potenziale innovativo. Basti pensare ai margini di azione sulla digitalizzazione intesa come assistenza e monitoraggio da remoto. Ecco, su tutti questi temi legati alla sostenibilità l’Occidente, di cui evidentemente USA e UE sono pilastri, deve sviluppare fino in fondo il suo potenziale di pensiero creativo, anzi visionario. E poi agire di concerto.
La stagione di Trump ha polarizzato l’ordine economico multilaterale spingendolo verso il tribalismo e la contrapposizione tra blocchi. Se la ripresa post-pandemica dovesse basarsi su un’intesa verde UE-USA, vi sarebbe un rischio di contrapposizione con altre potenze, a partire dalla Cina, o al contrario, sussistono margini per estendere e rafforzare la cooperazione?
I margini per estendere e rafforzare la cooperazione ci sono e sono ampi. Trump ha polarizzato come nessuno prima di lui alla Casa Bianca. “Tribalismo” mi pare, in effetti, una sintesi calzante. E il rigetto degli istituti del multilateralismo e della cooperazione resterà un altro dei tratti distintivi della sua Amministrazione. Non è un caso che il primo salto di scenario del post-Covid sia avvenuto dopo la sua sconfitta nella corsa alla Presidenza. Con la firma dello storico accordo di Hanoi sul RCEP (Regional Comprehensive Economic Partnership) tra i Paesi dell’Asean e Cina, Giappone, Australia, Nuova Zelanda e Corea del Sud, nascerà la più grande area di libero scambio del mondo: un terzo della popolazione e del Pil mondiale. Ad oggi il quadro è questo: ad Occidente fratture e stallo, a Oriente multilateralismo e ricomposizione. È uno scenario sostenibile per Europa e Stati Uniti? A mio avviso no. Ecco perché dobbiamo aspettarci evoluzioni sotto il segno della cooperazione. Quanto al rapporto bilaterale USA-Cina, tuttavia, occorre cautela anche nelle previsioni. Certo, ci sarà un miglioramento dei toni rispetto all’imbarbarimento trumpiano e probabilmente, sul piano strettamente commerciale, le interlocuzioni saranno più fluide e meno sfiancate da continui colpi di scena. Resteranno sul tavolo, però, dossier strategici di portata enorme, dal controllo dei dati alle sfide tecnologiche più avanzate. Penso all’energia, al 5 e 6 G, alla corsa allo spazio. Su queste questioni l’Europa certamente deve lavorare sul proprio posizionamento strategico e crescere di influenza senza rassegnarsi al ruolo di spettatrice del confronto, più o meno muscolare, tra Pechino e Washington.
In Europa, il piano di ripresa della Germania sembra destinato a fare da guida. Sul fronte energetico, Berlino ha individuato nell’idrogeno l’“energia del futuro” ed è già molto attivo diplomaticamente all’interno ed all’esterno dell’UE per renderlo realtà. Diversi osservatori fanno notare come, oltre a ragioni di carattere industriale, la scelta dell’idrogeno celi anche ragioni di carattere geopolitico volte ad affrancarsi da una transizione verso le sole rinnovabili che vedrebbe nella Cina il principale fornitore di materie prime. Considerazioni di carattere geopolitico possono minare gli sforzi cooperativi verso un obiettivo comune (la Cina è uno dei primi paesi che, dopo la Germania, ha dichiarato l’intenzione di raggiungere la neutralità climatica) o possono ritenersi “parte del gioco”?
La diversificazione delle fonti di approvvigionamento e la transizione energetica sono senza dubbio e da tempo fattori di interesse strategico. La “geopolitica dell’idrogeno” ha in tal senso implicazioni sia sul versante industriale, in termini di presidio e conquista di porzioni di mercato regionale e mondiale, sia su quello delle influenze e dei rapporti di forza tra le potenze globali. L’Italia, con Eni e Snam, ha presidiato per tempo questa frontiera. Un tema che, oltreché grande opportunità sulla strada lunga della neutralità energetica, ha un potenziale enorme sulla riduzione delle emissioni. In questa prospettiva, tutto quello che si muove verso una maggiore integrazione a livello europeo va sostenuto con forza. Se c’è una cosa di buono che questi anni di trumpismo hanno lasciato all’Europa, è proprio la consapevolezza di quanto sia strategico e urgente un rafforzamento del suo ruolo geopolitico a tutto tondo. Sicurezza energetica ed esplorazione della fenomenale carica innovativa di dossier del genere rientrano nella cornice di questo rafforzamento.
Lungi da intenzioni provocatorie, lo scrittore Jonathan Franzen sostiene che faremmo meglio a smettere di fingere e ammettere invece di non poter più fermare la catastrofe climatica. Le speranze e gli sforzi dovrebbero essere indirizzati non a cercare di evitarla ma ad affrontarla in modo ragionevole e umano. Non che si debba abbandonare la via della transizione energetica, ma ciò comporterebbe tuttavia un netto cambio di paradigma rispetto a quanto perseguito fin dalla Conferenza di Rio del 1992, tanto che lo scrittore si è attirato “un profluvio di pubblica ostilità da parte dell’establishment climatico”. Ritiene che sussistano ancora i margini per riflettere e dibattere su come affrontare la questione climatica (ed eventualmente correggere il tiro) o il consenso scientifico e mediatico raggiunto, così come lo “stock” di sforzi politici intrapresi, obbligano ormai ad una sorta di “path dependance”?
Jonathan Franzen, oltreché un brillante romanziere, è un intellettuale e fa quello che tutti gli intellettuali dovrebbero fare: stimola il pensiero laterale, prende posizioni non convenzionali, obbliga alla riflessione. È, a ben vedere, ciò che manca in questa epoca di smarrimento e carenza di orizzonti. Per questo, a mio avviso, le sue sollecitazioni sono salutari. E senza entrare nelle dispute scientifiche ritengo che, in ogni caso, quale che sia la posizione più accreditata, il punto di caduta sia lo stesso: perseguire nella ridurre delle emissioni, prevenire, programmare. In altri termini, fare della sostenibilità a tutto tondo la bussola delle politiche pubbliche e del nostro agire quotidiano, come individui e come comunità.
Enrico Letta è Rettore della Paris School of International Affairs (PSIA) presso l’Università Sciences Po di Parigi e Presidente dell’Institut Jacques Delors
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Foto: Wikimedia
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