23 Novembre 2020

L’irresistibile leggerezza dell’idrogeno/1: coordinate per orientarsi nel dibattito

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Tornato all’onore delle cronache per le sue mirabolanti prospettive di sviluppo, il dibattito sull’idrogeno necessita di chiarimenti in termini di tecnologie, costi e tempistiche, onde evitare di pagare caro errori cui l’Italia non è nuova. Per orientarsi in questo dibattito serva inquadrarlo in una prospettiva storica, conoscere lo stato dell’arte della produzione di idrogeno e le tecnologie cui far ricorso (ad es. elettrolizzatori più adatti per produrre idrogeno verde da fonti rinnovabili, o CCS per l’idrogeno blu). Elementi necessari per comprendere la strategia a tre fasi della Commissione Europea: l’idrogeno blu fa da apripista al verde, che non sarà maturo e competitivo prima del 2040.

Vorrei portare un piccolo contributo, spero utile, sulla questione dell’idrogeno, le cui virtù sono tornate prepotentemente di moda, anche in Europa, come determinanti per la decarbonizzazione. Credo sia importante chiarire bene i termini e soprattutto i tempi della questione, perché nel nostro Paese il frettoloso inseguimento di obiettivi esogeni ha già in passato portato ad errori di valutazione costati carissimi, senza peraltro lasciare tracce significative sul tessuto industriale né sulla crescita più in generale. E sarebbe davvero imperdonabile, vista anche la drammatica situazione, non sfruttare al meglio l’occasione di sviluppo industriale che la prospettiva dell’idrogeno oggi può offrire.

Per produrre idrogeno occorre più energia di quanta ne offra il suo successivo utilizzo

Cominciamo col dire – non s’offendano i lettori esperti – che l’idrogeno (H2) da solo è molto raro in natura. È invece abbondantissimo sotto forma di composti, sia organici, dai quali non è facile dissociarlo, sia inorganici, come il metano (CH4) o l’acqua (H2O), da cui può essere più agevolmente (si fa per dire) separato. In altre parole, l’idrogeno occorre produrlo e la produzione richiede energia in quantità superiore a quella poi ricavabile utilizzandolo.

L’idrogeno è impiegato da decenni in molti settori industriali (dalla chimica alle raffinerie): nel 2019, secondo IRENA, il consumo mondiale è stato di 115 milioni di tonnellate. Questo, però, non fa notizia. Il suo fascino, che quasi ciclicamente torna di moda, riguarda altro, cioè il suo impiego come vettore energetico.

Idrogeno: un dibattito lungo 50 anni

E a proposito di cicli, viene in mente Cesare Marchetti, brillante ed eclettico fisico italiano, poco noto al grande pubblico, autore di interessanti modelli che individuano “periodi” caratteristici nella sostituzione di fonti e tecnologie energetiche. Nel 1969 (mezzo secolo fa) intervenendo alla tavola rotonda su Direct Hydrogen Production, organizzata dal Centro Comune di Ricerca della Commissione Europea (che giustamente già 50 anni fa si occupava di idrogeno), sosteneva: “What I found is simple and striking: with hydrogen we can make practically everything in the sense that hydrogen could be the only primary energy source for an advanced society”.

Egli, in verità, immaginava che l’idrogeno potesse essere ricavato dall’acqua impiegando energia nucleare, che allora iniziava a diffondersi nei paesi industrializzati con la prospettiva di costare pochissimo, quasi niente (Marchetti: Hydrogen and Nuclear Energy, Journal of the British Nuclear Energy Society, 1974).

Dall’idrogeno da produrre con nucleare degli anni ’60, a quello da rinnovabili di oggi

Oggi le rinnovabili hanno preso il posto del nucleare, ma le aspettative e l’entusiasmo appaiono i medesimi, persino più contagiosi, ancorché, a differenza di quella nucleare di allora, il costo dell’elettricità rinnovabile vari moltissimo da luogo a luogo del Pianeta, e con essa, come vedremo, il costo di generazione dell’idrogeno.

Ci fu poi un ritorno di interesse all’inizio del nuovo millennio, anche grazie ad una delle tante “visioni” di Rifkin (The hydrogen economy: the creation of the worldwide energy web and the redistribution of power on earth, 2002).

Fu allora che la Commissione Europea lanciò la European Hydrogen and Fuel Cell technology platform, poi confluita nella Fuel Cell and Hydrogen Joint Undertaking, che ha meritoriamente promosso numerosi progetti di ricerca, nell’ambito del 6°, 7° e 8° (Horizon 2020) Programma Quadro. Fino ad arrivare ai giorni nostri.

A luglio di quest’anno, la Commissione ha pubblicato lacomunicazione “A hydrogen strategy for a climate-neutral Europe”. Un documento ricco di informazioni sullo stato delle diverse tecnologie coinvolte e sul loro auspicabile o prevedibile (a seconda dei punti di vista) ulteriore sviluppo da qui al 2050, a patto che si investa adeguatamente su di esso e che gli sforzi vengano finalmente premiati.

L’idrogeno oggi e nei prossimi 30 anni

Oggi il 96% dell’idrogeno impiegato nel mondo in processi industriali viene prodotto da combustibili fossili; in particolare circa il 50% del totale da steam reforming del metano (con un’efficienza del 75-80%). Il processo libera però CO2 (9 kg per ogni kg di idrogeno) che lo rende incompatibile con gli obiettivi di decarbonizzazione. L’idrogeno prodotto in questo modo viene convenzionalmente indicato come “grigio”.

L’attuale metodo di produzione dell’idrogeno (cosiddetto “grigio”) è incompatibile con gli obiettivi di decarbonizzazione

Appena il 4% dell’idrogeno viene oggi dall’elettrolisi dell’acqua, ma molti scenari attribuiscono nel lungo periodo (>2040) all’idrogeno da elettrolisi un grande potenziale. Innanzitutto, come forma di accumulo stagionale dell’energia elettrica rinnovabile: l’idrogeno, prodotto e accumulato quando l’energia elettrica è generata in eccesso rispetto alla domanda, verrebbe poi utilizzato per generare energia elettrica per mezzo di pile a combustibile, quando la generazione rinnovabile risulta in difetto rispetto alla domanda.

Ma anche per usi diversi dalla generazione elettrica, soprattutto in alcune produzioni industriali e per alcune tipologie di trasporti, difficilmente elettrificabili. Infatti, se l’energia elettrica è generata da fonte rinnovabile, l’idrogeno è prodotto senza emissione di CO2: in questo caso, convenzionalmente, si parla di idrogeno “verde”.

3 tecnologie di elettrolizzatori: alcalini, polimerici (PEM), ad ossidi solidi (SOEC)

Attualmente gli elettrolizzatori sono basati principalmente su 3 tecnologie:

1) quelli alcalini debbono lavorare a potenza poco variabile, impiegano una soluzione alcalina e non acqua, sono i più economici dei 3 ed al momento i più diffusi;

2) i polimerici (PEM) sono più compatti, possono lavorare a potenza anche rapidamente variabile (come nel caso di alimentazione da fonte rinnovabile non programmabile), impiegano semplice acqua come soluzione elettrolitica, producono idrogeno in pressione ed elevato grado di purezza, sono al momento più costosi degli alcalini ma con prospettive di larga diffusione;

3) quelli ad ossidi solidi (SOEC) sono promettenti perché, oltre che alimentabili a potenza variabile, sono anche reversibili, cioè possono funzionare sia da elettrolizzatori che da pile a combustibile, hanno rendimento più elevato dei PEM ma anche costo ben più alto.

La strategia europea punta su PEM e SOEC perché più adatte alla variabilità della generazione elettrica da rinnovabili

La strategia europea punta a sviluppare le tecnologie PEM e SOEC, proprio per la loro flessibilità che le rende più adatte a convertire in idrogeno potenza elettrica variabile, in particolare quella eolica e solare.

Mentre nella valutazione della convenienza economica dell’utilizzo dell’idrogeno verde per l’accumulo stagionale di energia elettrica da fonti rinnovabili variabili intervengono molti fattori legati alla gestione complessiva e all’ottimizzazione del sistema elettrico, la competitività per l’uso diretto dipende strettamente dal costo di produzione, di cui tratteremo più avanti.

Naturalmente, nei conti occorre internalizzare il costo della CO2 evitata, cioè non sarebbe corretto confrontare il costo di produzione di 1 MWh (30 kg o 360 m3) di idrogeno verde con il prezzo di 1 MWh (72 kg o 114 m3) di gas metano.

Grigio, verde, blu: nei conti occorre internalizzare il costo della CO2 evitata

L’idrogeno può essere anche “blu”. Così si identifica quello ottenuto ancora da steam reforming del metano, catturando però la CO2 prodotta nel processo e sequestrandola in serbatoi naturali, per esempio giacimenti esauriti o gli stessi da cui si estrae il metano impiegato, aumentandone la resa, o serbatoi di altra natura (come acquiferi salini ed altro).

La CO2 catturata, anziché sequestrata nel sottosuolo, potrebbe essere anche riutilizzata, alternativa che qui non tratteremo. In questo modo si riesce a produrre oggi idrogeno decarbonizzato al 90%. È un processo utilizzato già in diversi impianti (secondo il rapporto IEA “The future of hydrogen”, pubblicato a giugno 2019, questi producono circa 0,5 milioni di tonnellate di idrogeno all’anno).

Le tecnologie per la cattura ed il sequestro di CO2 sono infatti disponibili, essendo sviluppate da molti anni in varie parti del mondo. Il costo per tonnellata di CO2 catturata le rende non competitive per applicazioni nel settore della generazione elettrica, ma ciò non toglie che il processo sia ben sperimentato.

La norvegese Equinor (già Statoil) sequestra e stocca CO2 da oltre 20 anni

Per esempio, la norvegese Equinor da oltre 20 anni separa con ammine la CO2 disciolta (in quantità superiore ai limiti di legge) nel metano che estrae dal giacimento di Sleipner, nel mar del Nord, la comprime e la inietta in una formazione sottomarina di arenaria. Dall’inizio dell’esercizio dell’impianto, alla fine degli anni ’90, ad oggi, a Sleipner sono state stoccate circa 20 milioni di tonnellate di CO2 senza che sia stato monitorato alcun rilascio in atmosfera.

Le tecnologie per l’idrogeno blu possono essere migliorate su molti aspetti del processo: per esempio occorre ridurre ulteriormente, fino possibilmente ad eliminare del tutto, sia la quota di CO2 attualmente ancora liberata in atmosfera (circa 10%) che le residue fughe di metano, gas ad effetto serra ben peggiore della CO2.

Dicevamo della strategia europea: essa considera l’idrogeno uno strumento indispensabile per la decarbonizzazione di alcuni processi industriali e settori dell’economia, da diffondere il più rapidamente possibile. E sebbene la Commissione riconosca che le buone ragioni per cui puntare sull’idrogeno sono note da qualche decennio pur senza risultati significativi, ritiene tuttavia che ora sussistano finalmente le condizioni per una sua reale larga diffusione.

La strategia a tre fasi della Commissione Europea

Si tratta in parte di condizioni oggettive, come la straordinaria riduzione del costo di generazione dell’elettricità rinnovabile, in parte di previsioni, come le attese riduzioni del CAPEX degli elettrolizzatori, in particolare quelli di grande taglia: da circa 900 €/kWe di oggi a 450 €/kWe al 2030 (previsione leggermente più ottimistica di quella del citato rapporto IEA, che indica 550 €/kWe) e giù sino a 180 €/kWe dopo il 2040.

La strategia prevede dunque tre periodi con diversa “maturità”: 2020-2025, 2025-2030, 2030-2050. Solo nella terza fase, cioè dopo il 2040, a giudizio della Commissione, l’idrogeno verde dovrebbe raggiungere la piena maturità e diventare competitivo. Tuttavia, lungo questo percorso a tappe, l’idrogeno dovrebbe progressivamente penetrare il mercato, attraverso progetti pilota, finanziati da risorse UE e dei Paesi Membri, in grado di far progredire le tecnologie sia sul lato dell’offerta che della domanda.

L’idrogeno verde non sarà maturo e competitivo prima del 2040, nel mentre è necessario l’idrogeno blu

In aggiunta, nel breve e medio periodo – scrive la Commissione – sono necessarie altre forme di idrogeno low-carbon (l’idrogeno blu). Dunque, la strategia europea punta decisamente a creare le condizioni per una massiccia diffusione dell’idrogeno verde nei prossimi 30 anni ed attribuisce al blu, evidentemente perché meno costoso (come vedremo tra poco), il ruolo di apripista per creare una crescente domanda di idrogeno, in attesa che quello verde divenga competitivo. Per questo all’idrogeno blu – raccomanda la Commissione- va dato il necessario supporto in questa fase di transizione, evitando tuttavia che ciò determini stranded assets. Miracoli dell’equilibrismo!

[Seconda parte]


Giuseppe Zollino è Professore di Tecnica ed Economia dell’Energia, Dipartimento di Ingegneria Industriale dell’Università di Padova


Su idrogeno leggi anche:
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Foto: Unsplash

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