29 Dicembre 2020

L’enigma della sostenibilità \2: scope 3 tra etica e tecnica

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Prosegue la riflessione sulla sostenibilità scaturita dal rapporto Capgemini. Un’epoca volge al termine e una nuova frontiera si manifesta: ma il business, comprensibilmente, esita a entrarvi perché nonostante il vento soffi a favore della transizione energetica, la strada è lunga e l’approdo tutt’altro che facile. Vi sono eccezioni, come le aziende che si spingono fino alla definizione di obiettivi di riduzione delle emissioni scope 3: un obiettivo rivoluzionario perché compensa le emissioni che cadono all’esterno della propria filiera produttiva. Ma questo punto ci pone davanti a una questione etica e ad una tecnica se riferito ai combustibili fossili.

(continua)

Perché se la sostenibilità è opzione win-win, poche aziende fanno sul serio? Riteniamo che più forze concorrano a questo risultato: di certo, vi è un misto di resistenza e miopia da parte del business che lo induce a non vedere, da una parte, come la sostenibilità sia una via obbligata, e dall’altra come intraprendere la transizione energetica come early mover possa dar luogo a dei vantaggi.

In secondo luogo, vi è un’oggettiva distanza tra la sostenibilità patinata raccontata da un certo business e i suoi reali costi e le sue criticità. La sostenibilità non è un pasto gratis, piuttosto essa comporta una conversione a 180° del business fossile, tutt’altro che semplice, perché implica l’abbandono di un business glorioso e profittevole per un altro sfidante e meno remunerativo.

Non basta il conseguimento della grid parity per fare delle rinnovabili un nuovo eldorado del business

I ritorni di un business, vale la pena ricordarlo, non sono solo il risultato dei costi di produzione ma dell’assetto di mercato, del peso oligopolistico delle imprese che ne fanno parte e finanche della sua storia. Non basta il conseguimento della grid parity da parte delle rinnovabili per fare di esse un nuovo eldorado del business.

Per un secolo e mezzo c’è stato un eden del business, ed è stato quello oil & gas. Certo, esso non è stato esente da crisi e tonfi del prezzo, ma nell’orizzonte lungo della sua storia leggendaria i ritorni sono stati assolutamente straordinari, per nulla paragonabili a quelli odierni delle rinnovabili.

Il vento soffia a favore della transizione energetica, ma l’approdo tutt’altro che facile

Ora quell’epoca volge al termine e una nuova frontiera si manifesta: ma il business, comprensibilmente, esita a entrarvi perché la strada è lunga e l’approdo tutt’altro che facile. E anche oggi che il vento della transizione energetica, irrobustito dalla pandemia, smorza consumi e prezzi e corsi azionari delle fonti fossili, e ne distrugge i ritorni – rendendo in alcuni casi le fonti rinnovabili più profittevoli – il business continua a esitare.

Tale esitazione generale ha naturalmente le sue eccezioni, ad esempio da parte di aziende che si spingono fino alla definizione di obiettivi di riduzione delle emissioni scope 3. Qui vale la pena sottolineare la rivoluzionarietà di tale obiettivo, sia perché si vanno a compensare emissioni che cadono all’esterno della propria filiera produttiva, sia perché le emissioni scope 3 sono 5-6 volte più ampie di quelle scope 1 e 2, come si può apprezzare nella figura di fonte Reuters che riportiamo qui sotto a beneficio del lettore.

Le emissioni scope 3 sono 5-6 volte più ampie di quelle scope 1 e 2

Resta da comprendere quanto opportuna sia la compensazione delle emissioni scope 3 da parte delle oil & gas company. Congetturare una compensazione totale equivale ad assumere che il produttore sia totalmente responsabile delle emissioni generate dal suo business e dai suoi prodotti.

Ma se questa interpretazione è corretta occorre concludere che tutto il peso della transizione energetica è sulle spalle delle compagnie – private o pubbliche che siano – produttrici di combustibili fossili. Ciò pone sia una questione etica che una tecnica.

Scope 3: la responsabilità è solo delle imprese che producono combustibili fossili?

La prima ci induce a chiederci perché, ad esempio, i consumatori che usano quei prodotti non debbano concorrere alla responsabilità delle emissioni che essi generano. E che dire delle case automobilistiche che producono auto alimentate a benzina o a diesel? Oppure, che dire delle stesse aziende che usano energia fossile per produrre acciaio poi utilizzato nelle torri che sostengono le pale eoliche?

Si potrebbe continuare a oltranza con domande simili, considerata la pervasività dei combustibili fossili. Chiaramente, è questione che ha una dimensione etico-filosofica complessa, potenzialmente espandibile anche in direzione di domande di diverso genere.

Ad esempio: perché un business che ha reso possibile una crescita economica straordinaria per l’intero Pianeta, concorrendo a realizzare un livello di benessere prima inimmaginabile, deve essere ritenuto totalmente responsabile del danno associato a quel benessere?

Possono poche centinaia di imprese sostenere costi intorno ai 3.000 miliardi di dollari all’anno?

Il lettore trovi le sue risposte, ma non ignori che – a fianco della questione etica – ne esiste una tecnica: come è possibile ipotizzare che un pugno di imprese possa compensare in toto le emissioni associate ai prodotti energetici che esse immettono sul mercato? Può la transizione energetica essere compiuta addossandone il peso economico sulle spalle di un centinaio di aziende? Immaginare che tali compagnie possano sostenere costi intorno ai 3.000 miliardi di dollari all’anno (IEA WEO 2020) significa ragionare senza considerare ciò che più conta, ovvero i numeri.

Infine, vi è un’ultima considerazione da fare: la compensazione delle emissioni da parte delle compagnie produttrici – qualora alternativa ad incrementi di prezzo dei prodotti carbonici – va in direzione opposta a quella della carbon tax, che prevede che il prezzo di tali prodotti debba crescere, proprio per dare un segnale ai consumatori e indurre un effetto di shift verso prodotti a più bassa intensità carbonica.

Una contraddizione in termini: scope 3 vs carbon tax

Se le emissioni dei prodotti finali dell’industria oil & gas verranno compensate dalle stesse compagnie – e i consumatori non esperiranno un incremento del loro prezzo – tale shift non si realizzerà e, in ultima analisi, si andrebbe proprio in direzione opposta alla decarbonizzazione. Il principio fondamentale della politica ambientale prevede, al contrario, che il prezzo incorpori tanto i costi marginali privati quanto quelli relativi all’esternalità. È a questo che qualsiasi policy climatica, a qualsiasi latitudine, tende.

È innegabile, insomma, che le compagnie energetiche e le utility debbano assumersi la loro parte di responsabilità e contribuire in misura considerevole alla transizione energetica. È però manicheo e semplicistico congetturare l’esistenza di un’unica causa attribuendo la piena responsabilità della questione climatica – e la conseguente soluzione del problema – alle energy companies e alle utility.

Chiudiamo con un’ultima domanda: cosa c’è in fondo al tunnel? Cosa attende le compagnie energetiche all’uscita della galleria della transizione? Nel report Capgemini si citano l’olandese Eneco e la danese Orsted quali esempi di aziende che hanno saputo compiere, in tempo breve e con successo, la transizione dal fossile al rinnovabile. Può trattarsi di modelli imitabili? Le energy companies basate sul fossile saranno in grado di reinventarsi? La risposta ovviamente non è semplice ma è indubbio che le compagnie oil & gas dispongono di risorse e competenze e tecnologia che potrebbero portarle fuori dal guado. Non sarà facile ma l’impresa può essere fatta. Ovviamente la certezza non c’è anche perché, dietro alla domanda sul reinventarsi, ve n’è una più subdola: ci sarà spazio per tutti?


Enzo Di Giulio, economista e membro del Comitato Scientifico di «Energia»

Foto: PxHere

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