Il rapporto di McKinsey “Net-Zero Europe. Decarbonization pathways and socioeconomic implications” sulla neutralità climatica europea è uno studio poderoso dai molti pregi. In esso vi sono calcoli e traiettorie, costi e ripartizioni geografiche degli abbattimenti. Eppure, sembra non tenere in considerazione quell’attrito che differenzia un esperimento fatto in laboratorio dalla realtà. Con un rovesciamento prevedibile, proprio ciò che è un punto di forza all’interno del laboratorio dell’ottimizzazione diventa un punto di debolezza nel reale. È possibile condurre alcuni paesi ad abbattere molto più di altri giustificando questa strategia sulla base delle virtù matematiche dell’ottimizzazione? Tre ragioni fanno propendere per il no.
La fattibilità tecnica sta a quella effettiva come l’esperimento di laboratorio sta alla realtà. Nel laboratorio l’oggetto prosegue nel suo moto rettilineo uniforme, nella realtà invece l’attrito lo ferma dopo alcuni metri. Questo viene in mente leggendo il poderoso e interessante studio di McKinsey sulla neutralità climatica europea.
In esso vi sono calcoli e traiettorie, costi e ripartizioni geografiche degli abbattimenti ma manca qualcosa, e quel qualcosa è l’attrito che potrebbe fermare la corsa dell’Unione Europea – peraltro appena agli inizi – verso la sua neutralità carbonica.
Net-Zero Europe. Decarbonization pathways and socioeconomic implications – Uno studio dai molti pregi: dal livello di dettaglio all’approccio sistemico
Lo studio indubbiamente ha molti pregi, non ultimo quello del dettaglio, poiché individua 600 casi aziendali di decarbonizzazione in 75 sottosettori, in 10 regioni, per ridurre al minimo il costo complessivo per l’Unione Europea per il raggiungimento degli obiettivi 2030 e 2050. I numeri chiave sono i seguenti:
- La neutralità carbonica dell’EU al 2050 può essere raggiunta a condizione che le emissioni di gas serra diminuiscano del 55% al 2030, rispetto ai livelli del 1990.
- Il costo netto della transizione verso net zero emissions è nullo poiché i maggiori costi sostenuti in alcuni settori saranno compensati da risparmi ottenuti in altri settori, ad esempio riducendo drasticamente i consumi di combustibili fossili. L’investimento necessario per lo shift è in media pari a 980 miliardi di euro all’anno.
- Solo la metà degli investimenti necessari genererebbe profitti positivi. Un finanziamento pubblico di circa 4,9 trilioni di euro potrebbe colmare il divario. In alternativa, un prezzo del carbonio di 50 €/tonCO2eq renderebbe profittevoli 3/4 degli investimenti necessari e un prezzo del carbonio di 100 €/tonCO2eq renderebbe redditizio l’85%. La restante parte di investimenti diverrebbe profittevole solo con prezzi della CO2 superiori a 100 €/ton.
- La generazione elettrica raggiungerebbe emissioni nette pari a zero per prima, a metà degli anni 2040, perché gran parte della tecnologia necessaria è già disponibile, seguita dai trasporti e poi, verso il 2050, dal settore residenziale, dall’industria e in ultimo dall’agricoltura.
- Circa il 50% dell’abbattimento verrà da tecnologie oggi già mature o ai primi stadi, un altro 25% da tecnologie oggi allo stadio di progetto (es. CCS), un altro 15% da tecnologie oggi allo stadio R&D. Ciò che non è abbattuto viene compensato, prevalentemente dalle foreste.
- Entro il 2050 il consumo di carbone, petrolio e gas naturale si ridurrà di oltre il 90%, la domanda di elettricità – generata per oltre il 90% da energia rinnovabile – raddoppierà.
- La transizione energetica distruggerà 6 milioni di posti di lavoro ma ne genererà 11, con un beneficio netto di 5 milioni (+2,5% di occupazione a livello europeo). 18 milioni di persone potrebbero necessitare di programmi di training e di riqualificazione.
Costo netto nullo e 5 milioni di posti di lavoro aggiuntivi: è possibile?
Nello stile McKinsey, lo studio, lungo 204 pagine, abbonda di grafici e figure che ne comunicano i contenuti con mirabile efficacia. Qui ne riportiamo un paio che mostrano, rispettivamente, la traiettoria di riduzione delle emissioni dal 1990 al 2050 e i prezzi dell’anidride carbonica associati a quote di investimento profittevoli.


Uno dei pregi del lavoro è l’approccio sistemico che mostra che abbattere dove è più conveniente, sfruttando le caratteristiche distintive di ciascuna area geografica, rappresenta una variabile chiave per ottenere un costo netto pari a zero. Ad esempio, è sensata una penetrazione più rapida dell’auto elettrica nei paesi Nordici a ragione dei minori costi di generazione elettrica, così come è prevista una penetrazione doppia del solare termico nei paesi del sud Europa.
Abbattere dove è più conveniente, sfruttando le caratteristiche distintive di ciascuna area geografica e i rispettivi vantaggi comparati
Uno degli effetti di tale ottimizzazione, basata sia sui “vantaggi comparati” dei paesi che sul loro differente punto di partenza nel sentiero della decarbonizzazione, è che alcuni di essi abbatteranno di più e altri di meno rispetto ai target europei.

Così, ad esempio, secondo lo studio McKinsey avrebbe senso che la Germania riducesse di più del previsto nel periodo 2020-2030 e la Spagna di meno, essendo quest’ultima indietro con gli abbattimenti. Al contrario, nel periodo 2030-2050 la situazione sarebbe rovesciata poiché la Spagna potrebbe cominciare a capitalizzare i benefici degli interventi di afforestazione e quelli associati ai bassi costi di produzione dell’idrogeno generato per mezzo dell’abbondante riserva di energia solare di cui dispone. Come si può vedere dal grafico, gli scostamenti rispetto ai target europei sono sensibili.
Ciò rappresenta una criticità considerevole ascrivibile a quella dimensione fattuale di cui si è detto all’inizio di questo articolo. Con un rovesciamento prevedibile, proprio ciò che è un punto di forza all’interno del laboratorio dell’ottimizzazione degli abbattimenti diventa un punto di debolezza nel contesto della realtà. È possibile condurre alcuni paesi ad abbattere molto più di altri giustificando questa strategia sulla base delle virtù matematiche dell’ottimizzazione? È possibile indurre un paese a preferire l’interesse generale della macroarea europea al proprio? Ne dubitiamo, per almeno tre ragioni.
3 ragioni per cui ciò che funziona a livello matematico non funziona in un contesto reale
La prima è che la realtà non è un esperimento di laboratorio e quindi non si ha alcun potere su variabili che, nel mondo protetto dell’ottimizzazione, si possono comandare a proprio piacimento. In parole semplici, quelli che in matematica si chiama variabili indipendenti, nella realtà sono più che dipendenti. Da cosa? Dagli interessi, dalle emozioni, dai sentimenti e anche dalle pulsioni irrazionali.
La seconda ragione è scritta nella storia dell’Unione Europea che mostra – seppure volessimo dimenticare le follie sanguinose della sua vicenda millenaria – scontri continui su numerose questioni, in primis quelle aventi impatto economico. In definitiva, il “particulare” è ancora funzione obiettivo dei singoli Stati membri.
La terza, più sostanziale, è legata al fatto che tanto i target differenziati per paesi quanto lo sfruttamento ottimizzato delle diverse tecnologie implicano un approccio top-down alla transizione energetica, e quindi una guida dall’alto del suo percorso, conciliabile solo con un’economia pianificata. Se anche l’Europa evolvesse verso gli Stati Uniti d’Europa sarebbe ugualmente arduo realizzare un piano basato su target differenziati per paesi giustificati dalle virtù dell’ottimizzazione. Si può essere certi che i paesi si armerebbero di studi che evidenziano livelli alternativi di abbattimento ottimo, a loro stessi favorevoli.
Non un forecast realizzabile ma uno scenario verso cui tendere
E allora? Dovremmo concludere che lo studio McKinsey non è utile poiché dipinge un quadro ideale difficilmente realizzabile? Null’affatto, poiché esso propone sì una traiettoria ideale – in più parti della ricerca si sottolinea come il suo risultato non sia un forecast ma uno scenario – in grado di raggiungere l’obiettivo e minimizzare i costi, ma ci ricorda anche che è ad essa che occorre tendere.
Al di là dei numeri, chiaramente opinabili, lo studio ci dice che esiste una parte della curva dei costi di abbattimento dei gas serra negativa: in altri termini i benefici derivanti dall’abbattimento sono maggiori dei costi.
L’importanza dell’impatto socioeconomico
Si può dire che McKinsey ritorna su un suo vecchio cavallo di battaglia – la curva di abbattimento – e su di esso costruisce un’intera strategia di riduzione delle emissioni. I problemi sono enormi, non ultimi quello dell’impatto socioeconomico ai quali lo studio dedica uno spazio che, in verità, avrebbe potuto essere più ampio.
Il caso francese dei gilet gialli ci ricorda il potenziale sopito di protesta sociale, anche violenta, che una semplice carbon tax può innescare. E nel caso della transizione energetica “carbon pricing is the king”. Dunque, il design dei cosiddetti ammortizzatori sociali – e la loro comunicazione ai cittadini – è tanto importante quanto quello della traiettoria di decarbonizzazione.
Chiudiamo con un paio di considerazioni sugli aspetti finanziari. McKinsey conviene con la IEA che gran parte dell’investimento richiesto alla transizione energetica sarà di natura privata. Nell’ultimo WEO, l’Agenzia di Parigi ha sostenuto che più del 70% degli investimenti in energia pulita verranno verosimilmente da fonti private (WEO 2020, p. 51).
Gran parte dell’investimento richiesto è di natura privata
Analogamente, McKinsey sostiene che già oggi il 40% degli investimenti verdi necessari al target di emissioni zero si ripaga e, quindi, non ha bisogno di essere sussidiata. Una carbon tax pari a 50 €/tonCO2eq. renderebbe positivi i valori attuali netti di molti altri progetti mobilizzando un altro 21% di capitale. E così via: valori crescenti della carbon tax rendono positivi i conti dei progetti di decarbonizzazione limitando la necessità di un intervento pubblico. In alternativa, se non vi fosse una crescita del valore della carbon tax, l’intervento pubblico necessario sarebbe pari a 4,9 trilioni di €.
Nel complesso l’investimento totale – pubblico e privato – sarebbe pari a 28 trilioni di € nei prossimi 30 anni. Circa 23 trilioni (800 miliardi €/anno) proverrebbero da fondi che, se non fossero rindirizzati, andrebbero a finanziare tecnologie carbon intensive. In altre parole, l’82% degli investimenti consisterebbe in un mero spostamento di fondi dai fossili al green.
È interessante confrontare il totale complessivo degli investimenti ipotizzati da McKinsey (28 trilioni €) con quelli stimati dalla IEA nell’ultimo WEO per lo scenario SDS, che sono pari a circa 27 trilioni di $ nel decennio 2020-2030 (WEO 2020, grafico 1.12 a p. 53).

Il confronto è difficile perché l’orizzonte temporale, la valuta e l’area di riferimento sono diversi. Si può però affermare che qualora la IEA congetturasse, per il periodo 2030-2070, un passo degli investimenti mondiali analogo a quello dei dieci anni 2020-2030, lo sforzo richiesto per portare le emissioni nette a zero nel 2070 (SDS scenario) sarebbe pari, in totale, a 135 trilioni di dollari. All’attuale tasso di cambio, il costo complessivo europeo rappresenterebbe circa il 25% di quello mondiale. Ciò significa che un’area che concorre alle emissioni mondiali per circa il 10% dovrebbe investire un quarto del totale. Certamente i costi di abbattimento europei sono più elevati della media mondiale, ma l’ammontare di investimento stimato da McKinsey per l’Europa è troppo alto se rapportato al valore mondiale IEA.
Un’area che concorre alle emissioni mondiali per circa il 10% dovrebbe investire un quarto del totale
Citiamo questi dati non per evidenziare l’errore dell’una o dell’altra istituzione quanto per sottolineare come sia complesso e difficile, oggi, pervenire a un numero condivisibile. E tale difficoltà non è altro che l’altra faccia di quella medaglia chiamata incertezza. In ultimo, di ciò che accadrà nelle prossime tre-quattro decadi sappiamo veramente poco. I conti si faranno alla fine e anche in quel caso non sarà semplice farli. Saranno forse più bassi – o straordinariamente più alti, chi può dirlo? – di quanto oggi congetturato. Di certo vi saranno costi sociali, oggi invisibili ai modelli. Ciò che è, accade nel reale: e il reale non è un corpo che cade nel vuoto, ma una foglia trascinata dal vento.
Enzo Di Giulio, economista e membro del Comitato Scientifico di «Energia»
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Foto: Unsplash
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