I dati sono il nuovo petrolio: prendere sul serio l’affermazione, oramai un luogo comune, può generare interessanti cortocircuiti e suggerire soluzioni alle sfide della transizione energetica dalle fonti fossili. Tra le similitudini: il supporto governativo di cui entrambi godono/hanno goduto dai rispettivi paesi; l’estrazione di una risorsa assai poco tutelata dal punto di vista giuridico, fiscale e industriale; la produzione di “scarti”. Tra le differenze: le prospettive future e la concorrenza/controllo nei rispettivi business. Sia per Big Oil che per Big Tech servono infine leggi, regolazione industriale e fiscale. Nel primo caso, per evitare il collasso dei petro-Stati e guerre dei prezzi. Nel secondo, per impedire al “capitalismo della sorveglianza” di continuare a minacciare le società democratiche.
“I dati sono il nuovo petrolio”. Prendere sul serio l’affermazione, oramai un luogo comune, può generare interessanti cortocircuiti e suggerire soluzioni alle sfide della transizione energetica dalle fonti fossili.
In primo luogo, ci sono similitudini rilevanti.
Le società GAFAM (Google, Amazon, Facebook, Apple, Microsoft) capitalizzano oltre 7 trilioni di dollari, 4 volte la capitalizzazione dell’intera Borsa francese. Anche se fino al 2019 la società del petrolio Saudita, Saudi Aramco, macinava profitti doppi di Apple, Big Tech sarebbe oramai divenuta quello che Big Oil rappresentò nel ‘900: un’industria di importanza sistemica, dalla quale dipendono la prosperità del sistema industriale, la stabilità finanziaria globale, la vita quotidiana dei singoli cittadini.
Big Tech: un’industria d’importanza sistemica, come lo è stato Big Oil
Sia Big Tech che Big Oil si sono arricchite estraendo una risorsa assai poco tutelata dal punto di vista giuridico, fiscale e industriale. Quando le multinazionali petrolifere anglo-americane hanno iniziato ad espandersi in America Latina e Medio Oriente tra le due Guerre Mondiali, hanno imposto le loro condizioni grazie ad una combinazione di superiorità tecnologica e sostegno imperiale da parte dei Paesi di origine. Anche Big Tech beneficia del sostegno geopolitico di Washington, nonché della sostanziale subalternità dal punto di fiscale, giuridico e tecnologico dei Governi nazionali così come di organismi sovranazionali quali la Commissione europea.
Entrambe le attività estrattive, oltre ad aver contribuito in modo differente ad una espansione della capacità di consumo e ad un’evoluzione dei sistemi industriali, producono “scarti” che hanno un impatto tanto più importante in quanto si tratta di industrie “sistemiche”. Nel caso degli idrocarburi gli “scarti” sono le emissione di CO2, principale causa del riscaldamento globale e dunque della crisi climatica in atto. Nel caso di Big Tech gli scarti, come nota Shoshana Zuboff, consisterebbero nel “caos epistemico” prodotto dalla necessità di generare in qualunque modo quante più interazioni possibili.
Generare interazioni ad ogni costo: lo “scarto industriale” delle Big Tech
Fatte salve le similitudini, le differenze sono di non poco conto.
La prima differenza importate riguarda le prospettive future delle due industrie. La pandemia da Covid ha prodotto la maggior diminuzione del consumo globale di petrolio nella Storia (in valore assoluto), e ha spinto una minoranza di analisti a pronosticare il 2020 come anno del picco storico della produzione. In ogni caso la produzione di idrocarburi dovrà diminuire molto significativamente per rispettare l’obiettivo di zero emissioni nette di CO2 al 2050. La pandemia ha avuto l’effetto opposto per Big Tech: vi è stato un aumento esponenziale dell’utilizzo delle piattaforme elettroniche che ne ha dimostrato il ruolo strategico dalla distruzione all’educazione.
Controllare l’estrazione di una risorsa naturale fisica è relativamente facile rispetto a controllare prodotti immateriali tendenzialmente illimitati come i dati
Inoltre, Big Oil, così alcuni continuano ad immaginarla, non esiste più almeno dagli anni ’70 del Novecento. Alle grandi multinazionali del petrolio si sono affiancate, dopo le nazionalizzazioni, società nazionali, dall’Arabia Saudita all’Iran, che messe insieme hanno volumi produttivi assai più significativi delle multinazionali. Anche Big Tech potrebbe vedersi insidiata in futuro da società più controllabili sia dal punto di vista operativo che fiscale, un poco sul modello delle piattaforme cinesi. D’altra parte, mentre controllare l’estrazione di una risorsa naturale fisica è relativamente facile, non è detto che sia altrettanto semplice controllare prodotti immateriali tendenzialmente illimitati come i dati.
Nonostante le significative differenze, entrambe le industrie vedono aprirsi scenari inediti. Nel caso degli idrocarburi l’obiettivo è limitarne la produzione per evitare che gli “scarti” ci spingano dal precipizio di una crisi climatica irreversibile. Anche nel caso dei dati l’obiettivo dovrebbe essere quello limitarne in modo significativo l’utilizzo commerciale, per impedire che il “caos epistemico” getti nel panico le società democratiche e che il “capitalismo della sorveglianza” fornisca armi sempre più raffinate ai Governi autoritari.
La regolazione antitrust è all’altezza della sfida posta dalle Big Tech?
La stessa Zuboff ammonisce che le norme “antitrust”, bandiera dei liberal americani e della Commissione europea, non sembrano fornire risposte all’altezza della sfida in atto. Se si guarda allo “smembramento” del monopolio di Standard Oil nel 1911 dal punto di vista della riduzione delle emissioni nocive, si capisce che la campagna contro Rockefeller ha avuto un impatto irrilevante sulla questione ambientale. Stesso dicasi per Big Tech. L’invocato “spacchettamento” di Big Tech in società più piccole, mentre eviterebbe situazioni di monopolio e potrebbe scongiurare un aumento dei prezzi dei servizi, non impedirebbe al “capitalismo della sorveglianza” di continuare a minacciare le società democratiche.
Sia per Big Oil che per Big Tech servono leggi, regolazione industriale e fiscale. In particolare, nel caso di Big Oil, se vuole evitare il collasso dei petro-Stati e guerre dei prezzi, occorre concentrarsi su meccanismi per una riduzione coordinata della produzione: supply side climate policies. Gli attori istituzionali di importanza globale di queste politiche regolative per ora sono la solo Texas Railroad Commission negli Stati Uniti (che da tempo però appare imbelle e incapace di regolare la produzione) e l’OPEC, che solo a tratti si è comportato come un’agenzia di conservazione della risorse naturale.
Mancano purtroppo istituzioni internazionali per la regolamentazione del commercio di idrocarburi dal lato dei grandi consumatori, perché si viene da quasi mezzo secolo di cieca fede nelle virtù salvifiche nel mercato sia come regolatore dei bisogni sociali che come regolatore dello sfruttamento delle risorse naturali del Pianeta.
Giuliano Garavini è docente di Storia delle relazioni internazionali presso l’Università Roma Tre
Su Big Tech, Big Oil e Big Data leggi anche:
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Utility: tra Big Oil e Web Giant, di Redazione, 23 Settembre 2019
Big Oil vs utility per il mercato elettrico, di Alberto Clò, 30 Aprile 2019
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Foto: Wikimedia
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