2 Marzo 2021

Il tecno-ottimismo è il profumo della transizione ecologica?

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La politica climatica UE è pregna di tecno-ottimismo, ma prima che tecnologica, la transizione ecologica è sociale e politica. Confida di decarbonizzare i sistemi produttivi attraverso efficienza energetica e rinnovabili, assicurando al contempo crescita economica e giustizia sociale. Ma tale schema di lavoro è limitato. La nostra è una civilizzazione fossile fondata sul nesso crescita economica/emissioni di carbonio. I 4 pilastri delle società moderne – cemento, acciaio, plastica, ammoniaca – sono hard-to-abate. Sostituire i mezzi senza cambiare i fini potrebbe risultare totalmente inefficace. È una questione di stile di vita. Siamo disposti a cambiarlo adattandolo a fonti energetiche alternative al petrolio?

Nonostante l’apparenza che si stia operando seriamente, le concentrazioni di CO2 in atmosfera continuano a crescere.

La Cina grazie alla sua straordinaria crescita economica è divenuta primo produttore e consumatore (e quindi emettitore) di energia al mondo. E la sua strategia di crescita per il prossimo quinquennio lascia presagire che non ci saranno inversioni in questo senso. Segue l’India, che brucia carbone per il 58% del suo fabbisogno energetico totale (più petrolio per il 28%). Una quota che si manterrà intorno al 50% per almeno i prossimi 30 anni.

Di fatto, da quando la questione climatica è entrata nell’agenda politica internazionale col Summit della Terra di Rio (1992), “we are running into carbon, not away from it” come ha affermato il grande storico energetico Vaclav Smil.

We are running into carbon, not away from it – Vaclav Smil

Ingenti quantità di denaro sono state spese in ricerca, sviluppo di tecnologie low-carbon e regolamentazione climatica (carbon tax e mercato delle emissioni di carbonio), ma i risultati sono rimasti scarsi con le fossili passate tra il 1991 e il 2018 dal 91% all’89% del mix energetico globale.

Nonostante il quadro sconfortante, la politica climatica dell’UE è pregna di ottimismo e convinta, con lo European Green Deal, di poter decarbonizzare i sistemi produttivi attraverso due elementi chiave – efficienza energetica e rinnovabili – assicurando al tempo stesso crescita economica e giustizia sociale. In che termini saranno declinati i concetti di efficienza o giustizia sociale, o se è possibile disaccoppiare la crescita dall’uso delle risorse, non è al momento dato sapere.

In Italia, il nuovo governo Draghi si è formato sul compromesso col M5S di formare un Super Ministero della Transizione Ecologica. Draghi non poteva rimanere sordo alle istanze europee ed ha prontamente affermato che il suo sarà “un governo ambientalista”. Quindi: transizione ecologica.

Il tecno-ottimismo ci salverà? L’aspetto tecnico non può essere in nessun modo isolato da considerazioni politiche, economiche e sociali

Ma verso dove? A che prezzo? Chi paga? A che fine e con quali priorità? L’aspetto tecnico non può essere in nessun modo isolato da considerazioni politiche, economiche e sociali, poiché non esistono pasti gratis e ogni cambiamento ha vincitori e vinti. Invece, la narrativa proposta consiste in un tecno-ottimismo, dove innovazione e tecnologia permetteranno di “salvare l’ambiente” a patto che saremo competenti nella realizzazione degli obiettivi proposti.

Entrando nel dettaglio, il Green Deal europeo si basa essenzialmente su questi pilastri – efficienza energetica, rinnovabili e idrogeno verde, circular economy – rispecchiati a livello nazionale nella distribuzione delle risorse del piano Next Generation EU. Ma tale schema di lavoro è limitato.

L’efficienza energetica degli attuali convertitori (fossili, per la maggior parte), perfezionati nel corso dell’ultimo secolo, ha margini molto limitati: 2-3% all’anno sono già altissimi, lontani da quei 30-40% necessari per rispettare gli Accordi di Parigi.

Rinnovabili e idrogeno possono essere utili nella decarbonizzazione del settore elettrico, ma con molti interrogativi. Senza entrare nella discussione dei problemi di intermittenza o di stoccaggio, basterà notare che il settore elettrico pesa al 17% sul totale dei consumi finali mondiali. Se anche riuscissimo a decarbonizzare al 100% la produzione di elettricità, e siamo ben lontani dal farlo, rimarrebbe comunque l’80% dell’energia da fonte fossile.

Fonte: J.P. Morgan

I 4 pilastri delle società moderne – cemento, acciaio, plastica, ammoniaca – sono anche settori hard-to-abate

E qui risiede il problema maggiore, quello dei cosiddetti settori hard-to-abate (“difficili da abbattere”, in termini di carbonio). Industria e trasporti su tutti. Attualmente, non esistono alternative su larga scala per sostituire il petrolio nella mobilità. E il potente sviluppo economico dei Paesi emergenti, sempre con Cina e India in testa, spinge in alto la domanda dei “4 pilastri delle società moderne”: cemento, acciaio, plastica, ammoniaca.

Tali materiali sono pervasivi del nostro modo di vivere e la loro produzione industriale è completamente dipendente dai fossili. L’acciaio, per esempio, si produce a partire dal ferro. Il quale, per essere estratto dal minerale grezzo, ha bisogno di coke: non solo per l’energia di reazione, ma per fornire il carbonio come reagente nella riduzione chimica dei minerali ferrosi. Per cui, le produzioni di acciaio e coke vanno a braccetto, rendendo indispensabile l’utilizzo di fonti fossili.

In Cina per esempio, il governo sta cercando di limitare il consumo di carbone in accordo agli impegni ambientali sottoscritti, sostituendolo però con pet-coke (prodotto di scarto pesante della raffinazione del petrolio) economico che arriva dagli Stati Uniti e non spostando in alcun modo la bilancia delle emissioni. 

Siamo una civilizzazione fossile fondata sul nesso crescita economica/emissioni di carbonio

Noi siamo una civilizzazione fossile. Crescita economica ed emissioni di carbonio sono due facce della stessa medaglia. L’intera struttura sociale, istituzionale ed economica assume implicitamente l’esistenza di energia fossile a buon mercato, che possa essere convertita ed utilizzata secondo le forme attualmente in uso. Tale fatto genera una serie di lock-in, multidimensionali e ad ogni livello sociale, difficili da rompere.

 “La path dependency è comune nel processo decisionale, poiché le politiche, le istituzioni e le industrie coevolvono nel tempo. Le politiche e i regolamenti, una volta implementati, definiscono gli stakeholder e i gruppi di interesse e creano forum attraverso i quali si organizzano e fanno pressione. Uno specifico “modo di fare le cose” o stile politico viene a collegare burocrazie, industrie e gruppi di interesse, uno che include non solo chi è rappresentato ma anche cosa è importante o no e come regolamentare”, scrive su World Resources Institute Max Åhman, Professore di Sistemi Energetici e Ambientali all’Università di Lund.  

Sostituire i mezzi senza cambiare i fini potrebbe risultare totalmente inefficace

L’azione climatica, così come è proposta, potrebbe risultare totalmente inefficace. Operare solo aggiustamenti tecnici, cioè sostituire i mezzi (ad es. convertitori e vettori energetici) attraverso i quali otteniamo energia, senza cambiare i fini (ad es. servizi energetici, mobilità, condizionamento ambientale, ecc..) per i quali richiediamo energia, non comporterà una trasformazione sostanziale del sistema.

La “Transizione Ecologica”, intesa nella sua complessità, non ha a che fare solo con la tecnologia o il mercato, ma col trasformare radicalmente le nostre “social practice”: la nostra vita quotidiana, le relazioni sociali, politiche e istituzionali, per adattarsi a un mondo che evolve.

Parlare di “transizione” sottintende conoscere il punto di partenza e quello di arrivo. Significa avere un piano e sapere dove vogliamo andare. Ma noi occidentali vogliamo più innovazione e tecnologia che ci permetta di continuare a vivere nello stesso modo. Non vogliamo cambiare, “vogliamo tornare alla normalità”.

Non c’è deus-ex-machina tecnologico, la transizione prima di ecologica è sociale e politica

La vera “trasformazione”, che prima di essere ecologica è sociale e politica, ma ancor più profondamente psicologica e culturale, deve rispondere alla seguente domanda: “come dovremo cambiare la nostra maniera di usare l’energia e il nostro stile di vita, in modo da essere in grado di basare la nostra società su fonti energetiche alternative al petrolio?” (Mario Giampietro, Professore ICREA all’Università Autonoma di Barcellona ed esperto di Complessità).

Dare una risposta seria a questo quesito implica porre in discussione la nostra identità collettiva e cambiare le nostre aspettative sul futuro.


Michele Manfroni è PhD student, ICTA-UAB (Instituto de Ciencias y Tecnologias Ambientales – Universitat Autonoma de Barcelona)


Sulla velocità della transizione energetica leggi anche:
Se l’auto elettrica sbanda nella curva (di Kuznets), di Enzo Di Giulio, 25 Febbraio 2021
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Transizione energetica: il baratro tra essere e dover essere, di Enzo Di Giulio, 1 Febbraio 2021
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Foto: Unsplash

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