Garantire l’accesso ai servizi universali è una funzione sociale obbligatoria per l’impresa che fornisce i servizi. L’esigenza di ridurre le inefficienze attraverso processi di liberalizzazione e privatizzazione ha però di fatto sacrificato il principio di equità. La riduzione dei costi non è derivata da effettivi miglioramenti di efficienza a parità di servizi, ma anche dal loro affievolirsi. Ad aumentare è invece la povertà energetica.
Secondo il diritto francese, lo Stato altro non è che la sommatoria di servizi pubblici. La sua stessa ragion d’essere. Considerazioni di carattere socio-politico, di natura extra-economica, portano ad assegnare ad alcune attività economiche una finalità sociale la cui soddisfazione non è di per sé garantita dal funzionamento spontaneo del mercato.
Da qui, l’obbligo imposto alle imprese che li erogano di garantire il cosiddetto servizio universale, qualificabile, secondo la Commissione Europea, come un “insieme minimo definito di servizi di determinata qualità disponibile a tutti gli utenti a prescindere dalla loro ubicazione geografica e offerto in funzione delle specifiche condizioni nazionali a un prezzo abbordabile” (Direttiva 97/33/Ce del Parlamento Europeo e del Consiglio, 30 giugno 1997). In sintesi: un servizio minimo che deve essere erogato anche a qualsiasi utente indipendentemente dalla sua dislocazione geografica e dal suo reddito.
Lo Stato obbliga l’impresa che fornisce servizi universali ad onorare la propria funzione sociale
Va da sé che ciò comporta, sempre e comunque, un extra-costo aziendale che deve essere riconosciuto a chi lo eroga, a carico della collettività, come nel sistema dei trasporti, con i trasferimenti dallo Stato alle imprese, o di parte dei consumatori di quel servizio (sussidi incrociati). L’affermazione di Milton Friedman secondo cui “nessun pasto è gratis” è più che mai vera nel campo dei servizi pubblici, ove l’abuso in passato della loro gratuità ha generato, in molti casi, costi e dissesti aziendali nettamente maggiori dei benefici illusoriamente riconosciuti ai consumatori. Questi ultimi, di fatto, hanno pagato attraverso la fiscalità generale costi superiori a quelli ‘risparmiati’: con aumenti dei trasferimenti alle imprese, del debito pubblico, dei tassi di interesse, dell’inflazione.
La copertura pubblica dell’extra-costo ha generato inefficienze aziendali maggiori dei benefici riconosciuti ai consumatori
Data l’ampia diffusione e compenetrazione nei processi produttivi e nei consumi delle famiglie, i servizi pubblici hanno assunto una particolare valenza strategica: perché essenziali alla competitività di un paese, al benessere della collettività, ai diritti di cittadinanza della popolazione. Dal che, la conclusione che il novero di tali servizi – e la stessa connessa nozione di interesse pubblico – tendono a modificarsi e ampliarsi nel tempo in relazione al livello di sviluppo socio-economico di un paese, al progresso delle tecnologie, al modificarsi delle esigenze primarie della popolazione.
Se nelle prime fasi di sviluppo di un paese l’alfabetizzazione scolastica della popolazione si poneva, ad esempio, come primaria conquista sociale e, quindi, come servizio pubblico essenziale, nelle fasi avanzate è divenuta – o sarebbe dovuta divenire – essenziale l’alfabetizzazione informatica per evitare discriminazioni sociali e il venir meno di condizioni di pari opportunità nella popolazione. Come si è ampiamente visto nei giorni del lockdown e della didattica a distanza che ha penalizzato gli studenti che non disponevano della connessione a internet. Alla fine del 2009, il parlamento finlandese fissò così per legge il diritto di tutti i suoi cittadini di disporre dal luglio 2010 di internet e della banda larga, parimenti a quel che fece il presidente Obama con il National Broadband Plan per la connessione di scuole, ospedali, edifici pubblici.
L’alfabetizzazione informatica è divenuta un servizio pubblico essenziale. Anzi “sarebbe”, considerando che molti studenti durante il lockdown sono stati penalizzati dall’assenza della connessione a internet
I processi di liberalizzazione e privatizzazione (anche solo parziale con la quotazione dei gruppi controllati dallo Stato o enti locali) avviati negli scorsi decenni hanno finito in molti paesi europei, incluso il nostro, per gettare con l’acqua sporca dell’inefficienza anche il bambino dell’equità sociale nei servizi pubblici (Clò A., Clò S., Boffa F., Riforme Elettriche tra Efficienza ed equità, il Mulino, 2014).
Nelle società europee ha preso a diffondersi un diverso modo di intendere il concetto stesso di servizio di pubblica utilità (non solo nel settore energetico), rispetto a quello un tempo dominante. Passando così da un estremo all’altro: dall’impedire in tali ambiti ogni libertà di mercato e interesse privato, spesso dietro l’alibi della tutela di interessi generali, al graduale svuotamento del concetto stesso di interesse generale e di servizio pubblico. Finendo così per sacrificare alle esigenze dell’efficienza quelle dell’equità. Le cose in Italia non sono andate diversamente. Anzi.
La tendenza in Europa è di ‘sacrificare alle esigenze dell’efficienza quelle dell’equità’
Dalle grandi riforme energetiche avviate con l’intento di migliorare le cose per i consumatori non è sortito quanto si sperava ed auspicava. I prezzi hanno continuato ad aumentare, a livelli superiori a quelli medi europei, nonostante la riduzione dei costi, con conseguente aumento dei profitti delle imprese.
La riduzione dei costi non è derivata, questo il punto, solo da effettivi miglioramenti di efficienza a parità di servizi, ma anche dal loro affievolirsi.
Per intenderci: se un tempo qualsiasi cittadino aveva diritto a disporre di servizi essenziali, oggi ne può disporre pienamente solo in funzione della sua dislocazione geografica. Ovvero se la connessione al tubo del gas o dell’acqua o al traliccio dell’elettricità è a lui fisicamente prossima. Altrimenti può trovarsi a dover sostenere costi dell’ultimo miglio assolutamente proibitivi, differenziati da territorio a territorio, tra comune e comune, tra centro e periferia.
Così che quel cittadino è costretto a rinunciare a quel servizio, ricorrendo a soluzioni qualitativamente peggiori. Dovendovi provvedere di propria tasca – per cifre nell’ordine di decine e decine di migliaia di euro – là dove a farlo un tempo erano le aziende erogatrici.
La riduzione dei costi non è derivata solo da effettivi miglioramenti di efficienza a parità di servizi, ma anche dall’affievolirsi dei servizi stessi
Anche un’impresa rinuncerà ad insediarsi in aree periferiche o a minor sviluppo, si pensi al Mezzogiorno, per non incorrere in investimenti energetici esorbitanti.
Nel frattempo, il fenomeno della povertà energetica, impossibilità a disporre e pagare una minima razione quotidiana di energia, è andato dilatandosi colpendo nel 2018 (ultimo dato disponibile) 2,3 milioni di famiglie, pari quindi a 4-5 milioni di persone (Valbonesi et al., La povertà energetica e la Just Transition, in ENERGIA 1.21, in corso pubblicazione). In Europa se ne contano per 50-100 milioni di persone. Con la pandemia le cose sono peggiorate.
Un servizio diverso in base al reddito e alla distribuzione geografica non è più universale
Conclusione: diritti essenziali, di cittadinanza, che parevano darsi per acquisiti sono andati progressivamente affievolendosi sin quasi a scomparire. Nell’indifferenza e nel silenzio generale della politica e dei regolatori nazionali e locali. Una situazione poco degna per un paese moderno.
Alberto Clô è direttore di ENERGIA e RivistaEnergia.it
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Foto: Unsplash
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