La leadership climatica si conquista soprattutto con le nuove tecnologie. La Cina lo ha capito da tempo ed è oggi in netto vantaggio sui concorrenti. Gli Stati Uniti, dopo aver perso contro il gigante asiatico la battaglia del fotovoltaico, cercano di recuperare terreno puntando sul protezionismo (auto elettriche made in USA) e altre tecnologie (come il CCS). E l’Europa? Dopo anni di leadership climatica fondata sul soft power del buon esempio, deve stare attenta a non consegnarsi a una totale dipendenza tecnologica dalla Cina. La politica estera e la diplomazia climatica UE ritengono la partnership con la Cina possibile e desiderabile. Non vi è in questa strategia nulla di paragonabile alla ricerca di autonomia tecnologica di Biden. Né un tentativo di avviare una fattiva cooperazione con gli Stati Uniti, all’interno di una ribadita centralità dell’alleanza atlantica.
Wood Mackenzie ha pubblicato recentemente un rapporto sulla Cina che ne certifica l’assoluto dominio in una larga parte delle tecnologie pulite, con le seguenti quote di mercato sulla produzione mondiale.
Un quadro destinato nel tempo a rafforzare l’industria cinese con percentuali prossime o superiori all’80%, ponendola in una situazione di quasi-monopolio.
I paesi, Europa in testa, impegnati a disegnare politiche climatiche volte a conseguire in pochi decenni una piena neutralità carbonica dovrebbero tenerne conto, data la grande rilevanza della variabile geopolitica nel gioco energetico.
Dalla padella (della dipendenza di idrocarburi da una pluralità di produttori) alla brace (della dipendenza tecnologica da un solo produttore, la Cina)
Dipendere dagli approvvigionamenti esteri di petrolio o di metano espone a rischi di vulnerabilità politica, ma una cosa è dipendere da una pluralità di paesi fornitori in mercati globalizzati, altra dipendere da un quasi monopolista.
La Cina ha alimentato la sua straordinaria crescita sull’impiego delle fonti fossili (80% dei complessivi consumi) e dei metalli. Nonostante gli enormi investimenti che ha realizzato all’estero, specie in Africa, la sua proprietà diretta di petrolio e metano rimane marginale (intorno al 17% della domanda interna) così che è progressivamente crescente la sua dipendenza dall’estero (prevista all’80% per il petrolio e 50% per il metano).
L’indipendenza energetica – incardinata nel XIV piano quinquennale (si veda il commento sulla Dual Circulation Strategy pubblicato su questo blog) – è divenuta per Pechino un’assoluta priorità che intende perseguire con la strategia climatica: non solo per ridurre le emissioni (oggi è il primo emettitore mondiale, col 28% del totale) ma anche per guadagnare, a livello nazionale, una piena sovranità sull’energia e, su quello internazionale, il dominio delle tecnologie pulite, forte del vantaggio dell’esserne stato il first mover.
Cina vs Stati Uniti: la leadership climatica passa dal dominio energetico
All’energy dominance che gli Stati Uniti intendono conseguire nell’oil&gas, divenendone primo produttore mondiale, si è andato così contrapponendo l’obiettivo dell’energy dominance della Cina nelle nuove tecnologie, nelle relative supply chain, nei materiali di base – metalli e terre rare in primis – di cui abbisognano.
La rivoluzione green propugnata dagli Stati Occidentali, nelle tecnologie dominate dalla Cina (solare ed eolico), trascurando (casualmente?) quelle in cui è assente, va esattamente in questa direzione.
La Cina ne trarrà i maggiori vantaggi industriali e maggior potere di interdizione internazionale, rammentando i casi di restrizioni all’esportazione che ha imposto. La prospettiva di una progressiva emarginazione delle fossili a beneficio delle tecnologie green gioca, in conclusione, a favore della Cina e a svantaggio degli Stati Uniti. Che difficilmente potrebbero accettarlo per ragioni politiche e industriali.
Gli Stati Uniti hanno perso la prima battaglia tecnologica contro la Cina: il fotovoltaico
Il disinteresse verso le nuove tecnologie, che non rientravano nella prospettiva ‘America First’ di Donald Trump, ma anche di Barack Obama, ha fatto perdere terreno all’America in molti comparti, a cominciare da quello fotovoltaico.
La rincorsa alla leadership climatica “cambiando tutto per non cambiare nulla, cioè rimanendo motore del settore energetico” è ora al centro dell’America di Biden, come ha sottolineato Gaetano Di Tommaso nello scorso numero di ENERGIA. Sebbene l’esito sia ancora difficile da prevedere.
Le cose potrebbero tuttavia mutare col piano da 2.000 miliardi di dollari (1% del PIL) da spendere entro la fine del decennio proposto da Joe Biden al Congresso, che dovrà approvarlo, per modernizzare il sistema delle infrastrutture nazionali, specie quelle dei trasporti ove le spese federali sono al minimo da sei decenni in qua.
La crisi climatica e le ambizioni autocratiche della Cina: le grandi sfide del nostro tempo secondo l’America di Biden
Dal 1960 gli investimenti pubblici sull’insieme dell’economia americana sono scesi del 40%. L’American Jobs Plan li riporterà ai livelli che si ebbero per la conquista dello spazio. L’intento, si legge in un briefing della Casa Bianca, è di “mobilitare il paese per contrastare le grandi sfide del nostro tempo: la crisi climatica e le ambizioni autocratiche della Cina”. Un accostamento affatto casuale che spiega quanto i due temi siano strettamente intrecciati.
Il Piano destinerà:
– 621 miliardi di dollari ai trasporti, di cui 174 ai veicoli elettrici
– 480 alla ricerca e manifattura
– 100 alla rete elettrica.
Dovrebbe quindi esserne favorita l’intera supply chain dell’auto elettrica; dalle batterie ai centri di ricarica ai materiali impiegati. Specie le terre rare, che “rare” non sono in termini geologici, ma “dominate”, questo sì, dalla Cina.
American e-car first: la mossa di Biden per recuperare terreno nell’auto elettrica
Dal 2015 al 2018, gli Stati Uniti hanno importato l’80% delle terre rare dalla Cina. Se vuol guadagnare spazio sul mercato dell’auto elettrica, l’America dovrà vincerne la concorrenza.
Il Presidente Biden ha chiesto al Congresso di riconoscere ai consumatori sconti e incentivi affinché acquistino auto elettriche americane, assicurandosi che lo possano fare (dettaglio sociale da noi trascurato) anche le famiglie a minor reddito.
Altra tecnologia che l’Amministrazione americana intende favorire è quella del carbon capture and storage (CCS) su cui concordano (diversamente da noi) sia i movimenti ambientalisti che l’industria petrolifera, coinvolgendo, con 10 progetti pioneristici, centrali elettriche e industrie difficili da decarbonizzare (hard-to-abate) come siderurgia e cemento.
E l’Europa?
E l’Europa? Come si configurano le sue politiche climatiche rispetto al ruolo dominante che oggi e in futuro Pechino è destinato ad assumervi, così da porsi rispetto ad essa in posizione di subalternità?
I 27 paesi membri sono davanti a una duplice prospettiva: da un lato, ridurre la dipendenza estera dalle fonti fossili grazie alla penetrazione delle rinnovabili, ma, dall’altro, accrescere contestualmente la dipendenza dal monopolio cinese.
La percezione della vulnerabilità dell’Europa verso la Cina è aumentata sensibilmente nella politica e nell’opinione pubblica con l’amara esperienza del Covid-19, che ha sollevato pesanti interrogativi riguardo la vulnerabilità delle sue catene del valore dischiuse dai processi di delocalizzazione.
Come sottolinea Romano Prodi sulle pagine di ENERGIA 4.20 “Le tre grandi aree economiche del mondo, cioè Cina, Europa, Stati Uniti, pur mantenendo corposi rapporti economici fra di loro, daranno quindi vita a un processo di reshoring dedicato a riportare nel loro territorio le pur minime attività necessarie per controllare i diversi passaggi che caratterizzano le catene del valore dei loro prodotti”.
Nonostante questo, la politica estera comunitaria, la sua diplomazia climatica, ritiene che la partnership con la Cina sia possibile e desiderabile. Perché quel che farà la Cina sarà determinante nel proteggere l’Europa dai temuti effetti dei cambiamenti climatici, al punto da rivendicare come suo successo l’impegno, più formale che sostanziale, del presidente Xi Jinping di conseguire una neutralità carbonica entro il 2060.
Ogni sorta di partnership tra Europa e Cina intersecherà contrapposti interessi geopolitici e geoeconomici
Ogni sorta di partnership intersecherà tuttavia contrapposti interessi geopolitici e geoeconomici. La Presidente Ursula von der Leyen ha affermato che la Commissione sarà ‘geopolitica’ nella difesa degli interessi dell’Unione incardinati nell’obiettivo della European Strategic Autonomy. Sarebbe sperabile che ciò avvenisse anche nelle scelte climatiche, ma le cose paiono volgere in altra direzione.
La realizzazione dello European Green Deal e le ampie risorse messe a disposizione nel Next Generation EU per la sua realizzazione stanno portando infatti la generalità degli Stati europei a scelte settoriali che determineranno inevitabilmente una crescente e duratura dipendenza dalla Cina.
Non vi è in questa strategia nulla di paragonabile a quella di Joe Biden per dare all’America un’autonomia nelle nuove tecnologie verdi. Come non vi è nessun tentativo di avviare una fattiva cooperazione con gli Stati Uniti, all’interno di una ribadita centralità dell’alleanza atlantica – come auspicato da Enrico Letta su questo blog – né a ben vedere nei rapporti tra gli stessi Stati membri.
Alberto Clô è direttore di ENERGIA e RivistaEnergia.it
Sulla Cina, geopolitica e leadership climatica leggi anche:
La “Dual Circulation Strategy” cinese: un possibile brutto colpo per l’agenda climatica globale, di Michele Manfroni, 4 Febbraio 2021
Transizione energetica: il baratro tra essere e dover essere, di Enzo Di Giulio, 1 Febbraio 2021
Una Pandemia (anche) politica, di Redazione, 28 Dicembre 2020
Verso un nuovo super-ciclo delle materie prime?, di Alberto Clò, 26 Gennaio 2021
Biden e la leadership energetica: cambiare tutto per non cambiare nulla, di Redazione, 22 Dicembre 2020
Recensione – The New Map: Energy, Climate and the Clash of Nations, di Raffaele Perfetto, 21 Dicembre 2020
Foto: Unsplash
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