Un sistema biologico complesso diventa senescente quando aumenta progressivamente la sua complessità strutturale, ma contemporaneamente riduce la sua capacità funzionale di cambiare ulteriormente per adattarsi all’ambiente, raggiungendo lo stadio finale del suo sviluppo. Una metafora che ben si adatta all’attuale fase del sistema petrolifero che, nella sua continua ricerca di efficienza, massimizza l’investimento nelle attività più redditizie (downstream), ma taglia i costi in quelle più incerte (upstream) sacrificando così la capacità di rispondere a un contesto mutevole. Le aziende petrolifere si trovano bloccate in un circolo di sopravvivenza autoreferenziale. I paradossi che ne emergono non vanno trascurati in quanto rischiano di compromettere la delicata fase di ripresa economica post pandemia.
Negli ultimi anni, il settore petrolifero sembra essere immerso in una dinamica paradossale. Da un lato, nonostante solo un decennio fa venisse proclamata la “rivoluzione del petrolio non convenzionale”(Maugeri 2012), gli investimenti in esplorazione e produzione di nuovi giacimenti sono in costante declino. Dall’altra, la tendenza tra i raffinatori è esattamente opposta, con forte installazione di nuova capacità e una corsa mondiale (a parte in Europa) alla modernizzazione degli impianti attuali.
Dal 2005 circa in poi, è stato il tight oil americano a mantenere elevata la produzione globale e compensare il diffuso plateau dell’estrazione da giacimenti convenzionali. Dei 10 milioni di barili in più che si consumavano nel 2019 rispetto al 2005, 6 venivano dal fracking statunitense.
Insieme con i petroli ultra-pesanti, le sabbie bituminose canadesi e i giacimenti ultra-deep, i depositi di risorse non convenzionali rappresentano circa il 70% delle riserve conosciute. Leonardo Maugeri scriveva già nel 2006: “Sta avendo luogo un processo di ‘deconvenzionalizzazione’ delle riserve, che probabilmente renderà la futura produzione petrolifera un mosaico di molti piccoli incrementi, provenienti sia da paesi produttori tradizionali sia emergenti, e da fonti non convenzionali come liquidi del gas naturale, giacimenti offshore ultra profondi, petroli ultra-pesanti, e sabbie bituminose”(da The Age of Oil. The Mythology, History, and Future of the World’s Most Controversial Resource, p.220).
Un quadro petrolifero assai diverso da quello di appena 10 anni fa?
Eppure, passati dieci anni e nel mezzo di una pandemia mondiale, tale visione ha perso la sua spinta iniziale. Ciò a cui stiamo assistendo è un costante declino, iniziato nel 2015, degli investimenti in nuova produzione e il crollo della domanda dell’anno passato ha esasperato ulteriormente questo trend.
Già prima del COVID le compagnie petrolifere vedevano rischioso e poco redditizio investire in nuovi pozzi per aumentare la base produttiva. Il debito accumulato rischia di soffocare il settore e l’industria del fracking è proprio una delle più colpite, per l’elevato capitale tecnologico e l’uso intensivo di risorse richiesto da queste tecniche estrattive, che si traducono in alti costi di produzione e rendimenti decrescenti per ogni barile estratto.
Contemporaneamente, il settore di raffinazione si espande e diventa tecnicamente più complesso. “I petroli non sono tutti uguali” (per una panoramica si rimanda a Understanding Unconventional Oil) e tecnologie (come crackers termici o hydro-crackers, reformers o hydrotreaters) sono necessarie per produrre, a partire da qualsiasi tipo di greggio, combustibili puliti a basso contenuto di zolfo e alto valore economico.
I petroli non sono tutti uguali, ma una complessa raffinazione consente di produrre combustibili puliti a partire da qualsiasi tipo di greggio
Inoltre, le regolamentazioni europee sui combustibili (Euro I, II, fino a V del 2004), il Renewable Fuel Standard (RFS) negli Stati Uniti o la direttiva del 2020 dell’International Maritime Organization sui limiti al contenuto di zolfo del gasolio per trasporto marittimo, alzano l’asticella della qualità dei prodotti petroliferi che possono essere legalmente commercializzati, obbligando i raffinatori a investire in capitale tecnico sempre più all’avanguardia.
In tale contesto, definito da due tipologie di vincoli – geologici-ambientali e socio-economici – è imprescindibile puntare su strategie a lungo termine ed investire in quelle tecnologie che posso offrire maggior margine in condizioni incerte (si veda The conundrum of new complex refining investments McKinsey, 2015).
A fronte di questa situazione contradditoria sul lato dell’offerta, complicazioni aggiuntive arrivano da quello della domanda. Colpendo specialmente i trasporti, il COVID ha determinato un abbassamento della domanda, in particolare di quei prodotti di raffinazione a più alto ritorno economico. La riduzione del “crack spread” sembra già essere una sequela strutturale della pandemia (si veda, Ed Morse e Francesco Martoccia, Le prospettive del mercato del petrolio nel «Mondo Virato», su ENERGIA 1.21).
La “senescenza” del settore petrolifero: un circolo di sopravvivenza autoreferenziale
Questi intrinseci paradossi possono essere coerentemente compresi usando una metafora biologica: il fenomeno di “senescenza” del settore petrolifero. Un sistema biologico complesso diventa senescente quando aumenta progressivamente la sua complessità strutturale, ma contemporaneamente riduce la sua capacità funzionale di cambiare ulteriormente per adattarsi all’ambiente, raggiungendo lo stadio finale del suo sviluppo.
In maniera analoga, il “sistema” petrolifero diventa senescente nella sua continua ricerca di efficienza, massimizzando l’investimento di capitale nelle attività più redditizie (downstream) e tagliando i costi in quelle più incerte (upstream), ma sacrificando così la capacità di rispondere a un contesto mutevole.
E in un contesto definito da un sottosuolo non più generoso come un tempo, dove estrarre un barile è sempre più difficile e costoso, e una società che ha bisogno di energia di qualità, le aziende petrolifere sono bloccate in un circolo di sopravvivenza autoreferenziale. Così, scarseggiano investimenti per estrarre immense ma costose risorse non convenzionali, generando potenzialmente penuria nell’abbondanza, mentre i raffinatori devono affrontare il dilemma se investire in tecnologia per compensare il progressivo declino qualitativo della materia prima, aumentando i costi fissi, ma con margini inferiori e relative difficoltà per rimanere in attivo nel breve periodo.
Una faccenda non solo “interna” al sistema petrolifero: lo stretto e delicato rapporto con la ripresa post-COVID
Le restrizioni sanitarie hanno finora mitigato la domanda ed evitato un “supply crunch”. Nel prossimo futuro post-pandemico, i consumi di combustibile devono tornare a crescere per rilanciare l’attività economica e salvare l’industria petrolifera dalla crisi COVID. L’estrazione dei petroli non convenzionali ha alti costi operativi e se i margini di mercato rimarranno strutturalmente bassi, i raffinatori avranno necessità di alti volumi per compensare.
Allo stesso tempo, una rapida ascesa della domanda metterebbe in luce tutte le inadeguatezze dell’industria petrolifera, che viene da anni di disinvestimenti in nuova capacità estrattiva, con una produzione che potrebbe non sostenere la domanda al punto da impedire la ripresa economica.
Dato il forte disinvestimento degli ultimi sei anni, nel breve termine è imperativo che siano allocate risorse per nuova esplorazione e produzione, anche in perdita o a debito, pena una caduta di produzione che la stessa IEA situa al 50% da qui al 2025.
Se non si uscirà da questa spirale recessiva, e visto che il petrolio è una risorsa strategica cui non possiamo rinunciare, qualsiasi strumento sarà messo sul tavolo dai governi, specialmente dagli Stati Uniti, il cui fracking ha di fatto permesso la crescita della produzione mondiale negli ultimi 15 anni.
Alternative possibili nel medio periodo sono che i grandi, soliti produttori OPEC abbiano abbastanza capacità per sostenere l’incremento globale di consumi, o una nuova recessione globale, per adattare la domanda all’offerta disponibile nella ricerca di un nuovo equilibrio.
Michele Manfroni è PhD student, ICTA-UAB (Instituto de Ciencias y Tecnologias Ambientales – Universitat Autonoma de Barcelona)
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