26 Maggio 2021

It is the models, stupid. Qualche nota sul rapporto IEA “Net Zero”

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Verità scientifica e prescrizione politica? Il rapporto Net Zero della Iea è solo un modello. Ponderato e sofisticato, ma pur sempre un modello. E come tale non prevede né prescrive, ma solo proietta. Il modello prevede una lunga serie di milestones così sfidanti che viene il dubbio che abbiano fissato l’asticella così alta giusto per dimostrarci che non ce la possiamo fare. Sarebbe in reazione gradito un dibattito sulla congruità dei mezzi all’obiettivo. Prendiamo ad esempio il petrolio, il blocco delle nuove attività è una misura rigida e di conseguenze potenzialmente ingestibili. Agire sui consumi anziché sulla produzione come fa il modello consentirebbe di avere impatti sociali più ponderati ed equi. Ma per far questo la responsabilità è della Politica, in particolare quella Occidentale, che deve essere disposta ad aumentare la tassazione per i suoi cittadini anziché assumere il rischio di far esplodere il prezzo in tutto il mondo.

Esce il Report Net Zero (NZ) di IEA. Ed è subito rumore.

Il lancio mediatico lo tratta come un ibrido di verità scientifica e prescrizione politica. In realtà è solo un modello, per quanto ponderato e sofisticato; e come tale non prevede né prescrive, ma solo proietta.

E le proiezioni, come è noto, tendono ad essere business as usual. Nessuno è mai riuscito ad esempio a modellizzare l’impatto nell’arco di trent’anni del progresso tecnologico. Si può solo proiettare uno sviluppo, verrebbe da dire organico, della conoscenza dell’oggi. Poi arriva internet, e devi sbrigarti a cambiar modello. E dunque intanto abbassiamo il rumore.

Il modello è apparentemente top down (se voglio arrivare al 2050 net zero, che mix energetico e con quale efficienza posso assumere?); e mescola gli ingredienti in modo coerente al risultato voluto. Laddove “in modo coerente” non significa però nell’unico modo coerente.

Un vantaggio dei modelli è che non devi chiedere ai cinesi il permesso per svilupparli

Il modello come pubblicato assume, ad esempio, un aumento della generazione nucleare. Se lo assumesse superiore (il che con un modello si può fare) potrebbe compensare in vari modi, magari aumentando i volumi di gas e diminuendo quelli di idrogeno; e se il modello fosse no nuke potrebbe forse compensare abbattendo del 100% (anziché, come fa del 90%) i consumi di carbone al 2050. (Un vantaggio dei modelli è che non devi chiedere il permesso ai cinesi per svilupparli).

Il modello prevede una lunga serie più che sfidante di milestones, cui non posso che rinviare e che, a ritroso, prevedono tra l’altro
– che il 50% della domanda di riscaldamento sia soddisfatta da pompe di calore (2045)
– che dal 2030 il 60% delle nuove immatricolazioni sia di veicoli elettrici e siano installati su base annuale 1020 GW di generazione eolico/solare (nel 2020 ne sono stati installati in un anno 238)
–  financo che dal 2025 sia vietata la vendita di “fossil fuel boilers” (il che da un lato farebbe sì che a metanizzazione finalmente compiuta i sardi non potrebbero allacciarsi alla rete; e dall’altro rimanda all’invenzione di un boiler che vada in blocco all’arrivo del fossile ma si accenda al fluire del biometano);
– e last but not least che già da oggi siano banditi gli investimenti per la ricerca e lo sviluppo di giacimenti fossili.

Un’operazione di psicologia inversa?

Ti prende il dubbio che abbiano fissato l’asticella così alta giusto per dimostrarci che non ce la possiamo fare. Sarebbe in reazione gradito un dibattito sulla congruità dei mezzi all’obiettivo; e soprattutto un dibattito sulla congruità dell’obiettivo in quanto tale.

Il percorso che porta a net zero produce costi sociali; e forse qualcuno dovrebbe cominciare una piccola analisi costi benefici che compari costo sociale e costo ambientale (magari, ma è solo un’ipotesi, se proiettiamo net zero al 2060 da un lato potremmo scoprire di non essere ancora affogati e dall’altro con la Cina e l’India – che sono quelli da cui dipende in maggior parte la fattibilità dell’obiettivo – ce lo negoziamo pure meglio). Poi magari scopriamo che dobbiamo fare addirittura prima; ma si spera non sia eretico almeno il cominciare a parlarne.

Prendiamo, per fare di esempio, lo stop a ricerca e sviluppo di fossili. Il ragionamento è che rispetto alla velocità della loro sostituzione ne abbiamo già sviluppati abbastanza o quasi, e non ce ne servono altri. La proiezione recita che la domanda da oggi al 2050 diminuirà del 90% per il carbone, del 75% per il petrolio e del 55% per il gas; e che il prezzo del petrolio si attesterà sui 35 dollari nel 2030 per poi calare a 25.  (Graficamente – p.101 di NZ – l’effetto dell’avvento raggiungimento del picco della domanda pare per ironica coincidenza fotocopia di quello del picco dell’offerta nel modello di Hubbert).

Prendiamo ad esempio il petrolio, il blocco delle nuove attività è una misura rigida e di conseguenze potenzialmente ingestibili

Nel caso del petrolio, che è soprattutto trasporto, lo sprofondo implica da modello il moltiplicarsi esponenziale delle motorizzazioni elettriche. Attenzione però.

Il parco autoveicoli planetario è oltre 1,4 miliardi (di cui 363 milioni di veicoli commerciali). Il tasso di sostituzione su base annuale degli autoveicoli è ben inferiore al 10% (le nuove immatricolazioni nel 2019 sono state inferiori ai 75 milioni). Se rottamiamo 100 milioni di motori a scoppio e li sostituiamo con 100 milioni di elettrici abbiamo grosso modo abbassato di due milioni di barili/giorno scarsi la domanda di petrolio. Insomma ti prende il sospetto che lo sprofondo possa essere meno accentuato che non da modello.

(Il modello in questo è peraltro già superato dai tempi, perché ipotizza un picco della domanda nel 2019 che già oggi, a pandemia ancora in corso, appare confliggere con la realtà della domanda; e le proiezioni correnti – da McKinsey a CarbonTracker – prevedono al meglio un picco della domanda verso la metà del decennio, con a seguire un declino molto più dolce dello sprofondo).

Nota a margine. Persino nello scenario dello sprofondo il modello riconosce che senza nuovi investimenti si va velocemente corti sul lato dell’offerta. Per l’equilibrio, anche nel modello NZ nuovi investimenti in Oil & Gas sono necessari; ma sono limitati ai giacimenti esistenti e a quelli già in via di sviluppo. Insomma applicatevi alle tecniche di recupero e scordatevi di cercare o sviluppare qualcosa di nuovo.

Competitivamente, tra l’altro, parrebbe vantaggioso per chi ha giacimenti a taglia forte e bassi costi di estrazione; insomma quel poco che NZ ci permetterebbe di fare sarebbe più per National Oil Companies che per petrolifere private.

La domanda deve sprofondare, ma gli investimenti sono ancora necessari, e se poi i prezzi si impennano?

E però se poi la domanda non sprofonda e nel frattempo tu hai bloccato il nuovo che succede? Succede semplicemente che ti esplode il prezzo. Magari temporaneamente e magari con danni maggiori per i Paesi importatori più poveri (il ricco gli incidenti della decarbonizzazione li regge comunque meglio). Però ti esplode. E uno dei problemi dell’avere precluso la messa in produzione di nuovi giacimenti è che per prevenire o almeno contenere l’esplosione non hai scorte da mettere in campo. Lo sviluppo del nuovo richiede tempo; ed il riequilibrio rischia perciò di essere assai meno che istantaneo.

Un pezzo del problema è che il modello si concentra sulla produzione e non sul consumo. In realtà la relazione è meno che attenuata. I consumi non sono in relazione al volume delle riserve rese disponibili o del potenziale di produzione esistente. I consumi risentono del mercato e della inter commodity competition (quando e pare tra poco l’elettrico abbatterà la barriera d’ingresso costituita dal prezzo a tutti converrà essere elettrici); sono influenzati dalla tassazione (chiamatela, se volete, carbon tax); e possono essere indirizzati da provvedimenti normativi di divieto (quali il divieto di immatricolazione di auto con motore a combustione interna, previsto ad es. per il 2030 in UK e per il 2035 in California).

Dal modellismo alla Politica

Il blocco delle nuove attività è una misura rigida e di conseguenze potenzialmente ingestibili. Se in un mondo che comunque marcia verso la decarbonizzazione una qualche società petrolifera volesse scommettere a suo intero rischio che ci sarà comunque spazio per una nuova produzione parrebbe stupido non lasciarglielo fare. Se la domanda sprofonda non produrrà mai e ha solo buttato soldi in stranded assets. Se declina senza sprofondare, lui producendo mi contribuisce a calmierare il prezzo. Sembrerebbe win-win.

Dal modellismo alla Politica. Lavorare sui consumi ti consente di combinare flessibilmente mercato, influenze e legislazione con un mix che può stimolare uno sprofondo socialmente sostenibile. Se a Occidente decidiamo che possiamo permetterci un forte aumento dei prezzi dei prodotti petroliferi per accelerare la loro sostituzione, prendiamoci la responsabilità politica di aumentare la tassazione anziché assumerci il rischio di far esplodere il prezzo. Non possiamo pretendere che facciano lo stesso a Mogadiscio; e però se ci teniamo solo per noi la tassazione ed evitiamo di fargli esplodere il prezzo del diesel agricolo ce ne saranno grati. Il prezzo del petrolio esplode eguale per tutti e per tutto il mondo; e lavorare sui consumi anziché sulla produzione ti consente invece una graduazione regionale degli oneri.

Mi parrebbe più sensato; e soprattutto più equo.


Massimo Nicolazzi è docente di economia delle risorse energetiche presso l’Università di Torino


Sugli scenari di neutralità climatica leggi anche:
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Foto: Pixabay

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