Il passo della transizione energetica è lento, insufficiente, sia che si guardi ai dati delle emissioni che agli investimenti, reali o finanziari. Eppure, di tale insufficienza non sembra esservi consapevolezza a livello dei media e dei policy makers, con la transizione assunta come fenomeno reale e di successo. I dati mostrati pongono una serie di domande: perché la crescita della green economy è così limitata? Quali sono le cause che ne ostacolano il decollo? C’è qualcosa che la regolazione può fare per agevolarne lo sviluppo? Dall’articolo di Enzo Di Giulio e Stefania Migliavacca su ENERGIA 3.20.
Dopo aver esaminato come (non) è cambiata l’intensità carbonica negli ultimi trent’anni, come è evoluto il settore degli investimenti verdi, in particolare il mercato dei green bond e dei green ETF, alla ricerca di un tiepido segnale di avvio di una transizione energetica trainata dalla finanza sostenibile, per Enzo Di Giulio e Stefania Migliavacca il problema principale resta il ritmo, troppo lento, delle trasformazioni tiepidamente registrate. Vediamo perché nel passaggio che segue, tratto da ENERGIA 3.20.
“I volumi di prodotti finanziari quali i green bond e gli ETF ESG – che pur hanno registrato una crescita straordinaria – rappresentano ancora quote insignificanti sul totale degli strumenti finanziari. Se, d’altra parte, si guarda agli impegni di Parigi (100 mld. doll. all’anno a favore dei paesi in via di sviluppo) si registra un’analoga distanza dall’obiettivo. Secondo l’OCSE (2019), nel 2017 i paesi ricchi avevano mobilizzato circa 70 miliardi di dollari verso quelli poveri: una cifra insufficiente e, soprattutto, assai lontana da quella necessaria, stimata dall’UNEP nella misura di 140-300 mld. doll. all’anno entro il 2030 e di 500 miliardi entro il 2050 (Williams 2019).
Transizione energetica è assai lenta con uno iato tra la diffusa retorica e la realtà
Dunque, il passo della transizione energetica è insufficiente, sia che si guardi ai dati delle emissioni che agli investimenti, reali o finanziari. Eppure, di tale insufficienza non sembra esservi consapevolezza a livello dei media e dei policy makers, con la transizione assunta come fenomeno reale e di successo. I dati mostrati pongono una serie di domande: perché la crescita della green economy è così limitata? Quali sono le cause che ne ostacolano il decollo? C’è qualcosa che la regolazione può fare per agevolarne lo sviluppo? C’è qualcosa di specifico nell’attuale transizione energetica che la differenzia dalle precedenti e ne limita il successo?
Riguardo alla lentezza della transizione, una prima possibile risposta è quella che l’individua nei bassi ritorni economici del green business. La IEA (2020), li ha quantificati tra il 5 e l’8% contro un ritorno medio del business fossile tra il 15 e il 22%. Ciò dice che l’elemento di attrazione della nuova frontiera è basso e che, pertanto, vi sono delle comprensibili resistenze a muoversi verso di esso. Non solo: una legge ferrea degli investimenti insegna che bassi ritorni sono tradizionalmente associati a bassi livelli di incertezza. La ridotta incertezza, dunque, compenserebbe il rendimento ridotto rendendo certi tipi di investimenti attraenti e vantaggiosi.
Green business: ritorno medio del 5-8% contro il 15-22% del fossile
Qui accade l’opposto: essendo nuovo, il business implica una serie di rischi – a cominciare da quelli associati all’ingresso in un’area di affari solo parzialmente conosciuta – che ne accrescono l’incertezza. Ciò spiega la lentezza del movimento in corso, in molti casi progettato su linee di azione che sviluppano il proprio pieno potenziale nell’arco di decenni. Ciò è vero tanto per il business Oil&Gas quanto per i paesi, ed è comprensibile accada non potendosi attendere che un’industria abituata a tassi di rendimento a due cifre volga verso investimenti dai ritorni poveri e rischiosi.
Si potrebbe dire che il green business sia una sorta di terra di frontiera che gli operatori, e i paesi, asseriscono di voler conquistare, ma si guardano dal farlo veramente. Di qui lo iato tra le dichiarazioni e i numeri, tra la retorica e i dati. Il cambiamento dovrà comunque avvenire perché la pressione sociale non solo lo impone ma ha anche cominciato a contagiare la terra della finanza.
Tutti i nuovi business nascondono potenzialmente ritmi di penetrazione straordinari e una radicale trasformazione del paradigma industriale
Ecco dunque che l’Oil&Gas è stretto nella morsa tra il riconvertire il proprio business e il non far niente: da una parte stanno ritorni bassi e incerti, dall’altra il rischio di continuare a investire in un business desueto col rischio di subire costosi stranded asset.
(…) Un’altra spiegazione potrebbe essere quella legata alla difficoltà di qualsiasi business che sta muovendo i primi passi, Il business va creato ex novo, a cominciare dalle infrastrutture, dal mercato e dalle procedure. Sebbene vi sia del vero in tutto ciò è solo parzialmente attendibile perché vi sono innumerevoli esempi di industrie – e di prodotti – che hanno vissuto sviluppi portentosi caratterizzati da velocità di penetrazione straordinarie. Si pensi alla diffusione dei personal computer nelle società moderne: ciò che nei primi anni 1980 era utopia – «vi sarà un personal computer in ogni casa» – è diventato realtà nel giro di un paio di decadi. Sviluppi analoghi hanno caratterizzato prima i telefoni cellulari e poi internet e gli smartphone.
Anche la dimensione cambiamento richiesto frena lo sviluppo green
(…) Dunque, se la difficoltà dello sviluppo della green economy non risiede in modo determinante nelle difficoltà di riconversione dell’industria Oil&Gas e nell’elemento di novità del business, occorre trovare un’altra spiegazione. Si potrebbe affermare che la variabile critica sia la dimensione del cambiamento richiesto perché, ad esempio, l’acquisto di un’automobile elettrica non è comparabile con quella di uno smartphone o di un notebook: essendo la spesa molto elevata, il consumatore esita: di qui il ritardo.
Ciò è vero, ma solo parzialmente: lo stesso esempio dell’automobile può essere citato come caso di un bene che si è diffuso nelle società moderne in un periodo di tempo straordinariamente breve. Si pensi alla sua penetrazione all’interno della famiglia italiana negli anni del miracolo economico e si confronti quella penetrazione con quella lentissima – fino ad oggi mancata – dell’auto elettrica. Questo confronto dice che non è l’ampiezza del volume della spesa l’elemento che frena lo sviluppo green – perché quando il tempo di un bene è giunto non c’è nulla che possa arrestarne l’inesorabile penetrazione – ma qualcos’altro.
Rinnovabili e prodotti green: una penetrazione al margine
Nel caso dell’auto elettrica, vi sono resistenze all’acquisto legate sia ad aspetti tecnici – es. autonomia, tempi di ricarica, disponibilità di stazioni di ricarica – che al suo extra-costo rispetto a un veicolo tradizionale. Un’ulteriore spiegazione è quella che fa riferimento al processo di sostituzione delle tecnologie fossili. La penetrazione delle rinnovabili e dei prodotti green avviene al margine, ovvero essi vanno a sostituire quegli elementi che giungono al termine del proprio ciclo di vita, oppure nel migliore dei casi essi vanno a soddisfare una nuova domanda emergente.
In entrambi i casi si tratta di una penetrazione che avviene al margine: una centrale a gas costruita cinque anni fa non viene dismessa per essere sostituita da un impianto ad energia eolica, così come un boiler alimentato a gas non viene sostituito con un impianto termico alimentato ad energia solare e un’automobile nuova non viene rimpiazzata da una elettrica. Tutto ciò riduce di molto lo spazio di penetrazione dei prodotti green.
Da una parte, sul lato dell’offerta, la spinta non è vigorosa a ragione dei diversi motivi sopra esposti, dall’altra, su quello della domanda, lo spazio disponibile è ristretto trattandosi, appunto, di una penetrazione al margine.
Parte della lentezza del decollo green dipende dallo spazio limitato di cui dispone. Ma è un ritmo incompatibile con l’obiettivo dei 2 °C
Questo secondo elemento è estremamente importante e sottovalutato in analisi che, spesso basandosi sulla mera considerazione del potenziale teorico dell’energia rinnovabile, prescindono dallo spazio realmente disponibile alle tecnologie green.
(…) Per quanto ciascuna delle diverse ragioni illustrate – bassi ritorni e incertezza del nuovo business, ampiezza del volume di spesa, sostituzione al margine – non sia di per sé esaustiva del ritardo del decollo, ciascuna ne illumina un aspetto peculiare e, nell’insieme, lo spiega”.
Il post presenta l’articolo Quanto è green la finanza mondiale? (pp. 24-35) di Enzo Di Giulio e Stefania Migliavacca pubblicato su Energia 3.20
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