Come temevamo, il G7 si è concluso con tante parole e pochi fatti. Si sono ribaditi impegni finora disattesi – come l’erogazione ai paesi poveri 100 miliardi di dollari l’anno deciso a Copenaghen – e lanciate altre volate in avanti – neutralità carbonica al 2050, dimezzamento delle emissioni al 2030 vs 2010 – ma con passaggi intermedi del tutto indefiniti, specie relativi al breve termine (periodo elettoralmente sensibile). Ogni paese è parso preoccuparsi soprattutto degli impatti interni, con il risultato che la vaghezza delle dichiarazioni ha minato ancora una volta la credibilità della politica. E là dove la politica ‘decide di non decidere’ interverranno sempre più i giudici. Ma questo è parte del problema, non della soluzione.
Trattando del G7 il professore Angelo Panebianco ha scritto un articolo sul Corriere del 14 giugno dal titolo “Sorrisi e realtà al G7” a indicare la lontananza tra l’atmosfera cordiale del vertice e la dura realtà delle questioni da affrontare.
Quel che può valere per la politica internazionale, cui Panebianco si riferisce, ma anche per la tematica ambientale. Avevamo scritto prima del vertice (Un Summit tira l’altro: è l’ora del G7, ma con quale credibilità?) della scarsa credibilità con cui i sette paesi (10% della popolazione mondiale, 24% delle emissioni globali) si presentavano in Cornovaglia.
Il G7 ha ribadito l’impegno – disatteso dal 2009 – di erogare ai paesi poveri 100 miliardi di dollari l’anno
Per gli scarsi risultati conseguiti, con anzi un peggioramento delle cose per i maggiori investimenti nelle fossili rispetto a quelli nelle tecnologie low-carbon registrati tra gennaio 2020 e marzo 2021 (189 vs 147 mld doll.).
Il Summit ha confermato questo giudizio. Dopo aver ribadito la promessa di erogare ai paesi poveri 100 miliardi di dollari l’anno – formulata sin dalla COP 15 di Copenaghen del 2009 – aumentandoli dai meno di 10 attuali per progetti sull’adattamento climatico, i 7 paesi hanno ri-elencato gli annunci formulati negli altri Summit. Aggiungendone uno: l’impegno a conseguire nel 2050 una piena neutralità carbonica, dimezzando le emissioni nel 2030 rispetto al 2010, con passaggi intermedi del tutto indefiniti, specie relativi al breve termine, periodo elettoralmente sensibile.
Là dove la politica ‘decide di non decidere’ interverranno sempre più i giudici.
Suscitando la dura reazione dei movimenti ambientalisti, ancora eccitati dalla sentenza della Corte olandese che ha obbligato la Shell a ridurre del 45% le sue emissioni entro il 2030. Là dove la politica ‘decide di non decidere’ interverranno sempre più i giudici.
Nessun paese tra i sette riuniti ha indicato una puntuale road-map nella lotta al global warming. “We commit – sta scritto nel comunicato finale del vertice – to submitting long-term strategies that set out concrete pathways to net-zero greenhouse emissions by 2050 as soon as possible, making utmost efforts to do so by COP26”.
Sulle scelte da intraprendere, ha dominato una grande vaghezza, specie sul carbone
Sulle principali scelte da intraprendere (ricerca e sviluppo, agricoltura, forestazione, trasporti pesanti, biodiversità, etc,) ha dominato una grande vaghezza.
Specie sulla questione dirimente dell’uscita dal carbone: sostenuta dalla Gran Bretagna avendola ormai raggiunta (con appena il 2% della generazione elettrica) ma non dal Giappone (31%, il maggior supporter di questa fonte dopo la Cina), ovvero dagli Stati Uniti (20%, ma la metà del 2014).
3 miliardi di dollari per spingere il mondo non-Ocse a rinunciare al carbone
I G7 hanno affermato l’intenzione di interrompere il finanziamento di centrali a carbone nei paesi in via di sviluppo, riconoscendo loro meno di 3 miliardi di dollari per la rinuncia ad utilizzarlo! Dimostrando di non aver la minima idea di cosa rappresenti questa fonte nella generazione elettrica dei paesi non-Ocse (46%) e di come non lo si possa rapidamente sostituire.
Più che della dimensione globale della questione climatica – che richiederebbe come prima condizione un ‘agire comune’ – ogni paese è parso preoccuparsi soprattutto degli impatti interni delle politiche climatiche, specie in considerazione della delicata fase di ripresa delle economie.
Ogni paese è parso preoccuparsi soprattutto degli impatti interni
Il ‘che fare’ resta quindi un interrogativo estremamente complesso considerando che i due-terzi del GDP globale sarebbero interessati dal percorso verso l’obiettivo net-zero carbon.
Anche la speranza che la ripresa delle economie venisse agganciata alla rivoluzione green è andata delusa, con una strana e ambigua dichiarazione nel comunicato finale: “We are committed to addressing barriers to accessing finance for climate and nature faced by women, marginalised people, and underrepresented groups and increasing the gender-responsiveness and inclusivity of finance”.
L’indeterminatezza rimbalza sulle industrie interessate
Identica vaghezza ha connotato gli impegni dei sette paesi verso una ‘mobilità sostenibile’: si tratti dell’abbandono delle tecnologie tradizionali a favore di quella elettrica, o della decarbonizzazione dei trasporti marittimi o aerei.
Indeterminatezza che rimbalza sulle industrie interessate impossibilitate, nell’incertezza, ad adottare anticipate strategie di risposta. L’impressione è che ogni paese adotterà le decisioni più confacenti ai propri interessi, senza puntare a quella cooperazione internazionale che faciliterebbe il raggiungimento degli obiettivi di riduzione delle emissioni.
Il tutto in attesa del prossimo salvifico appuntamento di novembre a Glasgow della COP26.
Alberto Clô è direttore del trimestrale ENERGIA e del blog RivistaEnergia.it
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Foto: Pixabay
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