Lo sviluppo del fotovoltaico va affrontato con pragmatismo e lucidità. La leadership nel fotovoltaico non si limita alla fornitura dei pannelli, ma si estende ai sistemi per gestire il nuovo sistema. È necessario uno sforzo enorme oggi, ma nel lungo termine risulterà meno costoso e meno rischioso di continuare ad affidarsi a soluzioni ponte come il gas naturale. In Italia, sul forte impulso agli investimenti richiesto dal PNIEC, si è acceso un dibattito sulla limitazione degli investimenti in impianti fotovoltaici a terra, soprattutto nelle aree agricole. Bene incentivare lo sviluppo su edifici, aree dismesse e degradate, ma per raggiungere gli obiettivi al 2050 serve lasciare aperta la porta a tutti gli investimenti che non richiedono incentivi. Non si tratta tanto se fare o non fare il fotovoltaico a terra (anche nelle stime più spinte l’utilizzo delle superfici agricole è molto marginale), ma se farlo bene o farlo male.
In varie parti d’Italia, a seguito del forte impulso agli investimenti richiesto dal PNIEC, si è acceso un dibattito in merito alla limitazione degli investimenti in impianti fotovoltaici a terra e soprattutto nelle aree agricole, con una campagna mediatica ostativa da parte di Coldiretti, che ha trovato il sostegno di molte forze politiche per il loro impatto sul territorio.
Credo sia opportuno entrare nel merito dello sviluppo del fotovoltaico con pragmatismo e lucidità. È uno dei settori chiave della politica energetica italiana e dello sviluppo economico del nostro territorio nella conversione verso l’economia a bassa intensità di carbonio, cercata dalla politica energetica nazionale ed europea, che ha impegni precisi e sfidanti (-55% le emissioni di gas serra al 2030, max + 2° l’incremento di temperatura del globo, neutralità climatica al 2050).
2.836 vs 625 MW il confronto di installazioni fotovoltaiche tra Spagna e Italia nel 2020
La Spagna, che ha obiettivi simili all’Italia, è il paese che si è mosso con maggior celerità in attuazione della politica di decarbonizzazione europea: nel 2019 ha installato 4.660 MW fotovoltaici, di cui 4.200 a terra e 460 in progetti integrati distribuiti, e nel 2020 ulteriori 2.836 MW. In Italia, per confronto, nel 2020 sono entrati in esercizio 625 MW (fonte ANIE).
È necessario uno sforzo enorme, che rappresenta però anche un’opportunità di investimento, con un costo complessivamente negativo sul piano sociale. La sostituzione dei combustibili fossili infatti oggi è possibile con tecnologie che hanno costi industriali (investimento e gestione, capex + opex) generalmente confrontabili (anche considerando la riorganizzazione delle reti), ma molto meno volatili e quindi meno rischiose, ma soprattutto costi esterni ambientali enormemente inferiori.
La transizione comporta nel medio-lungo termine una riduzione dei costi sociali di approvvigionamento energetico, oltre ad una ricaduta in termini di leadership tecnologica, per i sistemi economici che sanno essere anticipatori, di grande valore economico (ne sa qualcosa la Germania, che spinge l’efficienza energetica soprattutto per spingere la sua industria manifatturiera nel campo delle tecnologie di utilizzo energetico).
La leadership nel fotovoltaico non si limita alla fornitura dei pannelli, ma si estende ai sistemi per gestire il nuovo sistema
Leadership che non è solo e tanto nella fornitura dei pannelli, ma nei sistemi per gestire il nuovo sistema. Come nel digitale, IBM ha lasciato la produzione dei PC in Cina con Lenovo, focalizzandosi sulla parte ad alto valore aggiunto della digitalizzazione dei processi. Si tratta di modificare l’organizzazione dei sistemi energetici, in termini di gestione delle reti elettriche, di rifornimento dei veicoli, di apparecchi utilizzatori nell’industria e negli edifici.
Purtroppo quando si affronta il tema del cambiamento climatico al di fuori dei consessi scientifici si rischia di passare per catastrofisti per la grande portata dei fenomeni attesi. Non è certo questo l’intendimento, ma è sufficiente leggere uno dei rapporti del Panel Intergovernativo sui Cambiamenti Climatici (www.ipcc.ch), l’organo dell’ONU che seleziona gli studi sul cambiamento climatico e trova un consenso sovranazionale, per capire che la proiezione climatica ci deve portare ad agire ora.
Per l’Italia, il superamento dell’utilizzo dei combustibili fossili passa necessariamente per un forte impegno nell’efficienza energetica e l’utilizzo del vento e del sole, fonti presenti in quantità importante sulla penisola, anche se intermittenti per cui di necessità accoppiate con varie forme di accumulo, giornaliero e stagionale, attualmente allo studio.
Il ricorso al gas come soluzione “ponte” rischia di ritardare la decarbonizzazione al 2050 di almeno 30 anni
L’uso del gas naturale come combustibile di transizione, in sostituzione del petrolio e del carbone per ridurre le emissioni, è un’opzione apparentemente attraente, perché con costi di breve termine contenuti, ma illusoria, perché rischia di rimandare la decarbonizzazione profonda, posta al centro della strategia italiana ed europea entro il 2050, ad un termine almeno 30 anni più avanti.
La minore intensità carbonica del metano rispetto al petrolio e il carbone non è sufficiente per una svolta ecologica di successo. E l’idea di utilizzare le infrastrutture gas per distribuire l’idrogeno di origine fossile rischia di legittimare l’uso dei fossili ora, rimandando gli investimenti nelle fonti certamente prive di emissioni di gas serra. Infatti, la realizzazione di un impianto di generazione elettrica o la posa di una rete di distribuzione del gas oggi, avrebbe una vita tecnica ed economica di almeno 30 anni per essere accettabile, portando l’utilizzo del gas oltre il 2050.
Meno costoso nel lungo termine e meno rischioso dunque, accelerare l’introduzione di tecnologie prive di emissione di gas serra da subito, con uno sforzo maggiore oggi (ma anche maggiori investimenti, benedetti in epoca di recessione come l’attuale), ma una maggior probabilità di centrare l’obiettivo.
Come raggiungere l’obiettivo fotovoltaico al 2050?
Questo è il senso del Piano Europeo per la Ripartenza e la Resilienza e della Strategia Italiana di lungo termine sulla riduzione delle emissioni dei gas ad effetto serra, consegnata a Bruxelles l’11 febbraio scorso. In questo documento vi è una capacità fotovoltaica installata stimata al 2050 tra i 200 e i 300 GW, vale a dire 10 o 15 volte quella attualmente installata pari a circa 21,5 GW.
Per conseguire l’ipotesi minima di 200 GW, almeno 80 GW dovranno essere installati entro il 2030, ben più dei 52 GW previsti dal PNIEC; ma prescindiamo pure dalla Strategia presentata in Europa e guardiamo al PNIEC: significa installare circa 3.000 MW all’anno nel prossimo decennio.
Un gran bel cambio di passo rispetto ai 751 MW installati nel 2019 e i 625 circa nel 2020. È evidente che se la dimensione media degli impianti fotovoltaici installati fino ad oggi è di 23,7 kW, per raggiungere l’obiettivo che il Governo si è dato serve un cambio deciso di marcia, con una dimensione maggiore, più industriale, agli investimenti.
Bene incentivare lo sviluppo su edifici, aree dismesse e degradate, ma serve lasciare aperta la porta a tutti gli investimenti che non richiedono incentivi
Certamente rimane prioritario lo sviluppo del FV integrato negli edifici, sostenuto dal superbonus e dalle norme edilizie vigenti; certamente vanno privilegiate le aree dismesse e quelle degradate (parcheggi, cave, discariche, aree industriali non più attrattive, …), ma serve lasciare aperta la porta a tutti gli investimenti possibili che non richiedano incentivi.
Considerazioni simili valgono per l’eolico, la biomassa, l’efficienza negli usi finali. È chiaro che per raggiungere obiettivi così ambiziosi è indispensabile darsi regole chiare e ambire ad utilizzare tutte le possibilità. La priorità per questi investimenti nel FV è nell’integrazione negli edifici esistenti, nella copertura di parcheggi, di aree di lavoro, nella posa in terreni degradati, discariche, aree industriali inutilizzate. Ma tutto ciò non basta.
0,3- 0,6% la superficie agricola totale necessaria per gli impianti fotovoltaici a terra – Elettricità Futura
La stima di Elettricità Futura è che fino al 2050 bisognerà installare al massimo 35 GW di impianti fotovoltaici a terra, su una superficie totale di 50.000 ettari (70 mila nelle stime di Legambiente, Greenpeace, Italia Solare e Wwf) che vanno rapportati alla superficie agricola totale italiana di 16,5 milioni di ettari, di cui 3,7 milioni non utilizzati. Si tratterebbe dunque dello 0,3- 0,6% della superficie agricola totale (SAU), o dell’1,4- 2% di quella non più utilizzata. Nulla a che vedere con un’invasione dei terreni agricoli, anzi, potenzialmente un’ancora di salvezza per alcuni terreni non più coltivati.
Si parla dunque di un utilizzo molto marginale delle superfici agricole anche nelle stime più spinte. Porre a priori dei divieti sarebbe una scelta miope renderebbe quasi impossibile tenere il ritmo di investimenti richiesto dai target di decarbonizzazione, toglierebbe possibilità di reddito per i proprietari dei terreni e per le imprese impiantistiche, ridurrebbe la capacità di mitigare i cambiamenti climatici, penalizzerebbe le imprese italiane rispetto a quelle degli altri paesi europei, toglierebbe possibilità di creare lavoro.
Non si tratta tanto se fare o non fare il fotovoltaico a terra, ma se farlo bene o farlo male
Il tema va dunque posto diversamente. Non si tratta tanto se fare o non fare il fotovoltaico a terra. Quanto piuttosto se farlo bene o farlo male, assicurandosi che tali investimenti vengano fatti con il rispetto per l’ambiente.
È importante sottolineare che questi impianti possono essere smantellati in poche settimane con la rinaturalizzazione integrale del suolo; che non impermeabilizzano il terreno quando siano fatti con i moduli avvitati al terreno e non poggiati su platee di cemento e che pertanto non rappresentano in consumo di suolo. Che possono essere schermati in modo efficace con barriere di vegetazione, quando abbiano un tasso di copertura delle superfici oggetto di intervento contenuto al di sotto di valori ragionevoli (50-60% ad esempio sono frazioni tali da consentire perimetrazioni con vegetazione di medio alto fusto, che rendono la vista dell’impianto assai difficile dall’esterno).
A parte le aree con vincoli ambientali specifici e particolare valore paesaggistico, piuttosto che vietare la costruzione degli impianti è molto meglio dare regole di realizzazione, per assicurare la buona esecuzione senza rischiare di precludere opportunità. Anche limitare agli impianti di piccole dimensioni può essere un autogol: impedisce le economie di scala, rischia l’effetto macchia di leopardo, disincentiva gli investitori più solidi.
Servono regole chiare
Un modo responsabile di guidare questi investimenti, auspicabili per l’economia e indispensabili per la conservazione dell’ambiente, è fissare regole chiare:
- Un limite superiore alla superficie occupata dai pannelli rispetto alla superficie totale della proprietà in disponibilità;
- La presenza di perimetrazioni vegetali coerenti con le specie arboree presenti nell’area;
- L’utilizzo di fissaggi a vite senza il getto di platee per i filari di moduli, limitando l’impermeabilizzazione alle sottostazioni elettriche, di piccole dimensioni;
- Concessione di fidejussioni a garanzia del ripristino del terreno a fine vita dell’impianto.
Controproducente dunque parlare di divieti, più corretto parlare di normazione delle modalità di installazione, con sane tutele del paesaggio e del ripristino dei terreni.
Agro-voltaico: un connubio equilibrato tra agricoltura e solare
Vi è poi un’opportunità ulteriore nell’agri-voltaico, un utilizzo innovativo del terreno agricolo, in cui convivono la produzione fotovoltaica con produzioni agricole o pastorizie, con una minor densità di produzione fotovoltaica, ma un’integrazione efficace nel paesaggio agricolo, decisamente meno impattante rispetto, ad esempio, alle serre.
Con l’agri-voltaico la produzione elettrica, la manutenzione del suolo e della vegetazione sono integrate e concorrono al raggiungimento degli obiettivi produttivi, economici e ambientali dei terreni. Vi sono esempi decisamente interessanti, con colture autoctone che possono convivere in modo sinergico con i filari di moduli FV (olivi in Puglia, frutteti in pianura padana, piccoli frutti in aree montane, …).
Sarebbe ragionevole dare priorità a tali utilizzi, anche tramite forme di facilitazione. È indubbio che il fotovoltaico rappresenti una presenza sentita come intrusiva in molte aree e che il paesaggio vada tutelato in ogni modo. È vero anche però che l’alternativa non è tra il paesaggio naturale e quello con il fotovoltaico, ma tra il paesaggio con le centrali alimentate a combustibili fossili e quello con il fotovoltaico.
Smantellare una centrale come quella di Polesine Camerini (4 gruppi da 660 MW a olio combustibile) è un’impresa titanica e forse impossibile: fermi tutti i gruppi dal 2010, l’area è ancora lontana da un possibile riutilizzo. Smantellare un impianto FV da 50 MW richiede 2 mesi al massimo, con il ripristino integrale dei luoghi.
Diamo priorità al FV integrato negli edifici e nelle strutture esistenti, negli spazi urbanizzati, nelle aree degradate. Ma non poniamoci limitazioni generiche che spiazzano gli investimenti e danneggiano l’economia e l’ambiente stesso.
Arturo Lorenzoni, Professore di Economia dell’Energia presso l’Università di Padova
Leggi anche:
Agro-voltaico: il matrimonio tra agricoltura e solare, di Redazione, 19 Magg
Piano KlimaLand dell’Alto Adige al 2050: il punto sul fotovoltaico, di David Moser, 18 Febbraio 2019
Come aumentare il fotovoltaico riducendo al minimo la nuova occupazione di suolo, di Redazione, 23 Gennaio 2019
Foto: Unsplash
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