16 Giugno 2021

Da leone a erbivoro: ciò che non torna nella sentenza Shell

LinkedInTwitterFacebookEmailPrint

Con una sentenza, una Corte olandese obbliga Shell, una società privata, a tagliare drasticamente le proprie emissioni. Com’è possibile?

Al momento non esiste alcun trattato internazionale che, in forma legalmente vincolante, obblighi gli Stati a ridurre le proprie emissioni. C’era un tempo il Protocollo di Kyoto che prevedeva tale vincolo legale, ma per una serie di ragioni – in ultimo riconducibili a un deficit di volontà dei paesi – è stato abbandonato a favore di un approccio non vincolante basato su target volontari (NDC, Nationally Determined Contributions).

Allora, com’è possibile che una Corte olandese obblighi una società privata a tagliare drasticamente le proprie emissioni? Ciò accade perché la sentenza della Corte olandese:
1) sposta il soggetto della responsabilità dallo Stato al privato;
2) rende la responsabilità legalmente vincolante.

Qual è il congegno legale che rende possibile questo doppio salto? Il balzo è reso possibile dal fatto che la Corte olandese mette al centro del proprio giudizio il concetto di diritto umano che, meravigliosamente, si fonde con la questione climatica.

Il concetto di diritto umano si fonde meravigliosamente con la questione climatica

Ciò evita alla Corte di riferirsi nella sentenza a una norma violata da parte della Shell; piuttosto essa si concentra su una condotta non corretta, che viola uno standard di diligenza.

Questo il ragionamento logico sotteso alla sentenza Shell:
a) è certo che le emissioni di gas serra ledano la salute e i diritti umani;
b) poiché i prodotti della Shell causano emissioni essi ledono i diritti umani;
c) quindi la Shell è responsabile del danno causato e, preventivamente, deve ridurre le proprie emissioni.

Da notare: la società olandese non è ritenuta illegale nelle sue azioni, poiché essa non vieta alcuna norma scritta ma, mettendo al centro della propria valutazione i diritti umani, la Corte olandese – con una sorta di mossa del cavallo – può ritenerla potenzialmente colpevole, laddove per colpa s’intende la violazione dello standard di diligenza.

Riflessione 1: Un equilibrio parziale che ignora le implicazioni più ampie di equilibrio generale

La sentenza Shell suscita almeno tre riflessioni. La prima concerne il metodo, ovvero ritenere responsabile un soggetto privato perché viola un diritto umano. L’argomentazione secondo la quale ciò non è corretto perché il fine di un’azienda è fare profitti e non proteggere i diritti umani è criticabile quanto quella opposta. Siamo nel campo dei valori, e non del problem solving, pertanto sono possibili più letture dello stesso fatto.

Dunque, non si può escludere un’interpretazione estensiva dell’operato aziendale che includa anche la salvaguardia dei valori e dei diritti umani, soprattutto se vi è una class action di 17.000 individui che chiede la difesa di quei diritti.

Ciò che è critico sono le implicazioni di questa estensione del fronte giudicante di una Corte: uno, il giudizio si riversa sui soggetti privati in modo totalmente casuale, a seconda che vi sia o meno una chiamata in causa da parte di qualcuno. Due, ciò implica iniquità, non solo nei confronti della compagnia per via dell’alterazione della concorrenza, ma anche nei confronti di investitori e stakeholder. Tre, ciò che è un diritto assoluto a una certa latitudine, diventa, a un’altra, fuga dalla realtà.

Il rapporto IEA Net Zero by 2050 sembra il sequel del film La La Land, perché dovrei prenderlo sul serio? – Abdulaziz bin Salman

A tale proposito citiamo il giudizio di Abdulaziz bin Salman Al Saud, ministro per l’Energia dell’Arabia Saudita, che ha definito il rapporto della IEA Net Zero by 2050 un “sequel del film La La Land“, cioè un sogno.

Citiamo questa frase non per avvalorare la possibilità di un’interpretazione alternativa, quanto piuttosto per sottolineare come il mercato dell’energia sia mondiale e il gioco sia a somma zero: i barili che la Shell cancellerà a causa della sentenza saranno offerti da qualcun altro.

In sintesi, la Corte olandese ragiona nei termini di quello che gli economisti chiamano equilibrio parziale, non considerando affatto le implicazioni più ampie di equilibrio generale. Ed è per questo che, sul piano della funzionalità, la via giudiziale alla transizione energetica è assai debole e inefficiente.

Sul piano della funzionalità, la via giudiziale alla transizione energetica è assai debole e inefficiente

La seconda considerazione concerne il quanto. La Corte olandese si spinge a indicare un obiettivo di abbattimento delle emissioni pari al 45% entro il 2030. Qui il vincolo discende dall’alto – da una Corte di giustizia – ed è obbligatorio.

Siamo agli antipodi del Paris Agreement che si basa, al contrario, su un approccio bottom up, fortemente voluto dagli Stati che hanno rovesciato il metodo insito nel Protocollo di Kyoto. In parole povere ciò che è possibile per i Paesi – scelta del target e volontarietà dello stesso – è vietato al soggetto privato, il cui target è deciso dal giudice ed è obbligatorio. È difficile non ritenere questo doppio binario, uno per gli Stati un altro per i soggetti privati, piuttosto bizzarro.

Riflessione 2: la sentenza ribalta l’approccio volontario adottato e condiviso a Parigi

Va segnalato, inoltre, come oggi nessun NDC previsto nell’accordo di Parigi, sia pari al -45% al 2030 con anno base il 2019 (!). Si noti che l’attuale goal del -55% previsto dall’Unione Europea al 2030 – che va ben oltre l’NDC dichiarato dalla UE a Parigi (almeno -40% al 2030) – prevede come anno base il 1990: dunque, considerato che l’Europa, complici la crisi del 2008 e la pandemia, ha abbattuto fino ad oggi più del 20% il taglio richiesto da oggi al 2030 è intorno al 30%, laddove alla Shell la sentenza olandese impone il 45%.

Si dirà: ma la revisione dei goal, già nella COP 26 di Glasgow, dovrebbe alzare il livello di ambizione introducendo parecchi target net zero emissioni. Ciò è vero, ma è altrettanto vero che – data l’architettura del Paris Agreement – non ci sarà nessuna Corte di giustizia internazionale a controllare e sanzionare il rispetto dell’accordo.

Ricordiamo come, da sempre, la compliance rappresenti il punto debole degli accordi sul clima. Citiamo un solo dato: i 40 “should” (e non “must”) presenti nel Paris Agreement che depotenziano fortemente la valenza legale dell’accordo.

Riflessione 3: il consumatore non è mai responsabile?

La terza considerazione, infine, concerne l’attribuzione della responsabilità a un’azienda privata anche delle emissioni scope 3, ovvero del carbonio emesso dai consumatori nel momento in cui utilizzano i prodotti Shell (si rimanda a L’enigma della sostenibilità \2: scope 3 tra etica e tecnica). Si tratta di più dell’80% delle emissioni complessive di Shell, alla quale viene imputato nel 2019 un volume di CO2 pari a 1,6 miliardi di tonnellate.

In altri termini, un’azienda di 86.000 dipendenti sarebbe responsabile di un volume di emissioni pari a oltre 4 volte quelle prodotte da un paese di 60 milioni di abitanti quali l’Italia! Già dalla sproporzione di questi numeri dovremmo comprendere che c’è qualcosa che non va.

Per ragioni presumibilmente ascrivibili a un’innocenza a priori del consumatore, egli non è mai e comunque responsabile: se utilizza SUV ad elevata cilindrata, se passa la sua vita in aereo, se riscalda la sua casa in inverno a 25°C o la raffresca in estate a 17°C, egli è sempre candido.

Dunque, risalendo lungo la catena che va dal consumo finale alla materia prima, la Corte olandese decide che la responsabilità totale delle emissioni è del produttore.

Il paradosso ambientalista: no al conteggio delle emissioni territorial based, si a quello in toto al produttore

Siamo in presenza di una sentenza che ha avuto il plauso di quel movimento ambientalista che reputa errato un approccio al conteggio delle emissioni territorial based. In altri termini, coloro che affermano che è sbagliato attribuire alla Cina tutte le emissioni da essa generate perché, in molti casi, il carbonio prodotto è annidato all’interno di beni che sono consumati in Occidente, ora plaudono all’attribuzione in toto delle emissioni al produttore.

Questo è sicuramente un punto debole della sentenza olandese e non è escluso che, nel proprio ricorso, la Shell possa chiamare in causa, come corresponsabili, i consumatori, se non anche le aziende automobilistiche.

Diciamo che tra i due estremi della responsabilità interamente allocata al produttore e quella opposta che la scarica sul consumatore, esiste una via di mezzo in grado di bilanciare le esigenze del business con quelle ambiente, quelle dell’impresa con quelle del consumatore.

In conclusione, la sentenza Shell potrebbe essere il primo atto di una lunga serie di azioni che nel tempo potrebbero abbattersi non solo su altre aziende ma sugli Stati stessi, ed è per tale ragione che essa dovrebbe essere oggetto di approfondimento e miglioramento.

Pensare che i giudici possano avere successo laddove hanno finora fallito le politiche climatiche e i negoziati internazionali è ingenuo e semplicistico

La sentenza Shell, come sottolineato, pone parecchi problemi. Ma al di là dei limiti tecnici, è l’orizzonte giudiziario che la contiene che ne limita la visione. Per usare un’immagine, la transizione energetica è come un oceano posto di fronte al genere umano e in quell’oceano c’è tutta la nostra storia, la nostra industria, innovazione, mercato, economia, geopolitica, rapporti di classe, forze visibili e invisibili, comunque potenti. Pensare che la barchetta dei giudici possa attraversarlo e avere successo laddove hanno finora fallito le politiche climatiche e il negoziato internazionale sul clima, è ingenuo e semplicistico.

Il 2020-2030 sarà il decennio del redde rationem della transizione energetica: i limiti tecnologici, l’inerzia del sistema e financo la forza della struttura (si veda Il ciclo del carbonio e Marx) dimostreranno che chi ha sempre saltato un metro non può, di punto in bianco, levarsi oltre un’asticella collocata a 3 metri.

Altre considerazioni andranno fatte, altre opzioni escogitate, altre vie percorse.  Nessun domatore – per quanta autorevole sia la sua toga – può trasformare un leone in un erbivoro.


Enzo Di Giulio, economista e membro del Comitato Scientifico di «Energia»


Su Roadmap Net-Zero, diritto climatico e Scope 3 leggi anche:
Dal “palla lunga e pedalare” al tiki-taka: con la roadmap Iea si cambia tattica?, di Enzo Di Giulio, 28 Maggio 2021
It is the models, stupid. Qualche nota sul rapporto IEA “Net Zero”, di Massimo Nicolazzi, 26 Maggio 2021
Contenziosi sui cambiamenti climatici: preambolo di un “diritto climatico”?, di Lorenzo Parola e Francesca Morra, 23 Marzo 2021
L’enigma della sostenibilità \2: scope 3 tra etica e tecnica, di Enzo Di Giulio, 29 Dicembre 2020
Industria petrolifera: la via della transizione passa tra Scilla e Cariddi, di Enzo Di Giulio, 11 Febbraio 2020
Olanda, storica sentenza della Corte Suprema in materia di climate change, di Lorenzo Parola, Vanessa Nobile, 28 Gennaio 2020

Foto: Mariola Grobelska on Unsplash

0 Commenti

Nessun commento presente.


Login