Dopo l’Earth Day del Presidente Biden (22 aprile) e prima del G20 di Roma (30-31 ottobre) e soprattutto della COP 26 di Glasgow (1-12 novembre) si terrà in Cornovaglia il G7 (11-13 giugno). Quale credibilità degli impegni che ne usciranno? Pandemia e cambiamenti climatici saranno i principali temi su cui si confronteranno Paesi membri e ospiti. C’è da sperare che ne esca altro oltre le parole. Perché le promesse e gli obiettivi quantitativi cui sono soliti elargire in questi Summit valgono quel che valgono se non sono seguiti dai fatti. E i fatti ci dicono che le cose non vanno affatto bene.
Dall’11 al 13 giugno si terrà in Cornovaglia il G7 presieduto dalla Gran Bretagna. Pandemia e cambiamenti climatici saranno i principali temi su cui si confronteranno i leader di Canada, Francia, Germania, Giappone, Italia, Regno Unito, Stati Uniti, e, in qualità di ospiti, i presidenti del Consiglio europeo e della Commissione europea, e i leader di Australia, India, Sud Africa e Corea del Sud.
La credibilità degli impegni che prevedibilmente ne usciranno poggia, da un lato, sul rispetto di quelli assunti in passato, specie nell’Accordo di Parigi del 2015 e, dall’altro, sulle decisioni adottate in risposta alla crisi sanitaria e a quella economica che ne è seguita.
Un vero e proprio ‘diritto climatico’ non esiste ancora, ma già incombe su politiche nazionali e strategie aziendali
Gigantesca l’iniezione di stimoli fiscali da parte degli Stati (6.500 miliardi dollari nei soli G7) ed altre risorse destinate a politiche climatiche volte a conseguire una piena neutralità carbonica entro metà secolo. Globalmente 32 paesi hanno annunciato l’intenzione di conseguire questo obiettivo così come numerose municipalità e grandi imprese.
L’intera industria energetica dovrà muoversi in questa direzione anche alla luce della sentenza della corte olandese che il 26 maggio ha sanzionato la Shell per gli scarsi impegni assunti per ridurre in futuro la sua impronta carbonica, evidenziando i rischi legali e reputazionali di tali comportamenti. I contenziosi sui cambiamenti climatici sono quasi raddoppiati negli ultimi tre anni e sono aumentati sia i paesi sia la tipologia degli attori coinvolti. Un vero e proprio ‘diritto climatico’ non esiste ancora, ma già incombe su politiche nazionali e strategie aziendali.
Quanto è solida la credibilità dei G7 nel dar seguito agli impegni che assumeranno in Cornovaglia?
L’interrogativo dirimente è quanto sia solida la credibilità dei G7 nel dar seguito agli impegni che assumeranno in Cornovaglia. A mio avviso molto ma molto scarsa. Le cose dopo Parigi sono infatti peggiorate sul piano delle emissioni (a parte la caduta temporanea del 2020) anche perché gli obiettivi fissati erano troppo ambiziosi e troppo ravvicinati, richiedendosi invece lunghissimi tempi per sortire un qualche risultato.
Il dopo-COVID non ha modificato il corso delle cose nei paesi G7 che contribuiscono per circa un quarto alle emissioni globali. Se ben disegnate, le politiche avrebbero potuto favorire la riduzione delle traiettorie emissive che hanno ripreso invece a crescere tornando ai precedenti livelli.
Così non è accaduto. Per necessità più che per imprevidenza. I consistenti sostegni destinati ai settori ad alta intensità carbonica, come accadde dopo la crisi finanziaria del 2008, vincoleranno i paesi per decenni. 115 miliardi di dollari sono stati destinati all’industria del trasporto aereo e a quella automobilistica. Biden ha promesso 37 miliardi di dollari all’industria automobilistica per superare la scarsità di semiconduttori.
Come accadde dopo la crisi finanziaria del 2008, i consistenti sostegni destinati ai settori ad alta intensità carbonica vincoleranno i paesi per decenni
Difficile quindi possa colmarsi il gap tra impegni e comportamenti evidenziato nell’annuale rapporto sull’Adaptation Gap Report 2020 dell’UNEP. “Il mondo – vi sta scritto – sta andando verso un aumento della temperatura nel secolo di almeno 3 °C”. Oltre due volte l’obiettivo well below 1,5 °C fissato dall’IPCC.
Secondo il Global Recovery Observatory, solo il 2,5% delle spese totali decise dagli Stati è stato destinato all’economia green (18% la quota sulla spesa per il recovery).
Per contro, tra gennaio 2020 e marzo 2021 i paesi del G7 hanno investito più di 189 miliardi di dollari a supporto delle fonti fossili, contro 147 alle tecnologie low-carbon (Tearfund, IISD, ODI, Cleaning up their act? G7 fossil fuel investments in a time of green recovery, 2021). In sintesi: più della metà degli investimenti è stata destinata a industrie high-carbon.
Dove sono i finanziamenti promessi dai paesi ricchi a quelli poveri sin dal 2009?
Solo quattro paesi – India, Canada, Giappone, Australia – hanno destinato più risorse alle fonti green. In undici paesi vi sono stati annunci di politiche climatiche più aggressive, ancora però non tradotte in fatti reali.
Se le cose stanno così nei paesi ricchi, ben peggiore è la situazione in quelli poveri che più hanno sofferto della crisi sanitaria e dei suoi effetti economici, con la stima di un aumento delle persone più povere di 150 milioni di unità.
Attendersi da loro un qualche impegno nell’abbattimento delle emissioni, alto in termini assoluti, bassissimi in termini pro-capite, sarebbe illusorio anche per il mancato rispetto da parte dei paesi ricchi delle (false) promesse di finanziamenti formulate sin dal 2009 all’epoca della COP 15 di Copenhagen.
Giocare coi numeri: il -52% delle emissioni promesso da Biden (vs 2005) è in realtà un -30% se parametrato al 1990 (come suole farsi)
Il peso di Parigi dovrà quindi gravare massimamente sui paesi Ocse: in primis Stati Uniti ed Europa. Ma si stanno davvero muovendo in questa direzione?
Nel Summit sul clima organizzato dal Presidente americano il 22 aprile, l’Earth Day, cui hanno partecipato 40 leader mondiali, Biden ha annunciato l’obiettivo di ridurre le emissioni globali di tutti gas serra del 50%-52% rispetto ai livelli registrati nel 2005. Una riduzione relativamente alla sola CO2 di circa il 30% rispetto al 1990, poco meno della metà dell’obiettivo del -55% proposto dalla Commissione Europea.
Dall’analisi comparata dei Recovery Plan (RP) di 15 paesi europei, condotta da Green Recovery Trackerer (progetto condotto dal Wuppertal Institute for Climate e dal think-tank sul clima E3G), emergono conclusioni non molto incoraggianti. In sintesi:
- 11 paesi hanno destinato alle politiche climatiche meno della quota del 37% fissato dall’Unione dei complessi 673 miliardi di euro. Solo Austria, Finlandia, Belgio, Germania l’hanno rispettata;
- vi sono significativi rischi che diverse misure siano solo in apparenza green al punto da poter sortire effetti indesiderati sul clima;
- i RP non sono allineati al raggiungimento dei target al 2030 fissati dall’Unione (in parte ancora da inserire nei piani nazionali).
Queste conclusioni, non essendo stata resa nota la metodologia, vanno prese con grande cautela, ma considerando la buona affidabilità di chi ha condotto lo studio non possono che preoccupare.
Così come preoccupa la non lusinghiera analisi del caso italiano (Green Recovery Tracker Report: Italy) non tanto per la bassa percentuale delle complessive risorse (16%) destinate alla transizione ecologia (in base alla tassonomia del progetto), quanto all’eccessiva dispersione delle risorse in interventi di minor dimensione con solo aggiustamenti incrementali di scarsa rilevanza, e, soprattutto, per l’assenza, sta scritto, di una chiara visione strategica di lungo periodo.
Questo quadro, con più ombre che luci, rende i prossimi appuntamenti internazionali ancor più rilevanti. I segnali che verranno dal G7 di giugno in Gran Bretagna; dal G20 del 30-31 ottobre a Roma; e soprattutto dalla COP 26 dall’1 al 12 novembre a Glasgow ci diranno se al tempo degli annunci della transizione ecologica seguirà quello degli aggiustamenti reali.
Al di là degli obiettivi quantitativi che valgono quel che valgono.
Alberto Clô è direttore del trimestrale ENERGIA e del blog RivistaEnergia.it
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Foto: Pixabay
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