Il 27 agosto del 1859 nasceva l’industria petrolifera. 162 anni dopo, i più ne dichiarano lo stato terminale e l’imminente scomparsa. Ma è davvero così? La fase che l’industria si trova ad affrontare è senz’altro la più critica della sua lunga storia, ma vi sono almeno 4 ragioni per ritenere che supererà anche questa. Struttura integrata, presenza globale, capacità di coordinamento sono punti di forza dell’industria che possono consentirle, a differenza di altre industrie, di riadattarsi e anzi plasmare un mondo low-carbon. Non meno importante, il bisogno di far loro ricorso qualora la transizione fallisse nei tempi stabiliti.
162 anni fa, il 27 agosto 1859, nasceva l’industria petrolifera. O almeno a quella data la fa risalire la storiografia tradizionale. Il libro The Prize di Daniel Yergin (2009) ne contiene la migliore e più completa narrazione.
La più longeva industria capitalistica del mondo nacque negli Stati Uniti nei pressi di Titusville (Pennsylvania) ad opera del leggendario inventore Edwin Drake.
Ad onore del vero di pozzi petroliferi ne erano già stati attrezzati e utilizzati nei primi anni del 1800 in Italia, con le vie di Genova illuminate impiegando la nafta che affiorava lungo le rive del fiume Taro vicino a Parma.
La Pennsylvania d’Europa
Il primo giacimento in Italia fu scoperto nel XVII secolo ad opera del conte Morando Morandi, in provincia di Piacenza, a 18 metri di profondità. Gli fu riconosciuta un’esclusiva delle ricerche in cambio di un canone annuo stabilendo per la prima volta il principio della pertinenza allo Stato delle risorse del sottosuolo poi introdotto nella legislazione italiana ed europea (ma non americana).
Alla metà dell’Ottocento, quando Drake estrasse il primo petrolio, l’Italia era considerata al di fuori degli Stati Uniti come l’area più promettente al punto da essere soprannominata “Pennsylvania d’Europa”, divenendo meta di imprenditori francesi, tedeschi, inglesi. Grazie anche alla nascita di imprese strumentali a quella petrolifera col ricorso a tecniche estrattive in profondità che non avevano eguali nel mondo.
In quella fase pionieristica, l’Italia non fu prima ma nemmeno seconda ad altro paese europeo se non per la povertà delle sue risorse solo in parte compensata dalla genialità dei protagonisti – un po’ visionari, un po’ avventurieri, comunque molto avanti agli altri – che popolarono la nostra storia.
Una storia durata oltre due secoli che non meritava di fare la fine che ha fatto, anche se i distretti che ne derivarono di Piacenza, Parma, Ravenna restano eccellenze mondiali.
Ma se in Italia l’esperienza dell’industria petrolifera può ritenersi conclusa, non è detto che lo stesso valga per il resto del mondo. Nei suoi 162 anni questa industria ha infatti conosciuto diverse fasi critiche:
- quella che seguì nel 1911 allo smembramento della Standard of New Jersey (poi Esso) in 33 distinte compagnie ad opera della Corte Suprema per abuso di posizione dominante;
- la guerra dei prezzi della fine degli anni Venti che portò ad Achnacarry in Scozia nel 1928 al primo tentativo di costituire un cartello tra Esso, Bp, Shell, poi abortito dopo poco;
- l’espropriazione delle loro risorse minerarie in Medio Oriente e Nord Africa dopo le crisi petrolifere degli anni Settanta del secolo scorso che ridusse la quota del mercato internazionale delle oil majors dell’80%.
Da queste apparenti sconfitte l’industria petrolifera seppe ogni volta uscire rafforzata, vi riuscirà anche questa volta?
Da queste apparenti sconfitte l’industria petrolifera seppe ogni volta uscire rafforzata. Vi riuscì, sostituendo ai precedenti rapporti concessori con i paesi produttori relazioni contrattuali non lontani da quelli ideati da Enrico Mattei; ridefinendo la loro presenza strategica nelle diverse fasi dell’industria; aprendo nuove aree di frontiere nello sfruttamento del petrolio; innovando le tecniche di ricerca ed estrattive, sino alla rivoluzione dello shale oil; migliorando l’efficienza e riducendo drasticamente i costi medi di produzione.
I profitti globali, in un mercato divenuto globalizzato e concorrenziale, aumentarono di 2,5 volte da 9 a 21 miliardi di dollari tra 1973 e 2000 e quelli unitari di 3 volte. Un balzo per certi versi paradossale se si pensa che a fare i prezzi all’inizio era il quasi-monopolio delle majors e in seguito la concorrenza.
Non vi è dubbio che nessuna delle passate sfide è comparabile a quella che oggi questa industria si trova ad affrontare assediata da ogni versante: dai governi, in primis, desiderosi di ‘liberare’ le loro economie dalle fonti fossili; dai suoi stessi azionisti, investitori finanziari, sistemi bancari che le imputano di adoperarsi poco nell’abbattimento della loro impronta carbonica e di investire poco nel mondo non fossile; dall’opinione pubblica, in cui si è insinuato un generale convincimento che del petrolio il mondo si possa fare a meno nel giro di pochi decenni.
Non bastasse a tutto ciò si è aggiunta la crisi pandemica che ha fatto saltare i conti delle compagnie petrolifere, costringendole a un drastico taglio dei dividendi, così acuendo l’insoddisfazione degli azionisti; portando in molti casi i libri in tribunale e, tratto comune, tagliando drasticamente gli investimenti, per le minori disponibilità finanziarie ma anche per non vederli tradotti in stranded assets nel volgere di breve tempo.
4 ragioni per ritenere che l’industria petrolifera sopravviverà
Vi è da chiedersi se l’industria petrolifera riuscirà anche questa volta ad uscire da questo tunnel. Penso vi siano molti argomenti per rispondere affermativamente.
Primo: perché le compagnie vanno configurandosi sempre più come integrated energy companies: dai settori d’origine del petrolio e del metano all’industria elettrica, ove va consolidando la sua entrata con l’obiettivo di divenirne leader; allo sviluppo delle nuove tecnologie low-carbon (rinnovabili, CCS, idrogeno, mobilità, etc).
Quella che era prima petrolifera, poi Oil&Gas, saprà reinventarsi come industria della transizione energetica, molto di più delle imprese che oggi se ne vantano, perché penalizzate da una molto minore dimensione produttiva e da una presenza geografica che raramente supera i confini nazionali.
Sono convinto che gli impegni che le compagnie petrolifere vanno assumendo di conseguire una piena neutralità carbonica entro metà secolo siano molto più credibili di quelli assunti dagli Stati, incapaci di dar seguito alle loro promesse, come accaduto dopo l’Accordo di Parigi del 2015.
Secondo: per la sua presenza universale e la capacità di adattarsi alle condizioni locali addivenendo ad accordi di collaborazione con i paesi che li ospitano, dimostrando flessibilità nei rapporti contrattuali e nel far propri i desiderata di questi paesi molto di più di quanto poteva dirsi in passato.
Struttura integrata, presenza globale, capacità di coordinamento sono punti di forza dell’industria anche nella transizione
Una presenza che sarà essenziale per la lotta al global warming nel mondo povero da cui più origina. Se si destinassero maggiori risorse a quella parte del mondo si otterrebbero risultati di gran lunga superiori a quelli marginali che riuscirà ad ottenere l’Europa con un immane impiego di denari.
Terzo: perché gli obiettivi che governi, organismi internazionali, movimenti ambientalisti intendono conseguire sono di gran lunga superiori alle capacità delle altre industrie che in teoria dovrebbero sostituire quella petrolifera.
In molti casi si tratta di costruire intere filiere produttive (si pensi all’idrogeno). Quel che richiederebbe una capacità di coordinamento delle loro le diverse fasi conseguibile solo con una strategia di integrazione verticale fuori dalla portata dei singoli attori che oggi si propongono.
L’industria petrolifera nacque nominalmente nel 1859 ma divenne effettivamente tale quando John Davison Rockefeller, dopo aver fondato Standard Oil Trust nel 1870, capì che senza il controllo integrato dell’intera industria – dall’estrazione del greggio alla sua raffinazione, al trasporto negli oleodotti, alla distribuzione – il petrolio non avrebbe avuto un gran futuro.
Non vedo tanti imprenditori capaci di costruire da zero nuove industrie, mentre vedo loro richieste agli Stati e altrettanti aspiranti ai denari pubblici.
La straordinaria sfida climatica la si vince se si avvierà una cooperazione internazionale che coinvolga più che i governi, preoccupati delle ricadute economiche delle decisioni sui loro paesi, quanto le industrie, mettendo in comune il loro sapere, le loro professionalità, i loro laboratori, le loro capacità operative, superando la stucchevole contrapposizione tra fonti e relative industrie che attenua le possibilità di conseguire un effettivo abbattimento delle emissioni.
E se la transizione fallisse nei tempi stabiliti?
Quarto: l’argomentazione che mi sembra però più convincente è che la più parte degli scenari che portano alla conclusione che del petrolio si può ‘facilmente’ far meno si dimostrerà non veritiera.
A quel punto, saranno le imprese petrolifere che hanno saputo resistere – giacché molte spariranno – continuando a credere nel loro business tradizionale, a condurre il gioco.
E allora, se la transizione energetica al dopo-fossili, come temo, non si sarà avverata nei tempi e modi oggi sostenuti, ci si accorgerà di quanto sia preziosa la presenza di una solida industria ancora petrolifera oltre che fortemente impegnata in altri settori e nella ricerca e sviluppo di nuove soluzioni energetiche.
Petrolifera, Oil&Gas o della transizione che dir si voglia. A lei quindi: lunga vita.
Alberto Clô è direttore del trimestrale ENERGIA e del blog RivistaEnergia.it
Su storia e futuro dell’industria petrolifera leggi anche:
L’economia può crescere senza le fonti fossili?, di Redazione, 11 Giugno 2021
La “senescenza” del settore petrolifero, di Michele Manfroni, 26 Aprile 2021
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Darwinismo petrolifero, di Alberto Clò, 5 Maggio 2020
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