17 Agosto 2021

Fit for 55: tante domande, poche certezze

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Primo, il gioco vale la candela? Secondo, quali effetti ne deriveranno? Fare in 10 anni quel che si è fatto negli scorsi 30 in un contesto post pandemico non è impresa di poco conto. Interrogarsi sulla fattibilità, sulle ricadute e sul contributo alla causa non è una provocazione ma un’invocazione a procedere con realismo. Doveroso che la Commissione mostri di aver piena contezza degli effetti socioeconomici che ne deriveranno – a partire dall’inevitabile aumento dei prezzi dell’energia e dal rischio disoccupazione – nonché del contributo (minimo) che questo immane sforzo apporterà in termini di riduzione delle emissioni.

Duplice la domanda da porsi nella valutazione delle proposte di piano Fit for 55 avanzata dalla Commissione di Bruxelles il 14 luglio in casuale coincidenza con lo scoppio di un’altra rivoluzione: quella francese.

La prima è se il gioco valga la candela: ovverossia se la rivoluzione dell’economia europea e dei suoi stili di vita che si pensa di realizzare in men di dieci anni, da qui al 2030, sia ripagata dai risultati che si otterranno in termini di riduzione delle emissioni globali.

La seconda è se la Commissione abbia piena contezza degli effetti socio-economici che ne deriveranno.

Frans Timmermans ha dichiarato che la transizione sarà “giusta e solidale” non escludendo tuttavia il verificarsi di sommosse popolari come quelle che seguirono la decisione del presidente Macron di aumentare di pochi centesimi il prezzo del gasolio diesel quale timida forma di carbon tax.

Se la transizione sarà “giusta e solidale”, perché temere i gilet gialli?

Diversamente dall’ingloriosa marcia indietro di Macron, secondo il vicepresidente della Commissione e deus ex machina del nuovo Piano, i politici d’oggi dovrebbero tirar dritto per la loro strada. Il timore dei gilet gialli “non deve impedire ai politici europei di agire”. Costi quel che costi.

Venendo alla prima domanda l’impressione è che la Commissione non abbia contezza del fatto che il contributo europeo al calo delle emissioni è insignificante o addirittura controproducente se le misure porteranno alla delocalizzazione delle industrie emissive.

Essere “the first climate-neutral continent by 2050” quasi partecipassimo all’olimpiade della lotta al global warming non significa nulla se fossimo i soli a parteciparvi. Come ha dimostrato il fallimentare G20 di Napoli, che all’Europa e alle sue politiche climatiche non ha fatto alcun cenno.

Il piano dell’Unione non cambierà l’aritmetica emissiva

Le proposte avanzate dall’Unione non cambierebbero l’aritmetica emissiva per due ragioni:
(a) perché il calo delle emissioni al 2030 – ammesso e non concesso si attuasse per intero il piano Fit for 55 – sarebbe del tutto marginale;
(b) perché la prevedibile delocalizzazione delle attività produttive in aree con normative più lasche aumenterebbe le emissioni globali, con un saldo netto di segno incerto. E non sono certo le minacce di introdurre dazi all’importazione commisurati al contenuto carbonico a frenare il fenomeno, anche per il rischio che si avviino guerre protezionistiche.

Ridurre le emissioni nel 2030 del 55% rispetto a quelle del 1990 significherebbe abbatterle di 2 miliardi di tonnellate: da 3,7 a 1,7 secondo i dati BP Statistical Review of World Energy. Considerando che dal 1990 al 2020 si erano già ridotte da 3,7 a 2,5 miliardi di tonnellate (-32%), il calo effettivo sarebbe di 0,8 miliardi di tonnellate (-32%).

Fare in 10 anni quel che si è fatto in 30

In 10 anni si chiederebbe in sostanza di fare quello che si è fatto nei trascorsi 30 anni, nonostante l’azzoppamento causato dalla pandemia. Evento mai menzionato nel Piano, quasi fosse irrilevante.

Rapportando il calo previsto di 0,8 miliardi di tonnellate alle emissioni attese nel 2030 di 36-38 miliardi di tonnellate si arriva alla conclusione che il contributo europeo alla riduzione delle emissioni sarebbe di appena il 2%: percentuale statisticamente irrilevante date le mille variabili che incidono su entrambe le cifre del rapporto e per giunta inferiore se rapportassimo il calo atteso alle emissioni globali successive al 2030.

2% il contributo europeo alla riduzione delle emissioni

Il Piano, approvato dalla Commissione con forti contrasti al suo interno ha ottenuto vasti plausi nel nostro Paese, a parte una sparuta minoranza. Ma in estrema sintesi, quali potrebbero essere i suoi effetti? Risposta non facile data la necessità di leggersi le migliaia di pagine del Piano.

Primo: un aumento generalizzato dei prezzi dell’energia, indotto dall’auspicato aumento del carbon price, dalla revisione della tassazione energetica (5% di tutte le entrate fiscali dei paesi europei), con la proposta di eliminare ogni sorta di sconto (ad esempio gasolio per trasporto) o differenziazione della fiscalità non motivata da differenziazione di impronta carbonica.

E dal fatto, sta scritto nel Piano, che l’aumento del minimo fiscale ha eroso il segnale di prezzo che la fiscalità avrebbe potuto indurre. Insomma: la Commissione si lamenta che i prezzi dell’energia siano aumentati poco!!

Un aumento dei prezzi dell’energia certo e forse anche auspicato

I prezzi aumenteranno inoltre anche per la traslazione sui prezzi dei maggiori costi delle imprese. In particolare:
(a) per il maggior costo dei permessi negoziabili di CO2 e l’eliminazione graduale dei permessi gratuiti a fronte di un aumento dei target di riduzione delle emissioni al 60%;
(b) per l’imposizione (semmai ci sarà) dei dazi all’importazione di una serie di prodotti (acciaio, cemento, etc.) in funzione del loro contenuto carbonico;
(c) per l’estensione del sistema ETS ai settori altri da quelli industriali ed elettrici cui sinora si applicava. Si valuta che questa estensione farà sì che i due terzi delle emissioni dovranno pagare un prezzo sul carbonio emesso con un gettito fiscale stimato in 100 miliardi di euro.

L’aumento della bolletta elettrica del 20% da inizio luglio, poi dimezzata per l’intervento del governo che ha messo sul tavolo 1,2 miliardi di euro, è solo l’antipasto di quel che accadrà.

L’aumento dei costi per la mobilità per l’imposizione nell’arco di poco più di un decennio (al 2035) della vendita di solo auto elettriche. Chi non potrà permetterselo rinuncerà (o meglio: dovrebbe rinunciare) al trasporto privato che oggi copre oltre l’80% della mobilità terrestre. Che quello pubblico sia in grado di sopperirvi è al di là delle cose possibili.

Si confida in una radicale trasformazione industriale, ma come affrontare lo iato temporale tra vecchi e nuovi settori ?

Secondo: aumenterà la disoccupazione causata dall’emarginazione delle industrie legate al passato paradigma tecnologico (in primis, quella automobilistica con 11 milioni di occupati nel Continente). Altre industrie sorgeranno, ma è incerto se saranno all’interno delle nostre economie e non, come è facile pronosticare, al loro esterno.

Vi è poi comunque uno iato temporale tra vecchi e nuovi settori, che si tradurrà in crescente disoccupazione cui gli Stati dovranno porre rimedio per arginare la protesta sociale contro cui temiamo si infrangeranno le illusioni di rivoluzionare in pochi anni l’economia e la società europea senza che ne siano derivati benefici per la salvezza del Pianeta.   


Alberto Clô è direttore del trimestrale ENERGIA e del blog RivistaEnergia.it


Su Fit for 55 leggi anche:
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Foto: Unsplash

1 Commento
Rinaldo 

Ottima riflessione, che dovrebbe essere letta ed approfondita dai seri professionisti dei Media nazionali, per poi essere riproposta in continuo ai connazionali, come comunicazione istituzionale di utilità’ sociale.
Grazie Prof. Clo’.


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