14 Settembre 2021

Dalla potenza all’atto: le tre barriere al Fit for 55

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Il pacchetto Fit for 55 propone una vera e propria rivoluzione, ma per passare dalla potenza all’atto facendo sì che ciò accada occorre superare tre barriere: politica (l’approvazione formale del pacchetto da parte del Parlamento e del Consiglio europeo; la posizione della Francia prossima alle elezioni); tecnico-economica (ridurre le emissioni a un tasso 4 volte superiore a quello passato in un contesto di auspicata crescita economica); sociale (ammesso che i benefici economici complessivi saranno maggiori dei costi, la transizione non sarà indolore e la protesta sociale è una reazione da non scartare, come dimostra il caso francese).

In estrema sintesi, il pacchetto Fit for 55 implica la riduzione delle emissioni del 55% entro il 2030 rispetto al 1990, ossia un taglio di circa il 32% entro i prossimi dieci anni. In una parola, una rivoluzione.

Elementi non marginali del rovesciamento dell’economia europea sono i seguenti:

  • Rinnovabili al 38-40% entro il 2030, circa il doppio di oggi.
  • Target di efficienza energetica al 36-37% nei consumi finali e al 39-41% nell’energia primaria.
  • Riduzione delle emissioni del settore ETS pari al 60% al 2030, rispetto al 2005.
  • Riduzione delle emissioni dei veicoli del 100% al 2035.
  • Introduzione di una tassa alla frontiera (Carbon Border Adjustment Mechanism) sul contenuto di carbonio dei prodotti importati, al fine di proteggere l’industria europea da importazioni provenienti da paesi con politiche climatiche più deboli.

Queste le intenzioni. Ma ora, per dirla con Aristotele, occorre passare dalla potenza all’atto, e non è affatto scontato che ciò accada. La realizzazione dell’intenzione implica il superamento di tre barriere:

La prima è l’approvazione formale del pacchetto da parte del Parlamento e del Consiglio europeo. Qui sono in gioco tempi e contenuti.  L’approvazione potrebbe richiedere un periodo di tempo considerevole – mesi, o forse anche anni – e tra gli obiettivi risultanti e quelli proposti dalla Commissione potrebbe esserci uno scostamento.

L’approvazione del pacchetto da parte di Parlamento e Consiglio europeo potrebbe richiedere mesi, o forse anche anni; ogni ritardo renderà più arduo il conseguimento degli obiettivi

E se anche gli obiettivi venissero approvati nella forma attuale, non è da escludere che la realpolitik del Consiglio – che esprime la posizione degli Stati Membri, spesso meno visionaria di quella del Parlamento – annacqui il percorso verso i target.

Due le questioni chiave: la prima concerne l’inclusione, o meno, del nucleare nella tassonomia europea delle attività green. La seconda riguarda l’entità della carbon tax.

Sul mercato dell’ETS il prezzo di una tonnellata di CO2 veleggia ormai sui 60€, il livello più alto toccato in oltre quindici anni di storia del mercato. Ora, la rivoluzione implicita nel Fit for 55 implica un’ulteriore crescita di questo prezzo, già assai elevato. Secondo la IEA, entro il 2030, esso dovrebbe quasi raddoppiare.

Fonte: Ember

Non solo: il raggio d’azione del carbon pricing dovrebbe passare dall’attuale 40% delle emissioni rappresentato dai settori ETS – sostanzialmente industria ed elettrico – alla loro totalità.

Nucleare e carbon pricing, che dirà la Francia prossima alle elezioni?

Si avrà il coraggio di compiere un passo del genere? Che dire delle resistenze dei paesi dell’est? E la Francia?

Le elezioni ormai alle porte inducono a credere che difficilmente un player importante come la Francia – con un’economia basata sul nucleare e già sconvolta dai fuochi dei gilet gialli, innescati proprio dall’introduzione di una riforma del carbon pricing – vorrà cedere su questi due punti.

O forse cederà, ma solo dopo le elezioni presidenziali del prossimo aprile. E intanto il tempo corre e si consuma, evento non contemplato dalla serrata tabella di marcia implicita in Fit for 55.

È possibile fare in 10 anni più di quello che si è fatto in 30?

La seconda barriera è quella tecnico-economica. È possibile ridurre le emissioni di un continente di oltre il 30% in soli dieci anni quando nei precedenti trenta la riduzione è stata di circa il 20%? Vediamo meglio.

Ignorando il dato del 2020 che, causa pandemia, rappresenta un’eccezione, abbiamo la seguente situazione: nel 1990 le emissioni complessive di gas serra europee erano pari a 5,721 mld. ton. CO2 equivalenti (dati European Environment Agency, EEA).

Il target previsto per il 2020 (-20%) era pari a 4,577 mld. ton. CO2eq, abbondantemente raggiunto prima del tempo, tanto che nel 2019 le emissioni europee erano pari a 4,235 mld. ton. CO2eq.

In altre parole, tra il 1990 e il 2019 le emissioni europee sono diminuite del 24%, con tasso di riduzione medio annuo pari esattamente all’1%, fortemente aiutato, va detto, dalla forte crisi economica avviata nel 2008.

Ora, l’obiettivo del -55% al 2030 implica un livello di emissioni pari a 2,575 mld. ton. CO2eq, con un tasso di riduzione medio annuo negli undici anni dal 2019 al 2030 pari al 4,4%.

Ridurre le emissioni a un tasso 4 volte superiore a quello passato in un contesto di auspicata crescita economica

In parole semplici, la velocità di riduzione deve quadruplicare rispetto a quella storica, in un contesto nel quale, presumibilmente, le politiche espansive dell’UE produrranno una crescita maggiore del passato.

E anche se prendiamo come riferimento i 9 anni che vanno dal 2010 al 2019, ovvero un periodo caratterizzato da una maggiore penetrazione delle rinnovabili e conseguente riduzione delle emissioni, si vede che il tasso di decrescita medio annuo è stato pari all’1,7%, ovvero ben distante dal 4,4% richiesto.

Ed è vero quello che scrive l’UE nel suo sito, ovvero che tra il 2018 e il 2019 le emissioni sono diminuite del 3,7%, ma è altrettanto vero che una rondine non fa primavera, tanto che pure tra il 2013 e il 2014 le emissioni europee sono diminuite di un buon 3,8% per poi riprendere a decrescere a ritmo assai più rallentato negli anni seguenti.

Insomma, lo sforzo richiesto è titanico e l’accelerazione ipotizzata assai difficile da realizzare. Si tratta di un dato oggettivo: lo dicono i numeri.

L’accelerazione ipotizzata assai difficile da realizzare: lo dicono i numeri

Forse, più dei tassi di crescita dell’intera economia, la focalizzazione su un settore specifico quale quello dei trasporti rende più visibile il grado sfrenato di ambizione del piano europeo.

A partire dal 2030 le emissioni delle auto nuove dovranno diminuire del 55% e, dopo il 2035, esse andranno ridotte del 100% rispetto ai livelli del 2021. In sostanza si decreta che nei 14 anni che ci separano dal 2035 le auto a benzina e quelle a diesel dovranno uscire di scena.

Anche in questo caso, vediamo i numeri cosa dicono.

Non c’è dubbio che le vendite di auto elettriche (EV) siano in forte crescita in Europa. Si è passati dal 3,6% sul totale del primo semestre 2020 al 6,7% del primo semestre 2021: quasi un raddoppio.

Il motore a combustione termica è ancora presente in oltre il 90% delle auto vendute

È altrettanto indubbio che, come si evince dalla tabella sottostante, più dell’elettrico puro cresce l’ibrido e che, seppure le quote di auto a benzina e a diesel vadano restringendosi, il motore a combustione termica sia presente ancora in oltre il 90% delle auto vendute.

Al di là della questione non banale circa l’opportunità di convergere sull’elettrico puro nel 2035 – ha senso se in quell’anno l’elettricità europea non sarà ancora decarbonizzata? – si pongono una serie di domande.

È possibile eliminare, per legge, in soli 14 anni, il motore a combustione interna? La legge può generare il mercato? Può la regolazione orientare una maxi-industria che dà lavoro, direttamente o indirettamente, a 14,6 milioni di persone e rappresenta il 6,7% dell’occupazione totale dell’Unione Europea, e che ogni anno sforna 18 milioni e mezzo di auto, camion, bus e van? Quanti incentivi occorreranno?

Queste domande – che è bene porsi – sono un pezzo della grande barriera tecnico-economica che Fit for 55 dovrà superare.

Ammettendo che i benefici economici complessivi siano maggiori dei costi, c’è comunque un costo da pagare e la transizione non sarà indolore

Infine, vi è la terza barriera, quella sociale. Per citare Milton Friedman, nessun pasto è gratis e men che meno quello implicito in una rivoluzione tecnico-economica strutturale, da realizzare in una manciata di anni.

C’è comunque un costo da pagare, all’inizio, durante e forse anche dopo il tragitto. E anche ammettendo che i benefici economici complessivi siano maggiori dei costi – trascuriamo i benefici climatici che saranno paradossalmente nulli per parecchi anni, controllando l’Europa circa il 9% delle emissioni mondiali – la dinamica dal fossile al rinnovabile può essere traumatica.

La società non è un meccano ma un corpo organico. Fit for 55 equivale a un’operazione chirurgica, mai tentata prima, di sostituzione di diversi organi del corpo sociale. È inevitabile che vi siano dolori legati all’intervento e, se anche esso andasse bene, alla convalescenza.

Non solo: poiché la società ha limiti e punti di rottura che non possono essere superati, non si può escludere che a un certo punto il paziente si alzi dal tavolo e fugga dalla sala operatoria. La protesta sociale è una reazione da non scartare, come dimostra il caso francese.

Si torna alla questione della carbon tax e ai suoi impatti, soprattutto sulle fasce più deboli della popolazione e sui lavoratori di quelle industrie che saranno maggiormente colpite.

La carbon tax deve indurre i consumatori a ridurre la domanda di prodotti carbonici…

È indubbio che la parabola dal fossile al rinnovabile implichi una crescita ragguardevole del costo dell’energia, come è anche indubbio che la transizione deve essere equa e, quindi, non gravare troppo sui cittadini.

Fit for 55 sta nel mezzo di questi due poli e deve, idealmente, bilanciarli. Operazione per nulla semplice.

È utopia pensare che la transizione sia un percorso turistico proprio perché la logica del carbon pricing nega questa possibilità.

Non si può pensare, come pure è stato fatto, di sterilizzare gli aumenti di prezzo dell’energia indotti dal carbon pricing – magari addossandoli allo Stato – perché la carbon tax prevede proprio che il prezzo dei beni ad alto contenuto di carbonio cresca, poiché è tale aumento che induce una reazione dei consumatori e riduce la domanda di prodotti carbonici.

Questa – va sottolineato – è la teoria, la stessa che ci insegna che la domanda diminuisce quanto più aumenta il prezzo dell’energia.

…ma la domanda di energia non è elastica

Poi c’è l’aspetto empirico che ci mostra come la domanda di energia sia tutt’altro che elastica nel breve periodo, perché il consumatore non può cambiare nell’immediato l’automobile o il boiler di casa se il prezzo della benzina e del gas aumentano, anche di molto.

Ed è questa inelasticità di breve, la quale limita i margini di azione dei cittadini, che ne gonfia potenzialmente la protesta e che rappresenta un’ulteriore trappola per il pacchetto europeo.

Dunque i cittadini, soprattutto i più deboli, andranno aiutati, ma l’entità dell’operazione è tale che questo dovrà essere fatto non estemporaneamente ma nell’ambito di una riforma complessiva della fiscalità europea, ad esempio tornando ad approfondire l’idea di Delors di uno spostamento del carico fiscale dai redditi all’energia. 

Questa barriera, che abbiamo definito sociale, è importantissima ed è un errore non tenerne conto in virtù di un’adesione cieca al principio di fondo.

Non si può improvvisare sul fronte sociale

Il sostanziale abbandono delle regole di Maastricht indotto dalla pandemia, e la recente messa in discussione delle stesse, ci insegna che l’Unione Europea non è infallibile ma può sbagliare, anche parecchio.

Posto che la via della decarbonizzazione è obbligata, la rigidità non è un bene, tanto più se chi si impegna a ridurre il carbonio conta molto poco – in termini di emissioni – nello scenario energetico mondiale.

Il suo sforzo produce risultato pressoché nullo, se gli altri attori non fanno altrettanto: e ciò non sta accadendo, come dimostra la recente crescita delle emissioni dell’elettrico cinese.

Il valore dell’azione europea risiede, quindi, più che nell’aritmetica delle emissioni, nella sua forza simbolica e di guida. È chiaro che l’Unione Europea può aprire la strada agli altri paesi, ed è questo che essa vuol fare ed è bene che lo faccia.

È altrettanto evidente che, in caso di fallimento, la sua azione si tradurrebbe in un boomerang, non solo per sé stessa ma per l’intero pianeta.

Posto che, se anche l’Unione Europea abbattesse le emissioni secondo la tabella di marcia che si è data, l’impatto sulle emissioni globali sarebbe minimo, e posto che il suo ruolo di leader morale e di traino sarebbe comunque svolto – anche con una tabella di marcia meno asfissiante – sarebbe saggio ispirare la propria strategia a una maggiore flessibilità.

Per dirla con Lao Tzu, “iI malleabile è sempre superiore all’inamovibile”.


Enzo Di Giulio è membro del Comitato Scientifico di ENERGIA


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Intervista a Alberto Pototschnig su Fit for 55, di Redazione, 8 settembre 2021
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Foto: mararie plato, aristoteles, socrates

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