8 Settembre 2021

Intervista a Alberto Pototschnig su Fit for 55

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La Commissione ha presentato un pacchetto estremamente ambizioso denominato “Fit for 55” per ridurre le emissioni climalteranti del 55% al 2030 rispetto ai livelli del 1990. Un passaggio ritenuto necessario per raggiungere l’obiettivo della neutralità carbonica entro il 2050. Abbiamo chiesto ad Alberto Pototschnig, Executive Deputy Director for the World of Practice della Florence School of Regulation, la sua opinione su rischi e opportunità di questo ambizioso pacchetto.

Gli ambiziosi obiettivi che la Commissione intende darsi non sono fine a sé stessi ma fanno parte di un insieme di iniziative statali volte ad un obiettivo globale: mitigare i cambiamenti climatici. Prima di interrogarci sulla fattibilità che il target -55% venga effettivamente raggiunto e sulle sue implicazioni economiche e sociali per i paesi dell’UE, è opportuno chiedersi quanto gli obiettivi della Commissione contribuiscano all’obiettivo generale. Ossia, quanto l’Unione Europea può contribuire a ridurre le emissioni globali al 2030 e al 2050 tenuto conto della sua bassa (8%) e decrescente incidenza sulle emissioni globali?

Certamente l’Unione Europea contribuisce solo marginalmente alle emissioni globali di gas climalteranti, anche grazie agli sforzi profusi negli ultimi anni per abbattere queste emissioni. Questo non vuol dire però che l’Unione Europea non possa giocare un ruolo importante nelle politiche globali di lotta ai cambiamenti climatici. E per giocare tale ruolo in maniera credibile, l’Unione Europea, oltre a quello che ha già fatto, deve presentarsi con le carte in regola anche per il futuro, con un programma ambizioso di ulteriori riduzioni delle emissioni di gas ad effetto serra. Questo è ciò che il Green Deal ed il pacchetto Fit for 55 mirano a mettere in campo. Tali politiche, oltre a dare all’Unione Europea una credibilità internazionale in questo ambito, potranno anche promuovere lo sviluppo e l’innovazione tecnologica nell’industria europea, con grandi potenzialità globali nel futuro.

Per giocare un ruolo credibile, l’Unione Europea deve presentarsi con le carte in regola

Vi sono considerazioni anche oltre la quantificazione in termini di emissioni. Due sono le principali argomentazioni che spingono a promuovere uno sforzo più deciso da parte dell’Unione Europea in campo climatico rispetto al resto del mondo: conquistare una leadership morale e favorire una rivoluzione industriale che le dia un vantaggio rispetto ai paesi concorrenti. Quale delle due argomentazioni ritiene più solida, quella morale o quella industriale?

Credo che entrambi gli aspetti siano ugualmente importanti. Solo uno sforzo congiunto a livello globale potrà ottenere risultati concreti nella lotta ai cambiamenti climatici. Per questo, il rientro degli Stati Uniti nell’Accordo di Parigi, è sicuramente un fatto importante, ma altri paesi e regioni devono fare la loro parte. L’Unione Europea e le altre economie occidentali possono chiaramente aiutare i paesi economicamente più deboli in questo sforzo, ma dare il buon esempio è chiaramente altrettanto importante. L’innovazione e lo sviluppo di nuove tecnologie è un’opportunità per l’Unione Europea per poter supportare tale azione e promuovere la riconversione industriale del nostro tessuto economico. Quindi vedo entrambi questi aspetti come complementari.

Una delle principali critiche mosse alle ambizioni della Commissione Von der Leyen è che guardi maggiormente all’obiettivo che alla strada per raggiungerlo, ossia alle implicazioni economiche e sociali che ne conseguono. Condivide queste perplessità o ritiene invece che l’approccio adottato dalla Commissione sia quello giusto?

Credo che quando l’obiettivo del 55% per la riduzione delle emissioni di gas climalteranti al 2030 e la carbon neutrality al 2050 furono annunciati non fosse ancora stato fatto uno studio di impatto completo. Però è anche vero che l’inizio del mandato della nuova Commissione era il momento giusto per lanciare il cosiddetto “cuore oltre l’ostacolo”, e, a mio avviso, la Presidente Von der Leyen ha fatto bene ad approfittarne. Certo, sono obiettivi ambiziosi, ma come anche recentemente osservato dalle Nazioni Unite, il momento di agire, e di farlo in maniera risoluta, è ora.

L’inizio del mandato della nuova Commissione era il momento giusto per lanciare il cosiddetto “cuore oltre l’ostacolo”

14 anni al 2035 saranno sufficienti per la motor valley per riconvertirsi all’elettrico? Che ne sarà degli 11 milioni di occupati nel settore automotive in Europa?

La penetrazione delle auto elettriche in Europa è aumentata rapidamente negli ultimi anni – ad un tasso del 60% annuo tra il 2015 ed il 2020, molto maggiore, ad esempio, del 17% fatto registrare dagli Stati Uniti. Peraltro, gli Stati Uniti stimano che circa un terzo delle nuove auto nel 2030 saranno elettriche ed il Presidente Biden ha annunciato un obiettivo del 50%. Le maggiori case automobilistiche europee stanno anche rivedendo, aumentandone l’ambizione, i loro piani di sviluppo di veicoli elettrici. Ad esempio, il Gruppo Renault sta pianificando una quota del 90% di auto elettriche nella loro produzione entro il 2030, mentre Volkswagen e Volvo pensano di produrre solo auto elettriche per quella data. Pertanto, l’obiettivo che l’Europa si è posta di produrre unicamente auto elettriche entro il 2035 è sicuramente ambizioso, ma fattibile, almeno a giudicare da come si stanno muovendo gli attori principali di questo settore.

Guardando come si muove l’industria, l’obiettivo europeo di produrre unicamente auto elettriche è sicuramente ambizioso, ma fattibile

Ridotto gettito delle accise sui carburanti, incentivi alla mobilità elettrica e all’uso delle nuove fonti, sostegno alle imprese innovatrici ma anche a imprese e addetti dei settori da smantellare… Ritiene vi sia sufficiente consapevolezza a livello politico dei costi delle misure proposte e dell’impatto sui bilanci statali? A quanto ammonteranno gli investimenti necessari?

La transizione energetica ed ambientale comporterà un cambiamento epocale nel tessuto economico e nei comportamenti dei cittadini di tutto il mondo. Un cambiamento costoso, che imporrà anche grandi ristrutturazioni dei bilanci pubblici. Non so se vi sia già una stima di quanto questa transizione potrà costare. Solo per il settore energetico il costo della transizione sarà dell’ordine di svariate decine di migliaia di miliardi di dollari – le stime variano, ma l’ordine di grandezza è questo. Ma senza dubbio i costi del non agire sarebbero molto maggiori e metterebbero a repentaglio la sopravvivenza stessa del pianeta, almeno come lo conosciamo.

A livello invece di opinione pubblica si è raggiunto un grado di consapevolezza sufficiente ad accettare le misure proposte o esiste il rischio che un pacchetto così ambizioso deteriori il legame tra questa e le istituzioni europee? Quale approccio ritiene più adatto per comunicare con l’opinione pubblica: che mostri la necessità di intervenire attraverso messaggi semplificati o al contrario che spieghi la complessità di un problema così ampio e interdisciplinare?

Credo che negli ultimi anni, la consapevolezza ambientale sia molto cresciuta, anche a seguito dei molti eventi meteorologici estremi a cui abbiamo assistito. È questa consapevolezza è di gran lunga maggiore tra le nuove generazioni, quelle per le quali dobbiamo preservare un pianeta vivibile, ma anche quelle che hanno già intrapreso nuovi stili di vita. Non mi pare che ci sia quindi un problema di opinione pubblica. Semmai il rischio maggiore è legato ad alcuni interessi economici legati al vecchio mondo, quello basato sulle fonti fossili di energia.

Il rischio maggiore è legato ad alcuni interessi economici legati al vecchio mondo

Se l’obiettivo principe verso cui tendere è la riduzione delle emissioni globali, non sarebbe più opportuno investire per la sostituzione di tecnologie obsolete nei paesi emergenti così da avere un beneficio molto maggiore a fronte di costi molto minori?

Certamente, la riduzione delle emissioni di carbonio nei paesi con la più elevata intensità deve essere la priorità della comunità internazionale. Tra questi la Cina, che da sola è responsabile di quasi un quarto delle emissioni globali. Ma in questo caso non credo servano investimenti esteri: serve piuttosto uno sforzo diplomatico a livello internazionale. Ci sono poi i paesi emergenti, a cui Lei faceva riferimento. In tali paesi, la sostituzione di tecnologie e fonti energetiche tradizionali, come ad esempio la biomassa, con tecnologie basate su l’energia eolica e solare, non solo produrranno una riduzione delle emissioni di gas ad effetto serra, ma anche di altri inquinanti nocivi alla salute. Quindi un doppio beneficio, che giustifica pienamente il supporto finanziario internazionale quando le economie locali non sono in grado di provvedervi.


Alberto Pototschnig co-Director con Jean-Michel Glachant e Leonardo Meeus della Florence School Regulation presso cui ricopre la carica di Executive Director for the World of Practice.


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