Quei leader che si presenteranno a Glasgow il 1° novembre (quelli di Russia, Cina, India, Arabia Saudita non ci saranno) lo faranno, chi più chi meno, a mani vuote. La grave crisi energetica che sta flagellando il mondo intero rischia di affossare le grandi speranze che hanno accompagnato l’arrivo della COP26, anche se è facile prevedere che stancamente ribadiranno i loro impegni magari appena disattesi. Per superare la crisi, paesi come Cina, Gran Bretagna, Germania e Stati Uniti stanno infatti facendo ampio ricorso al carbone.
Dall’1 al 12 novembre si terrà nella maggior città della Scozia, Glasgow, la 26a COP. Le Conferenze delle Parti sono state istituite nel 1992 all’Earth Summit di Rio de Janeiro che portò alla firma da parte di 197 Stati della “Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici” (United Nations Framework Convention on Climate Change, UNFCCC).
Il Trattato non fissava limiti obbligatori e legalmente vincolanti ai singoli Stati per ridurre le emissioni di gas serra, ma prevedeva la possibilità che le parti firmatarie potessero adottare in apposite conferenze annuali – le COP – ulteriori atti che introducessero limiti obbligatori.
Quel che accadde alla COP3 del 1995 che vide la firma del Protocollo di Kyoto che impegnava i firmatari – soprattutto l’Europa, ma non Stati Uniti e Cina – a ridurre le emissioni. E soprattutto nella COP21 del 2015 con la firma dell’Accordo di Parigi con l’impegno della quasi totalità dei paesi del mondo a ridurre le emissioni per contenere il riscaldamento entro almeno la soglia dei 2°C.
Su 25 COP, solo la 3 e la 21 hanno fatto introdurre limiti alle emissioni
Non ne seguirono tuttavia fatti concreti così che le emissioni globali hanno proseguito nella loro crescita. Le successive COP non hanno segnato passi in avanti compresa l’ultima di Madrid del 2019.
L’aggravarsi dei cambiamenti climatici, come attestato dal recente VI Rapporto dell’IPCC; i grandi piani messi in campo dall’Unione Europea sino alla recente proposta Fit for 55; l’impegno di molti paesi a conseguire entro la metà del secolo una piena neutralità carbonica; l’emergere di molti segnali che governi, imprese, consumatori considerano la minaccia climatica molto più seriamente che in passato; tutti questi elementi hanno portato ad assegnare alla COP26 di Glasgow, presieduta dalla Gran Bretagna con copresidenza italiana, grandi speranze. Due in particolare le aspettative.
In primo luogo, che i paesi che si sono detti impegnati a conseguire l’obiettivo net-zero li traducano effettivamente in decisioni concrete, ovvero in provvedimenti legislativi. Per raggiungere l’obiettivo, bisognerebbe infatti ridurre le emissioni entro il 2030 del 45% (rispetto al 2010) e successivamente azzerarle.
Solo 113 paesi su 191 hanno finora presentato i loro Nationally Determined Contribution
In secondo luogo, che a tal fine i paesi firmatari di Parigi aggiornino i loro piani nazionali in linea con gli obiettivi allora sottoscritti. All’inizio di ottobre, come riportato da Enzo Di Giulio su questo Blog, 113 paesi su 191 (responsabili del 49% delle emissioni globali) avevano presentato i loro piani aggiornati, con la previsione di una riduzione delle loro emissioni entro il 2030 del 12%.
Tenendo però conto anche dei restanti 78 paesi (ovvero del 51% delle emissioni globali) le emissioni sono previste segnare una crescita del 16%. La speranza è in conclusione che i paesi ritardatari (tra cui la determinante Cina) siano in grado di allinearsi agli obiettivi che si sono dati gli altri paesi.
“Parigi – conclude Di Giulio – non ancora riesce a cambiare la pendenza della curva”. Correggerla è divenuto, d’altra parte, sempre più complesso con costi marginali progressivamente crescenti, non essendo poi sufficiente puntare solo su rinnovabili ed efficienza.
Ciò premesso, la domanda è se le aspettative che si sono alimentate verso la COP26 siano o meno realistiche. Se in sostanza essa segnerà o meno un effettivo cambio di passo ed un punto di svolta decisivo nell’azione dei singoli stati.
Le aspettative su COP26 sono realistiche?
Temo ahimè di no. Per una dirimente causa: la gravissima crisi energetica che sta flagellando il mondo intero e della quale non sembra esservi piena contezza. La sua gravità – scarsità dell’offerta di energia, specie di metano; esplosione dei suoi prezzi che hanno contagiato quelli dell’energia elettrica; rischi che ne risenta la ripresa economica – hanno spinto la generalità dei paesi ad adottare decisioni opposte a quelle coerenti con gli obiettivi di contenimento del riscaldamento.
È sperabile che esse si dimostrino temporanee, in funzione della durata della crisi, ma resta nondimeno il fatto che i governi hanno rinnegato con immediatezza le posizioni che avevano sin lì sostenuto. Così è accaduto in Cina con l’intenzione espressa dal Presidente cinese Xi Jinping di rivedere i piani di riduzione dell’impiego del carbone ed tempi e road map per conseguire una piena neutralità carbonica entro il 2060.
Così è accaduto in Gran Bretagna che non ha esitato per sopperire alla bassa ventosità e scarsità di metano a rimettere in moto vecchie centrali a carbone. Idem in Germania che ha accresciuto i suoi impieghi di carbone del 30%-40%.
Così è accaduto negli Stati Uniti dove il Presidente Joe Biden è stato costretto dal Congresso a dimezzare le immani risorse previste nel provvedimento “Building Back Better” sacrificando la maggior parte del “Clean Electricity Performance Program”.
Per affrontare la crisi energetica, paesi come Cina, Gran Bretagna, Germania e Stati Uniti stanno facendo ricorso al carbone
L’elenco potrebbe continuare. Tutti i governi, tra cui quello italiano, sono poi intervenuti ad abbattere con soldi pubblici gli aumenti delle bollette dell’elettricità o del metano, rendendo oltremodo inverosimile la possibilità da tutti auspicata di innalzare in modo consistente i livelli del carbon price.
Insomma: primum vivere deinde philosofari. I rappresentanti di tutti i paesi si presenteranno, chi più chi meno, a Glasgow a mani vuote, anche se è facile prevedere che stancamente ribadiranno i loro impegni magari appena disattesi.
Se la partecipazione dei leader del mondo a questi vertici è sintomo della loro importanza, l’annunciata assenza dei premier della Russia, Cina, India, Arabia Saudita, pur compensata dall’annunciata presenza della Regina Elisabetta, attenua di molto la rilevanza della COP26, con risultati che è verranno comunque ufficialmente enfatizzati come ‘storici’.
I leader di Russia, Cina, India, Arabia Saudita non si presenteranno a Glasgow
Un rito che attrarrà tuttavia anche questa volta una numerosissima la platea di partecipanti cresciuta nel tempo raggiungendo nel 2019 alla COP 25 di Madrid 26.000 accrediti per una durata di 12 giorni. Nonostante la possibilità di presenziarvi anche on-line, quest’anno si prevedono non meno di 30.000 persone, sempre per 12 giorni (e un non trascurabile rischio contagio).
Passi per i paesi emergenti che ritengono che una presenza fisica consenta di far sentire la loro voce meglio che con la piattaforma Zoom. Quel che accadde in passato quando i paesi più vulnerabili (come isole) riuscirono a mettere al centro delle giornate i rischi drammatici che andavano correndo. Che questo avvenga anche per i paesi avanzati appare tuttavia poco comprensibile.
Una riflessione infine che già sollevammo all’epoca di Katowice. Che le COP, oltre alle bottigliette di plastica e ai forse inevitabili voli aerei (a meno che non si partecipi da casa), si siano trasformate in una passerella gioiosa con balli e concerti, strette di mano e sorrisi compiaciuti, risulta grottesco e ipocrita a fronte della gravità della situazione che lì si va denunciando.
Alberto Clô è direttore della rivista Energia
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Foto: Pixabay
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