12 Ottobre 2021

“Cannibalismo energetico” ed “effetto Regina Rossa”: scacco matto alla decarbonizzazione?

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La discussione sulla transizione energetica sta trascurando due fenomeni cruciali che ne minano la fattibilità nei tempi e modi stabiliti: il “cannibalismo energetico” e “l’effetto Regina Rossa”. Investire in infrastrutture rinnovabili in un’economia alimentata da un’energia fossile sempre più carbon intensive significa inevitabilmente alzare il livello di emissioni nel breve periodo col rischio di sforare il carbon budget prima del 2050. Ogni anno dobbiamo fissare obiettivi di decarbonizzazione sempre più ambiziosi solo per mantenere il nostro attuale consumo energetico. Ed è proprio questo l’effetto Regina Rossa: “Ora, in questo luogo, come puoi vedere, ci vuole tutta la velocità di cui si dispone se si vuole rimanere nello stesso posto; se si vuole andare da qualche altra parte, si deve correre almeno due volte più veloce di così!”

Ogni anno l’Annual Energy Paper di JP Morgan ci fornisce un affresco realistico e asciutto sul mondo dell’energia. Qualche considerazione: dal 1975 ad oggi si è passati dal 95% all’85% di combustibili fossili sul totale dell’energia consumata. L’efficienza energetica a scala globale migliora di anno in anno, ma i livelli assoluti di emissioni stanno ancora crescendo.

I paesi occidentali fissano obiettivi climatici sempre più alti (Unione Europea in prima fila, guidata dalla Germania, e dietro Biden), ma la miglior performance negli indicatori a livello nazionale è dovuta in gran parte alla delocalizzazione dell’attività industriale in paesi in via di sviluppo, non a una migliore efficienza.

Il costo dell’energia rinnovabile scende sempre più e la loro capacità installata aumenta (non oltre comunque il 5% del totale dei consumi primari) ma i fabbisogni energetici di Asia e America Latina, e le nuove centrali a carbone in Cina, crescono a ordini di grandezza superiori.

La pianificazione e ottimizzazione centralizzata ostacola i processi spontanei dal basso, flessibili e adattivi

Infine, come ho osservato in un precedente post (Il tecno-ottimismo è il profumo della transizione ecologica?, 2 Marzo 2021) e come confermato dai numeri JP Morgan, la maggior parte del settore industriale e tutti i trasporti sono hard-to-abate: i combustibili fossili alimentano praticamente il 100% dei motori mentre la complessiva penetrazione elettrica non supera da molti anni il 20% circa dei consumi energetici finali.

La logica deduzione è che la visione di un futuro low carbon non può basarsi solo sulla sostituzione dei combustibili fossili con altre fonti (sia esso elettrico, idrogeno, biocombustibili o efficienza energetica), ma implica una trasformazione profonda dei processi produttivi necessariamente associata a un cambio nelle pratiche di consumo.

Spingere solo sull’innovazione tecnologica significa non tenere conto delle grandezze e scale in gioco. La transizione energetica necessariamente avviene su tempi lunghi, e su tali scale ci sono due fenomeni che sono passati inosservati nella discussione climatica: il “cannibalismo energetico” e “l’effetto Regina Rossa”.

Investire in tecnologie low carbon in un’economia alimentata da energia fossile significa inevitabilmente alzare il livello di emissioni nel breve periodo. Costruire una nuova infrastruttura elettrica e rinnovabile, dalla generazione primaria all’utente finale, comporta un notevole accumulo di embodied energy nel sistema economico (detta anche “energia grigia”): l’energia associata con la produzione di qualsiasi bene o servizio, ‘incorporata’ nell’oggetto stesso.

Cannibalismo energetico: investire in infrastrutture rinnovabili in un’economia alimentata da energia fossile significa inevitabilmente alzare il livello di emissioni nel breve periodo

Centrali, edifici, mezzi di trasporto e industrie devono essere sostituite da analoghe verdi e si richiede un certo tempo di carbon pay back affinché l’investimento generi il risparmio di emissioni sperato: il tempo necessario per avere un bilancio negativo di CO2, al netto delle emissioni associate all’embodied energy fossile della nuova struttura verde.

Breve periodo per una transizione energetica può anche significare decadi, arrivando al 2050 ancora in piena fase di investimento (e associato aumento di emissioni) e col rischio di sforare il carbon budget limite per star sotto la soglia simbolica di 2°C di riscaldamento globale.

Allo stesso tempo, il sistema energetico deve continuare a sostenere le normali attività quotidiane, anzi dobbiamo avere una crescita economica, e quindi energetica (il decoupling a livello globale non è pervenuto come attesta il rapporto Decoupling debunked dello European Environmental Bureau), soddisfacente per evitare problemi finanziari e sociali.

Per cui l’embodied energy in nuove infrastrutture alternative deve essere fornita in surplus, pena la “cannibalizzazione” dell’attuale fornitura energetica. Paradossalmente, invece di ridurre la loro attività, i produttori di energia fossile devono aumentare l’output complessivo per mantenere in funzionamento l’intera società, fintanto che l’investimento verde non cominci a generare energia netta e un bilancio di carbonio negativo.

Tale questione va poi inserita in un contesto più ampio, quello della performance dei settori estrattivi. Considerando il caso del petrolio (ma verosimilmente applicabile anche a carbone e gas) il barile medio diventerà progressivamente più intensivo in termini di emissioni. E il petrolio nel 2020 ancora rappresenta il 33% dell’energia primaria mondiale che consumiamo (dato British Petroleum).

Secondo un nostro recente studio, l’incremento oscilla nell’intervallo 6-26% dentro un ordine temporale di 40 anni, in base agli scenari analizzati. Una quantità di CO2 paragonabile a interi settori economici dell’UE. Più che un abbandono del petrolio e una transizione verso le rinnovabili, globalmente stiamo osservando due fenomeni ben più rilevanti da una prospettiva climatica: il progressivo esaurimento dei pozzi petroliferi convenzionali e una vera e propria “transizione fossile” interna al settore, da fonti convenzionali a non-convenzionali.

Più che da fossili a rinnovabili, la vera transizione in atto è all’interno delle fossili: da fonti convenzionali a non-convenzionali (e più carbon intensive)

I due processi sono inevitabilmente relazionati: se la produzione convenzionale è in plateau da circa il 2005, una varietà di nuovi petroli come il tight oil statunitense (che rappresenta il 60% della nuova capacità produttiva dal 2005 ad oggi), le sabbie bituminose, petroli ultra-pesanti o ultra-profondi stanno colmando il vuoto produttivo. Per sostenere la produttività dei vecchi pozzi si utilizzano tecniche di Enhanced Oil Recovery (EOR) di diversa complessità, con la conseguenza di investire più energia e acqua per mantenere la riserva in pressione e aumentare le emissioni per estrarre la medesima quantità di greggio.

Per quanto riguarda la transizione al non-convenzionale, basandoci sul lavoro di Adam Brandt dell’Università di Stanford (Oil-Climate Index), sappiamo che il petrolio non è omogeneo in tutto il mondo: i crudi pesanti e le sabbie bituminose, canadesi e venezuelane, sono altamente carbon intensive. Richiedono più fattori di produzione per essere estratti con profitto ed emettono più CO2, fornendo al contempo una composizione relativa di prodotti finali differente.

L’innovazione tecnologica può venirci parzialmente in aiuto, ma nel lungo periodo ha il merito (o demerito?) di rendere accessibili risorse prima inutilizzabili (come il fracking statunitense), catalizzando un globale incremento di emissioni dovuto al maggiore flusso produttivo che compensa ogni possibile guadagno percentuale di efficienza.

Fonte: Manfroni 2021

Gli impatti combinati di questi due fattori sfidano la plausibilità degli attuali scenari di transizione e le possibilità di successo nel mitigare gli effetti del cambiamento climatico. Ogni anno dobbiamo fissare obiettivi di decarbonizzazione sempre più ambiziosi solo per mantenere il nostro attuale consumo energetico. Ed è proprio questo l’effetto Regina Rossa:

“Ora, in questo luogo, come puoi vedere, ci vuole tutta la velocità di cui si dispone se si vuole rimanere nello stesso posto; se si vuole andare da qualche altra parte, si deve correre almeno due volte più veloce di così!” (Lewis Carroll, Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò, 1871).

La transizione ecologica rientra nella categoria dei cosiddetti wicked problems: “problemi difficili o impossibili da risolvere a causa di requisiti (e informazione, NdA) incompleti, contradditori e mutevoli che sono spesso difficili da identificare.”

Constantly we are collapsing. Constantly we are fixing – Vaclav Smil

La neutralità carbonica al 2030 è “una favola”, e prendere decisioni con questo obiettivo potrebbe minare importanti cambiamenti futuri. D’altro canto, la percezione di scarsezza di tempo e la gravità del problema legittimano l’adozione un approccio tecnico-emergenziale, guidato dall’alto, oltre a generare ansia.

Ma la transizione ecologica non può essere “risolta”, dal momento che è un processo continuo a cui tutti prendiamo parte continuamente su più piani e non ha un limite determinato. Citando Vaclav Smil, Constantly we are collapsing. Constantly we are fixing.”

Nessun esperto sa quale sia la direzione giusta e di conseguenza non può guidarla con volontà politica e capacità tecnica. Al contrario, la pianificazione e ottimizzazione centralizzata ostacola i processi spontanei dal basso, flessibili e adattivi, che sono a mio modo di vedere, un approccio più appropriato quando i fatti sono incerti, i valori in discussione, gli interessi elevati e le decisioni urgenti.


Michele Manfroni è PhD student presso ICTA-UAB


Sulla velocità della transizione energetica leggi anche:
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