Le materie prime sono un elemento cruciale della transizione energetica, ma quanto sono affidabili le catene di approvvigionamento? Buona parte delle risorse di cui necessita l’industria della transizione è situata in paesi che presentano un elevato Indice del Nazionalismo delle Risorse. Con l’impennata delle commodities e le difficoltà causate dalla pandemia aumenta anche il nazionalismo delle risorse cioè la tendenza dei governi ad affermare il controllo, per ragioni strategiche ed economiche, sulle risorse naturali situate sul loro territorio.
Col suo recente report The Role of Critical Minerals in Clean Energy Transitions, la IEA mostra quanto cruciali siano le problematiche connesse ai minerali critici per la transizione verso la neutralità carbonica, ivi compresi gli aspetti della sicurezza energetica.
Il costo delle materie prime condiziona direttamente la riuscita della transizione e le attuali impennate delle commodities ne sono riprova. Si consideri, ad esempio, che oltre la metà dei costi totali delle batterie per le auto elettriche è costituito dalla materia prima oppure che l’aumento dei costi delle materie prime sta riducendo i margini operativi dei principali produttori di turbine eoliche.
Altrettanto cruciale quindi interrogarsi su quanto affidabili siano le catene di approvvigionamento su cui la IEA fonda la transizione ecologica dei paesi occidentali. Con i prezzi delle materie prime che salgono a causa dell’offerta limitata e della forte domanda, l’idea di molte nazioni produttrici di tassare le riserve minerarie di metalli critici per accrescere le entrate statali migliorando – magari – l’assistenza sociosanitaria si sta rivelando una tentazione a cui è difficile resistere.
È il cosiddetto il nazionalismo delle risorse cioè la tendenza dei governi ad affermare il controllo, per ragioni strategiche ed economiche, sulle risorse naturali situate sul loro territorio. Tanto che è stato identificato come uno dei rischi principali per gli investitori nel settore delle risorse naturali.
Crescono le pressioni delle popolazioni locali sui governi anche grazie ai social media
I governi poveri ma ricchi di risorse sono sempre più sotto pressione dalle richieste locali di migliori condizioni di vita, veicolate e amplificate dai social media che le persone usano per sfogare la loro frustrazione e confrontare i loro standard di vita con le loro controparti regionali. Gli effetti economici del Covid hanno esacerbato questa tendenza che è destinata nei prossimi due anni ad aumentare drasticamente il suo impatto.
Le compagnie minerarie sono infatti obiettivi facili perché l’estrazione mineraria è un investimento a lungo termine ed ad alta intensità di capitale e le società minerarie sono alla mercé dei paesi in cui operano.
I metodi utilizzati dai governi contro le compagnie minerarie sono molteplici: codici minerari rielaborati, applicazione di tasse più elevate o verifiche sui requisiti ambientali, talvolta applicando restrizioni alle esportazioni, come in Indonesia o nella Repubblica Democratica del Congo, o introducendo una maggiore percentuale di azionariato statale delle miniere, come in Mongolia. Può verificarsi anche il sequestro totale dei beni – solitamente argomentando ingiustizie storiche (spesso reali) o di misfatti ambientali o clausole contrattuali opache – e può accadere che non sia offerta alcuna compensazione e non sia possibile nessun ricorso.
Buona parte delle risorse di cui necessita l’industria della transizione è di fatto situata in paesi che presentano un elevato Resource Nationalism Index (RNI), un indice elaborato dalla società di consulenza sui rischi Verisk Maplecroft che tiene traccia degli incidenti di espropriazione diretta e nazionalizzazione.
Il Resource Nationalism Index: un indice da tenere sempre più sott’occhio
L’Indice del Nazionalismo delle Risorse del 2021 (Resource Nationalism Index 2021) certifica come 66 paesi su 198 nell’indice, ovvero il 33%, hanno rafforzato la presa sulla ricchezza delle risorse dal 2017. I punteggi più alti vanno ai casi in cui non è stato dato alcun risarcimento o non è stato concesso un risarcimento adeguato o in cui un governo non ha pagato un premio a una società a seguito di arbitrato.
Il 33%, hanno rafforzato la presa sulla ricchezza delle risorse dal 2017: l’America Latina è la regione a più alto rischio
L’America Latina è la regione in cui il rischio di espropriazione e aumento delle tasse cresce maggiormente, per ragioni ideologiche, come in Messico e in Argentina, o maggiormente legate alle pressioni che arrivano dalla società civile e dalle comunità che ospitano nei loro territori le miniere, come in Colombia e in Cile.
In Cile l’imminente riforma costituzionale, oltre a vietare l’estrazione mineraria nelle aree glaciali e peri-glaciali, modificherà l’attuale legislazione sui diritti dell’acqua sancendolo come bene nazionale per uso pubblico, il che prevede la revisione dei diritti di proprietà e l’aumento delle sanzioni per l’uso improprio e una maggior voce in capitolo delle comunità indigene.
Indubbiamente una buona notizia, ma che avrà inevitabili ripercussioni su industrie “idrovore” come quelle del rame e del litio – di cui il paese è rispettivamente primo e secondo produttore globale – che vedranno crescere nel prossimo decennio oneri normativi e costi operativi.
Sempre in Cile, spaventa una proposta di legge che, se approvata dal Senato, imporrebbe una royalty fino al 75% sulle vendite di rame, se il suo prezzo è superiore a 4 $/lbs com’è attualmente. Goldman Sachs ha affermato che la nuova legge potrebbe mettere a rischio 1 milione di tonnellate di fornitura annuale di rame, pari a circa il 4% della produzione globale.
Nel vicino Perù, secondo solo al Cile in termini di produzione di rame, si è recentemente insediata una nuova amministrazione che ha tra i suoi obbiettivi assorbire fino al 70% dei profitti delle compagnie minerarie e di introdurre nuove royalties sulle vendite di minerali. Questo mentre nel paese ci sono in cantiere 46 progetti minerari che rappresentano un potenziale investimento di 56 miliardi di dollari.
L’Argentina, che ospita un terzo del “triangolo del litio“, sta cercando di uscire da una crisi economica iniziata tre anni fa ed in questa chiave va letta la pianificazione di entrare nell’industria estrattiva del litio da parte di YPF, la compagnia energetica di Stato.
Il Messico ha visto il più grande aumento del rischio tra i 198 paesi valutati dalla RNI, guidato dall’agenda nazionalista del presidente López Obrador che utilizza argomenti comunitari e ambientali come giustificazione per un maggiore coinvolgimento dello stato nel settore estrattivo.
Più confusa ma altrettanto preoccupante la situazione del Brasile dove l’alternativa all’attuale presidente Bolsonaro, non immune da scelte talora contraddittorie, sembra essere ugualmente preoccupante: il potenziale ritorno del populismo dell’ex presidente Lula Da Silva.
La querelle RD Congo-Cina è riprova del potere negoziale di cui godono i paesi ricchi dei minerali per la transizione
Anche in Africa le spinte nazionalistiche hanno ragioni diverse. In Liberia e Mauritania l’interventismo è guidato da carenze strutturali di governance e non da veri e propri sentimenti nazionalisti. In Mali, il problema sono le preoccupazioni politiche del governo di transizione, mentre in Guinea c’è la necessità di massimizzare le entrate dalla bauxite: entrambi i paesi stanno cercando di rivedere i contratti esistenti.
La Repubblica Democratica del Congo ha designato il cobalto, di cui è il principale fornitore mondiale, come metallo strategico e ha aumentato le royalty sulla produzione di 5 volte, dal 2% al 10%.
In maggio, la RDC ha inoltre vietato l’esportazione di concentrato di rame e di cobalto, lo stesso mese in cui l’enorme miniera di rame Kamoa-Kakula di Ivanhoe Mines ha raggiunto la produzione commerciale destinata a due aziende cinesi (Zijin Mining Group e Citic Metal).
Una querelle che interessa i due attori che dominano le estremità della catena del valore del cobalto. La Cina ha infatti enormi interessi nella RDC e acquista quasi il 100% del suo cobalto. Pechino ha chiesto alle compagnie cinesi, le cui attività erano state sospese dal governo congolese per aver infranto le leggi e gli standard ambientali, di obbedire alle richieste governative, di cessare di operare e di lasciare il Paese.
Un ordine quantomeno raro per la Cina che evidenzia tutta la rilvenza della materia prima in questione ed il potere negoziale della nazione africana che mira a rinegoziare gli accordi sulle “infrastrutture per i minerali” con Pechino.
In seguito al tentativo del paese di liquidare le miniere di rame di Konkola (KCM), lo Zambia è per Verisk Maplecroft una delle nazioni a più alto rischio di nazionalismo delle risorse. Lo scorso febbraio, un tribunale del paese ha respinto una mozione della società mineraria indiana Vedanta Resources volta a impedire a un liquidatore di dividere la sua controllata KCM.
L’industria rimane focalizzata sull’esplorazione a basso rischio
Questo quadro rende le prospettive normative a lungo termine per le imprese minerarie ed energetiche più incerte che mai e costituisce un freno ai necessari investimenti per incrementare la produzione ai target auspicati dalla IEA che di recente ha osservato “sono ben al di sotto di ciò che è necessario per supportare una distribuzione accelerata” della tecnologia dell’energia pulita.
Negli ultimi anni, sulla base di una ricerca di S&P Global, si è riscontrato che l’industria ha spostato la sua attenzione dall’esplorazione delle risorse in fase iniziale (greenfield) alle risorse avanzate e dei siti minerari noti (brownfield). Le compagnie minerarie minori investono su risorse comprovate, mentre le grandi compagnie si concentrano sulla massimizzazione del valore nelle loro miniere esistenti.
“I progetti oggi in tutto il mondo, geologicamente, sono più difficili“, ha affermato Richard Adkerson, presidente di Freeport-McMoRan. Le mineralizzazioni con grandi cubaggi e di basso tenore richiedono enormi investimenti in infrastrutture ed attrezzature per l’arricchimento.
Questa avversione al rischio e la conseguente mancanza dell’esplorazione di base avrà impatti negativi sulla produzione futura ed è direttamente correlata con l’aumento dei rischi legati al nazionalismo delle risorse ed ai conseguenti impatti che le compagnie possono avere sui loro bilanci a seguito della perdita o svalutazione dei loro asset.
Pare evidente come i problemi strutturali dell’offerta sono probabilmente il motore più potente dell’aumento dei prezzi delle materie prime e conseguentemente il pericolo maggiore di vanificare la previsione temporale teorizzata dalla IEA. Qualsiasi carenza, ha avvertito l’agenzia, potrebbe ritardare la transizione verso un’economia a zero emissioni di carbonio al fine di limitare gli effetti di cambiamenti climatici catastrofici.
Giovanni Brussato è ingegnere minerario e autore del volume Energia verde? Prepariamoci a scavare, ed. Montaonda
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Foto: Wikimedia
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