23 Novembre 2021

Disperato improvvido stomp

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La richiesta del Presidente Biden a Cina, Giappone, India, Corea del Sud di attingere alle loro scorte petrolifere per ridurre i prezzi del petrolio è una misura improvvida, inutile, controproducente. Per 4 ragioni. A spaventare l’inquilino della Casa Bianca, trovatosi privo del paracadute dello shale oil, sono la crescita dell’inflazione e dei prezzi della benzina, il cui aumento gli elettori sono soliti far pagare caro. Ma il mercato non conosce un’insufficiente offerta petrolifera, mentre le azioni intraprese dal il Presidente degli Stati Uniti per farvi fronte mostrano che in campo energetico ha poche idee, e per lo più confuse.

‘Disperato’ è il termine utilizzato da Phil Flynn giornalista della Fox per commentare la richiesta di Joe Biden a Cina, Giappone, India, Corea del Sud (non è dato sapere la ragione della scelta di questi paesi) di attingere alle loro scorte petrolifere per ridurre i prezzi del petrolio.

Una misura improvvida, inutile, controproducente. Per più ragioni.

A che pro sfidare l’Opec+?

Uno: il rischio di avviare uno scontro con l’insieme dei paesi che aderiscono all’alleanza Opec Plus, che un attacco esterno compatterebbe ancor di più nella già elevata compliance dei suoi paesi membri.

Due: perché per tanti barili prelevati dalle scorte altrettanti verrebbero prodotti in meno dalla coalizione col risultato che la produzione globale non aumenterebbe ma, bene che vada, rimarrebbe costante (senza considerare i complessi problemi tecnici sulla qualità dei greggi e prodotti).

Tre: l’andamento dei prezzi non dipenderà dalla mossa di Biden, ma dai fondamentali del mercato a partire dall’andamento della domanda, tornata a livelli prossimi a quelli pre-pandemia, con forti elementi però di incertezza legati all’andamento del Covid, al permanere di misure restrittive, alla ripresa economica. Variabili che portano a non escludere la possibilità che la domanda si riduca nei prossimi mesi.

Quattro: che il prelievo dalle scorte possa produrre un effetto opposto a quello atteso: ovvero un rialzo dei prezzi, come sostiene Goldman Sachs.

Il mercato non conosce un’insufficiente offerta

L’annuncio della società che gestisce le scorte cinesi, la National Food and Strategic Reserves Administration, di voler por mano alle scorte, ha avuto un limitato impatto sui prezzi. Accentuando, nel caso del Brent Dated, la flessione registrata da inizio novembre da 85 a 80 dollari al barile, mentre la curva dei futures a gennaio è decrescente, segno di un’aspettativa di abbondanza dell’offerta.

Inflazione e prezzi della benzina spaventano Biden

La mossa di Biden ha due motivazioni. Da un lato, la crescita del tasso di inflazione salita a ottobre al 6,2% rispetto al 4,4% di settembre; dall’altro, l’aumento dei prezzi della benzina, cui l’elettore americano presta una enorme attenzione, con rischi che ne tenga conto nelle elezioni di mid-term del prossimo anno.

Per ridurre i prezzi Biden le ha tentate tutte, ad iniziare dalla forte pressione su Riad e Mosca perché l’Opec Plus aumentasse la produzione di 600-700 mila bbl/g rispetto ai 400 mila bbl/g che si è impegnata a immettere sul mercato ogni mese a partire da luglio. Impegno rispettato nonostante alcuni paesi (Nigeria, Angola, Malesia) abbiano ridotto sensibilmente, per ragioni tecniche, la loro produzione.

Il mercato non conosce, in conclusione, un’insufficiente offerta.

Se il paracadute dello shale oil non si apre

Atra cosa da rammentare è che agli Stati Uniti è venuto meno il paracadute dello shale oil che un tempo reagiva in tempo reale ad ogni aumento dei prezzi riducendoli a danno dei produttori mediorientali e nordafricani.

Lo tsunami petrolifero dello scorso anno (crollo della domanda, prezzi prossimi allo zero se non negativi) ha fiaccato le compagnie petrolifere ad iniziare da quelle minori americane, cui si deve la rivoluzione dello shale oil.

Cresciute sul debito, attente più ai volumi che al valore, non sono ora in grado di riprendere gli investimenti, essendo costrette ad una severa disciplina finanziaria alla pari delle oil majors.

Poche ma confuse idee

Tornando a Biden, non si comprendono della sua confusa politica energetica alcune cose.

Uno: perché trovatosi a Roma con i leader del mondo nel G20 non abbia esposto loro le sue preoccupazioni sull’impatto sulla ripresa economica della crescita dei prezzi del petrolio, peraltro di molto inferiore a quella osservata per il metano e il carbone.

Due: perché anziché chiedere ad altri paesi, per lo più emergenti, di togliergli le castagne dal fuoco non abbia deciso di attingere innanzi tutto all’abbondante Strategic Petroleum Reserve (sui 600 milioni di barili) che gli Stati Uniti detengono in Louisiana e nel Texas.

Tre: perché Biden sia preoccupato delle dinamiche di breve periodo senza prestare attenzione a quelle di medio-lungo, quando si avvertiranno gli effetti negativi (che già stiamo vivendo per il metano) del crollo degli investimenti upstream sull’offerta di petrolio, con prezzi che potrebbero tornare a tre cifre, come conoscemmo nel 2008 alla vigilia, forse non a caso, del grande crash finanziario.

La botte (di petrolio) piena e l’America (green) ubriaca

Un crollo a cui la stessa amministrazione americana sta contribuendo ponendo sempre maggiori ostacoli all’attività dell’industria petrolifera nazionale.

Voler far conto su una offerta abbondante e bassi prezzi del petrolio impedendone lo sviluppo interno e chiedendo ad altri paesi di provvedervi è politica contradditoria che si ritorcerà sull’economia americana.


Alberto Clô è direttore della rivista Energia


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Foto: Unsplash

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