2 Novembre 2021

G20: non c’è azione senza sanzione

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Che valutazione dare degli esiti del G20 di Roma relativamente alla questione climatica? Al giudizio positivo del nostro Presidente del Consiglio Mario Draghi, che ha parlato di ‘successo’, si è contrapposto l’ambientalismo militante che ha lamentato il poco che si è ottenuto. A entrambi potrebbe ricordarsi che il G20 ha espresso come sempre mere intenzioni che andranno misurate sugli effettivi comportamenti e risultati. Più che interrogarsi sul successo o meno dell’attuale consesso, invero misurabile soltanto a posteriori, sarebbe utile che si riflettesse sulle ragioni dei passati fallimenti, così da correggere meccanismi e ambiti di intervento reiterati da ormai trent’anni.

L’Accordo di Parigi del 2015 che il Presidente francese Francois Hollande indicò come una “grande rivoluzione per il Pianeta” e che tutti definirono ‘storico’ a iniziare dagli ambientalisti, non sortì alcun risultato.

L’aspetto dirimente da cui non si può prescindere è che per il mancato rispetto degli impegni che gli Stati assumono in questi vertici non è prevista alcuna sanzione.

Aspetto lucidamente analizzato nel 2008 da Jean Tirole, premio Nobel dell’economia, in un articolo in cui anticipava il fallimentare esito della COP15 di Copenaghen del 2009 che conobbe un drammatico scontro con Barak Obama che fuggì notte tempo per non sottoscrivere il testo conclusivo.

Non c’è azione senza sanzione

Vale la pena riportare il passaggio principale dell’articolo di Tirole:

gli ambiziosi annunci di abbattimento da parte di governi e organizzazioni sovranazionali servono prevalentemente a placare la pubblica opinione ed evitare pressioni internazionali ma ottengono poco in termini di promozione degli obiettivi prestabiliti [perché, ndr] gli interessi nazionali sono più indicativi delle facili promesse […]

L’ottimismo degli esperti i quali ritengono che i paesi si assumeranno spontaneamente le rispettive responsabilità attraverso azioni unilaterali sembra ingiustificato [data, ndr] la tendenza alla difesa degli interessi nazionali. In assenza di sanzioni contro i paesi che firmano un accordo ma non lo rispettano e contro coloro che restano fuori dell’accordo, le promesse si riveleranno quello che realmente sono: parole al vento(da Economia politica del riscaldamento globale, Rivista di Politica Economica, 2008).

E così è accaduto il più delle volte. Sostenere, come è stato detto, che il G20 di Roma ha segnato per la prima volta il pieno riconoscimento da parte della politica delle indicazioni e degli ammonimenti formulati dalla scienza ufficiale, come espressa dall’IPCC, significa non aver memoria dei passati vertici internazionali. Specie di due.

In primo luogo, la Conferenza delle Nazioni Unite di Stoccolma del 1972 (circa mezzo secolo fa) che portò all’approvazione per acclamazione della ‘Dichiarazione di Stoccolma’ che fissava in 26 principi l’insieme di diritti e responsabilità degli Stati nella protezione dell’ambiente.

La soglia di 1,5 °C era già stata concordata nel 1988

In secondo luogo, e soprattutto, la Conferenza di Toronto del 1988 sui cambiamenti climatici che fece proprie le risultanze del convegno scientifico di Villach del 1985 – secondo cui: “in the first half of the next century a rise of global mean temperature […] greater than any in man’s history in the range of 1,5°- 4,5%” – fissando l’obiettivo quantitativo e temporale di “ridurre le emissioni approssimativamente del 20% sul livello del 1988 entro il 2005”.

Quel non è avvenuto, con le emissioni aumentate da allora di oltre il 70% e che solo fenomeni estranei alla politica come la Grande Recessione del 2008 e la pandemia da coronavirus del 2020 sono stati in grado di ridurre, pur temporaneamente, giacché già quest’anno sono risalite oltre i livelli precedenti.

Che a distanza di oltre tre decenni il G20 di Roma abbia ribadito le risultanze di Toronto dà conto della poca strada che si è percorsa. Anziché alzare l’asticella del contenimento del riscaldamento entro 1,5°C (e non ‘almeno sotto i 2°C’ come a Parigi), senza indicare alcun orizzonte temporale entro cui ottenerla, sarebbe stato utile che si riflettesse sulle ragioni dei passati fallimenti.

Ragioni che attengono, ad avviso di chi scrive:

  •  alle politiche sin qua seguite, tutte incentrate dal lato dell’offerta (3.800 miliardi dal 2005 ad oggi nelle sole rinnovabili) e molto meno dal lato della domanda;
  • allo scarso impegno nella ricerca e sviluppo di nuove indispensabili tecnologie;
  • all’allocazione geografica delle risorse investite.

Intervenire là dove è più efficace

Una decisione certamente positiva a tale riguardo è stata l’impegno preso a Roma di incrementare gli aiuti ai paesi poveri, espresso peraltro già alla COP15 di Copenaghen (100 miliardi di dollari l’anno) senza però ne seguissero fatti concreti. È però positivo che vi sia la consapevolezza che accrescere le risorse e gli interventi nel Sud del mondo sia prioritario per accelerare la riduzione delle emissioni globali.

Il G20 ha preso atto della distanza di interessi che separa il mondo avanzato da quello che ambisce esserlo, in primis Cina e India, eliminando ogni scadenza temporale, ma ribadendo la volontà politica di operare, nei limiti del possibile, per la salvezza del Pianeta. Sulla sincerità di tali dichiarazioni di intenti vi è tuttavia da dubitare se si guarda alle decisioni adottate da molti paesi per fronteggiare l’attuale crisi energetica, cui non è stato fatto un minimo cenno, in direzione opposta agli impegni presi a Roma.

Deludere dicendo le cose come stanno o promettere per poi non mantenere?

Ebbene, al premier Boris Johnson che si è lamentato del poco che si è ottenuto al G20 andrebbe rammentata la decisione delle imprese inglesi di rimettere in esercizio vecchie centrali a carbone per fronteggiare la scarsità di metano. Idem alla Germania che ha aumentato di oltre il 30% i consumi di carbone nel primo semestre dell’anno. Sarà interessante sentire cosa avranno da dire a Glasgow.

In fondo, gli unici ad aver detto ciò che pensano e fatto ciò che dicono sono stati i cinesi che non si sono impegnati sui tempi entro cui conseguire una piena neutralità carbonica secondo le istruzioni del Presidente Xi Jinping che, in risposta alla crisi energetica che attanaglia il paese, ha espresso l’intenzione di rivedere la road map a suo tempo indicata per il 2060.

Che giudizio dare in conclusione del G20 di Roma? Sostanzialmente positivo per aver ribadito che nessun risultato potrà essere raggiunto al di fuori di una sempre più solida cooperazione internazionale; per la capacità di accrescere la consapevolezza collettiva sull’urgenza dell’agire contro il riscaldamento globale; per l’impegno a farlo da parte di un gran numero di paesi, anche se in modo non omogeneo; per l’attenzione prestata al Sud del mondo.

Buone intenzioni che speriamo non si dimostrino per l’ennesima volta ‘parole al vento’. 


Alberto Clô è direttore del trimestrale ENERGIA e del blog RivistaEnergia.it


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