Dai fuochi d’artificio della prima settimana, all’acquitrino della seconda. Come già nel G20 di Roma, la dichiarazione finale di COP26 è un esercizio di equilibrismo, prodotto dell’azione di chi vorrebbe correre di più e di chi non è disposto a farlo. Ma se le parole dicono una cosa (-45% emissioni al 2030), i numeri dicono un’altra terribile e spietata verità: anche considerando i target net zero emissions di lungo periodo, le emissioni scenderanno di appena -5,2%. Passano gli anni e passano le COP, ma la macchina del negoziato sul clima avanza al rallentatore, impantanata nella palude degli interessi opposti, della volontà fragile, dello “shortermismo” antropologico di Sapiens. La COP26 ha mostrato, una volta di più, che il copioso flusso di esternazioni green che tutti ci avvolge e seduce è ancora elemento retorico, nebuloso. La vera sfida sarà trasformare la retorica in progetto, e il progetto in azione. Ma faremo in tempo?
Le aspettative erano basse, va detto. Pochi esperti scommettevano su un risultato positivo. D’altra parte, già nel G20 di Roma si era compreso che tra Ovest ed Est vi era una frattura. Da una parte Europa e Stati Uniti, dall’altra Cina e India: in totale, circa il 60% delle emissioni mondiali. Le prime con target di neutralità carbonica al 2050, le seconde con obiettivi spostati in avanti di dieci e vent’anni.
Di qui l’equilibrismo semantico della dichiarazione finale del G20, quel riferirsi a una neutralità climatica da raggiungere intorno alla metà del secolo. Ma i fondamentali erano davanti agli occhi di tutti, tremendi: Boris Johnson aveva parlato del primo tempo di una partita di calcio al termine del quale, noi – il genere umano – eravamo sotto 5 a 1 (la stessa metafora usata da noi lo scorso anno su questo blog).
Passano gli anni e le COP, ma la macchina del negoziato resta impantanata nella palude dello “shortermismo” antropologico di Sapiens.
Come dargli torto? Passano gli anni e passano le COP, ma la macchina del negoziato sul clima avanza al rallentatore, impantanata nella palude degli interessi opposti, della volontà fragile, dello “shortermismo” antropologico di Sapiens.
Poi la COP 26 è partita e c’è stata la vorticosa girandola della prima settimana: leader influenti e non, democratici o accentratori, populisti o liberali, uomini che hanno fatto la storia del business mondiale, nonché il gotha dell’ambientalismo internazionale, estremo o moderato: tutti insieme, lì a Glasgow, un concentrato unico di potere.
Mancavano solo Putin e Xi Jinping, e questo doveva pur significare qualcosa. E c’erano anche i giovani, con le varie Grete del Nord e del Sud del mondo che dicevano che quelli dentro la sala facevano solo un gran bla bla. Ma la sala era stracolma di potere e di tensione, e di apparente desiderio di combatterla fino in fondo, questa disgraziata battaglia del clima.
India e neutralità climatica al 2070, bicchiere pieno o vuoto?
La ruota della COP girava impetuosa: riunioni, conferenze, negoziati, alleanze: accordi sui fossili e sulle foreste, sul metano e sul carbone. Aveva cominciato Modi, il primo giorno, sparando nell’etere un target di neutralità climatica al 2070 per l’India. Bicchiere pieno o vuoto? Difficile dirlo: 2070 non è 2050, ma è pur qualcosa per un paese di quasi un miliardo e mezzo di persone da sfamare, con il pane e con l’energia.
Modi aveva chiesto in cambio, ai paesi ricchi, addirittura un trilione di dollari. La cifra, pari a 10 volte i stracitati 100 miliardi di dollari, era iperbolica a conferma del fatto che siamo nel campo del negoziato e che qualsiasi richiesta è possibile.
Poi era stata la volta del Global Forest Pledge, un accordo con il quale più di 100 paesi, che ospitano l’85% delle foreste del mondo, si impegnano a fermare la deforestazione entro il 2030, anche rendendo disponibile un ammontare di fondi pari a 20 miliardi di dollari – non proprio una fortuna – tra il 2021 e il 2025. Aveva firmato anche il Brasile, e ciò aveva fatto dire a qualche ambientalista che la firma di Bolsonaro confermava la genericità degli impegni dell’accordo.
E poi il Global Methane Pledge: più di 100 paesi si erano uniti a Europa e Stati Uniti per ridurre le emissioni di metano del 30% entro il 2030, rispetto al 2020. Cina, India e Russia non hanno aderito all’accordo ma, secondo le stime europee, esso è comunque molto importante perché consentirebbe di limitare la crescita della temperatura di 0,2°C.
Global Forest Pledge, Global Methane Pledge, Global Coal to Clean Power Transition Statement
Non poteva mancare, nella COP26, un attacco al più cattivo tra i cattivi, il carbone. Il Global Coal to Clean Power Transition Statement prevede la fine di tutti gli investimenti per nuovi impianti a carbone e l’uscita graduale dal carbone entro il decennio del 2030 per le principali economie, ed entro il decennio del 2040 per gli altri paesi.
Cina, India e Stati Uniti sono fuori dall’accordo, e lo è anche l’Australia che, in modo quasi sprezzante, ha affermato che continuerà a lungo a inondare i mercati mondiali con il suo ottimo carbone.
E tuttavia, nonostante le mancate adesioni di paesi importanti, gli accordi siglati sembravano qualcosa di efficace e tangibile, tanto che, il 4 novembre, il Direttore Esecutivo della IEA Fatih Birol aveva affermato che gli impegni assunti, se rispettati, potevano limitare la crescita della temperatura entro 1,8°C. Ma il 9 novembre, Carbon Action Tracker (CAT) alzava la stima a 2,4°C, ipotizzando anche un 2,7°C nel caso in cui, anziché considerare i pledges dichiarati dai paesi, ci si concentrasse sulle policy reali.
Altre stime seguiranno, nei prossimi giorni, e pian piano capiremo qual è la reale portata di questo accordo. Di certo, il grado e mezzo necessario al Pianeta come il pane, è lontano.
Anche la voce della potente finanza mondiale ha (inizialmente) alimentato le speranze
Nel corso della prima settimana si era elevata, alta, anche la voce della potente finanza mondiale. Era addirittura comparsa la cifra monstre di 130 trilioni di dollari, messi sul tavolo della transizione energetica dalla neonata Glasgow Financial Alliance for Net Zero.
Si parlava di capitali privati, freschi, reali, mica le vaghe promesse dei pubblici aiuti. La cifra era così inverosimile che si stentava a capirne la portata. Per qualche giorno, o forse per qualche ora – per un attimo, per i più smaliziati – era parso che il circuito venoso della transizione energetica fosse rifornito per sempre di denaro fresco, vero, pronto all’uso. Poi tutti, anche i media più ingenui, hanno compreso che l’impegno era generico. Lodevole, certo, ma semplicemente un’esternazione di volontà con la quale 450 istituti finanziari di tutto il mondo si impegnavano a sostenere le net zero emissions.
Infine, nella seconda settimana, è cominciata la discesa verso l’accordo finale. Ed è lì che si è compreso che trascinare l’auto fuori dall’acquitrino era impresa più complessa rispetto ai fuochi d’artificio della prima settimana.
Dai fuochi d’artificio della prima settimana, all’acquitrino della seconda
Come già nel G20 di Roma, la dichiarazione finale è un esercizio di equilibrismo, prodotto dell’azione di chi vorrebbe correre di più (UE e USA) e di chi non è disposto a farlo (Cina, India e Russia). Il tutto elevato a potenza dalla prassi delle COP che esige accordi all’unanimità.
Ed è così che è venuto fuori il testo che oggi tutto il mondo commenta e che può essere così sintetizzato: “riconosciamo che la temperatura non deve aumentare più di 1,5°C e che questo richiede un taglio delle emissioni del 45% nel 2030 rispetto al 2010, ed emissioni nette zero intorno alla metà del secolo. Si fa appello a ridurre gradualmente il carbone e a eliminare sussidi inefficienti ai combustibili fossili”.
Ma più che alle parole della dichiarazione finale, lo sguardo deve essere indirizzato ai numeri. I conti, purtroppo, non tornano. La dichiarazione di Glasgow auspica una riduzione delle emissioni del 45% nel 2030 rispetto al 2010, perché ciò è coerente con 1,5°C. Ma la stessa UNFCCC segnala – nell’ultimo aggiornamento dei target emesso il 4 novembre – che i target di Glasgow portano al +13,7% nel 2030 rispetto al 2010.
Le parole dicono una cosa, i numeri un’altra
E se anche considerassimo solo quelli che sono stati aggiornati, si andrebbe al +5,9%. Sono numeri terribili che ci mettono di fronte alla verità spietata che le emissioni anziché andare giù, di parecchio, vanno su. Finanche la considerazione dei target net zero emissions di lungo periodo non salva dal disastro: le emissioni scenderebbero del 5,2% contro il 45% necessario.
Dunque, c’è un abisso tra l’essere e il dover essere. Come già a Parigi, non vi è coerenza tra il meta target di un grado e mezzo e gli impegni effettivamente presi dai paesi. E poi, come non sottolineare che gli impegni degli Stati più importanti non si sono mossi di una virgola rispetto a quanto dichiarato prima della Conferenza?
Il fatto è così macroscopico da non essere visto. Anche perché il vederlo suggerisce una domanda radicale: che senso ha avuto portare 40.000 persone a Glasgow – la COP più frequentata di sempre – se gli impegni dei paesi, che sono ciò che conta, sono rimasti immutati? Sì, certo, Glasgow ha generato progressi su alcuni aspetti tecnici e gli accordi sulle foreste, il metano e il carbone: ma siamo sicuri che gli abbattimenti che essi contengono siano addizionali rispetto agli impegni assunti dai paesi?
D’altra parte, vi sono altri due segnali importanti che testimoniano che i tempi della rivoluzione green non sono ancora maturi: le scarse adesioni dei paesi al BOGA (Beyond Oil and Gas Alliance) e delle case automobilistiche all’uscita dai motori a combustione interna dal 2040.
La scarsa adesione al BOGA dimostra che gli attori, sia pubblici che privati, non sono ancora pronti
I due accordi rappresentano una vera e propria prova del nove per la transizione energetica, essendo l’uscita dalla produzione di petrolio e gas e l’elettrificazione della mobilità due cardini della transizione. Se, nel momento in cui sono formalmente chiamati all’adesione, gli attori della transizione energetica – tanto quelli pubblici quanto quelli privati – esitano e prendono le distanze, vuol dire che essi non sono ancora pronti.
La COP26 ha mostrato, una volta di più, che il copioso flusso di esternazioni green che tutti ci avvolge e seduce è ancora elemento retorico, nebuloso, materia oscura di un universo che stenta a tradursi in realtà.
C’è ancora molto da fare, soprattutto siamo ancora nella sfera delle dichiarazioni e c’è uno scollamento tra le dichiarazioni e i numeri. Si ha la sensazione che le dichiarazioni – anche l’ultima insita nell’accordo tra Cina e USA – siano un velo retorico steso sopra l’insufficienza degli impegni reali.
La vera sfida sarà trasformare la retorica del grado e mezzo in progetto, e il progetto in azione: al momento mancano sia l’uno che l’altro. Ma faremo in tempo? Qui si entra in un’altra dimensione. Inesplorata.
Nessuno ha mai posseduto il timone della transizione energetica, e forse questa, in ultimo, è la vera ragione delle sabbie mobili di Glasgow.
Enzo Di Giulio è membro del Comitato Scientifico di «Energia»
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Foto: Ralf Schulze
Per l’articolo di Enzo Di Giulio, molto apprezzato sembra che il fattore di riduzione non sia del 5,2%.
La COP 26, ma non ho ancora esaminato la relazione finale, dovrebbe prevedere una riduzione del 45% al 2030 partendo dall’emissione di CO2 dell’anno 2010. La riduzione in 20 anni dovrebbe essere < 2% per anno. Perciò il passo è ancora più lento di quanto citato dall'articolo, a meno di non partire con la riduzione del 5,2% dall'anno 2022 fino al 2030. Bisogna stabilire l'anno di inizio della riduzione, infatti nella quarta fase di ETS (2021-2030) UE stabilì una riduzione del 43% a partire dall'anno 2005 (in quanto l'obbiettivo era di una riduzione del 40% a partire dal 1990).
Un caro saluto.
Sebastiano Serra