18 Novembre 2021

Un tempo si chiamava “sicurezza energetica”

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Di fronte alla crisi del gas, l’Unione Europea si mostra fragile e un po’ miserevole, ostaggio delle scelte di Putin, delle minacce di Lukashenko, delle decisioni della Germania prese senza alcun coordinamento con Bruxelles e incurante dell’impatto sugli altri paesi membri. Nel timore che l’attenzione dei governi si concentri sulle urgenze di oggi più che sulle sue proposte per il domani (leggasi Fit for 55) la Commissione tende a sminuirne l’importanza, dicendo che nulla è cambiato e che ad aprile 2022 si tornerà alla normalità. Così non è, e la Commissione farebbe meglio a tenere gli occhi bene aperti per evitare le trappole di cui è disseminata la strada della transizione energetica.

L’Europa del metano va mostrando ogni giorno in modo sempre più evidente e un po’ miserevole la sua fragilità e debolezza. Ostaggio com’è delle volubili decisioni di Gazprom, suo primo fornitore; delle pulsioni politiche di Putin; delle minacce del dittatore bielorusso Lukashenko di bloccare il metano russo che transita sul suo paese verso Polonia e Germania.

Dopo aver sostenuto che interesse dell’Europa era di ridurre la dipendenza da Mosca si trova ora ad implorare “that Russia could do more to increase gas availability to Europe”.

L’Europa chiede alla Russia una mano mentre cerca di ridurne la dipendenza dalla Russia

È bastato che il 16 novembre scorso il regolatore tedesco sospendesse il processo autorizzativo del Nord Stream 2 perché i prezzi del gas sulla nostra piattaforma PVS schizzassero del 15% tornando ai livelli monstre di 30 doll/Mil. Btu.

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La decisione tedesca, presa all’infuori di un qualsiasi coordinamento con Bruxelles o gli altri paesi che ne sarebbero stati colpiti sembra prescindere da un’amara verità: che l’Europa, e la Germania in primis, abbisogna ancora ampiamente del gas russo in una posizione negoziale però fortemente indebolita con Mosca, su cui vi è da chiedersi se possa ancora ritenersi fornitore commercialmente affidabile come lo fu ai tempi dell’Unione Sovietica.

Che dipenda da Mosca la possibilità di garantire il riscaldamento o l’illuminazione alle centinaia di milioni di cittadini europei suscita rabbia. Per l’incapacità di Bruxelles, ma anche dei governi nazionali, di comprendere la centralità del metano nei fabbisogni energetici europei, delle modalità con cui approvvigionarsi, della necessità di operare per garantire quella che un tempo si chiamava ‘sicurezza energetica’.

Le oscillazioni giornaliere dei prezzi spot del metano dipendono anche solo dalle voci sulle intenzioni di Mosca

Mentre si disquisisce se riconoscere o meno al metano, ma quel che vale anche per il nucleare, le virtù della sostenibilità. Le oscillazioni giornaliere dei prezzi spot del metano dipendono anche solo dalle voci sulle intenzioni di Mosca o sulle istruzioni di Putin a Gazprom, definito dal suo CEO Alexei Miller come un ircocervo: «half a business, and half a state policy arm». Metà impresa e metà strumento della politica.

La decisione del colosso russo di lasciare a secco sino a metà novembre gli 8 stoccaggi che incredibilmente controlla in Europa è espressione di questa seconda metà.

Nel timore che l’attenzione dei governi si concentri sulle urgenze di oggi piuttosto che sulle sue proposte per il domani (leggasi Fit for 55) la Commissione tende a sminuirne l’importanza, dicendo che nulla è cambiato e che ad aprile 2022 si tornerà alla normalità basandosi solo sulla curva dei prezzi futures del gas che per altro va risalendo.

Un comportamento che tiene in scarsa considerazione le dinamiche dei mercati internazionali in relazione all’obiettivo primario di ridurre le emissioni globali. Perché se anche le tensioni attuali dovessero allentarsi nei prossimi mesi con l’uscita dalla stagione invernale, nondimeno le pressioni all’aumento della domanda e quindi dell’offerta di metano non verrebbero affatto meno.

L’esplosione dei suoi prezzi sulla nostra piattaforma PVS da meno di 2 doll/Mil. Btu alla metà del 2020 a punte di 40 all’inizio dello scorso ottobre, è certo dovuta a ragioni congiunturali: forte crescita delle economie, rimbalzo sulla domanda di energia e metano, avverse condizioni metereologiche (bassa ventosità che certo non è irripetibile).

Non solo ragioni congiunturali, il phase out dal carbone metterà pressione sulla domanda di gas negli anni a venire

Ma nondimeno a ragioni strutturali: la necessità di ridurre le emissioni di gas serra nei paesi asiatici. Come? Sostituendo il metano al carbone come tutti a Glasgow hanno auspicato attaccando il rappresentante dell’India che non ha inteso assumere impegni sull’uscita, phase out, del carbone che contribuisce per il 72% alla generazione elettrica del paese.

Trattamento ben diverso da quello riservato agli Stati Uniti che non hanno assunto alcun vincolante impegno sull’uscita dal carbone che contribuisce per il 20% alla complessiva generazione elettrica. Chiara espressione della normale ipocrisia dei paesi ricchi verso quelli poveri che ambiscono non esserlo più.

La chiave di volta è la Cina. Affinché le sue emissioni possano conoscere un picco prima del 2030 è tassativo che il suo consumo di carbone conosca a sua volta un picco qualche anno prima, si stima al 2025. Perché questo possa avvenire si dovrà sostituire il metano al carbone, non essendo le rinnovabili in grado di contribuire in tempi rapidi per le molte migliaia di MW di potenza che verrebbero smantellate.

342 mld mc la domanda incrementale di gas prevista in Cina nei prossimi 30 anni (pari all’intero fabbisogno europeo)

Morale: per conseguire i suoi emission targets la domanda di metano dovrebbe aumentare – come riporta Energy Intelligence – dai 328 miliardi di metri cubi del 2020 a 585 miliardi nel 2030, 600 nel 2035, fino a un massimo di 670 miliardi mc nel 2050. Un aumento in 30 anni di 342 miliardi di mc: quasi pari al consumo attuale dell’intera Europa.

Questo aumento eserciterà di conseguenza un’enorme pressione sull’offerta mondiale di metano. Pressione che rischia di essere insostenibile – con impatti sui suoi prezzi – se gli investimenti minerari nell’industria degli idrocarburi non riprenderanno in modo consistente e coerente. Una possibilità resa oltremodo complessa dalla ritrosia delle grandi compagnie petrolifere a riprendere in modo consistente la spesa in investimenti anche per le sempre maggiori difficoltà di accedere a finanziamenti esterni.

La trappola della transizione

La Glasgow Financial Alliance for Net Zero (Gfanz) formata nella cittadina scozzese da 450 istituzioni finanziarie provenienti da 45 paesi che gestiscono 130 mila miliardi di dollari, si è data l’obiettivo di finanziare la decarbonizzazione verso la neutralità carbonica a metà secolo modificando coerentemente il portafoglio dei propri impieghi allocandoli sempre più verso industrie low-carbon.

In conclusione: se da un lato vi sarebbe urgente necessità di ampliare la capacità estrattiva di metano, dall’altra la pressione della politica e della finanza tende a impedirlo. Una trappola da cui è difficile uscire, anche per il lentissimo procedere delle tecnologie alternative alle fossili.

È a queste dinamiche che l’Europa dovrebbe guardare superando la cecità che non le consente di vedere quel che di grave va accadendo e che sempre più accadrà in futuro.


Alberto Clô è direttore della rivista Energia


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Foto: Pixabay

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