Da una parte, una crisi mondiale delle supply chain dovuta (anche e soprattutto) a ragioni energetiche. Dall’altra, una bolla gigante di debito. Un puzzle di eventi solo apparentemente indipendenti. Le crisi energetiche inducono ad adottare misure che causano debito e inflazione – strumenti di economia virtuale – confidando che l’economia reale riparta. Ma cosa succede se le cause sono dovute a limiti biofisici, dunque strutturali e parzialmente fuori dal controllo umano? La prima delle tre parti che compongono l’analisi presenta le radici biofisiche delle crisi energetiche che stiamo attualmente osservando. In un’economia espansiva, il punto d’incontro tra richiesta e produzione si muove continuamente (o dovrebbe farlo) verso l’alto.
Un preoccupante intreccio di eventi si sta affacciando contemporaneamente all’orizzonte. Da una parte, una crisi mondiale delle supply chain. Carbone e gas stanno scarseggiando contemporaneamente sia in Occidente che in Oriente, mentre già dal 2020 ci sono problemi nel trasporto marittimo e nella produzione di semiconduttori. Manca la manodopera, in particolare nei settori primari e nel manifatturiero.
Particolarmente inquietante è la situazione del Regno Unito, dove la carenza è generalizzata al punto da lasciar vuoti gli scaffali dei supermercati, a causa dell’insufficiente produzione di fertilizzanti e del numero ridotto di autotrasportatori. Addirittura in Cina si è dovuta rallentare la produzione industriale e razionalizzare la corrente elettrica nel settore residenziale.
Dall’altra, una bolla gigante di debito. Negli Stati Uniti, il Congresso ha nuovamente alzato il limite massimo sul debito accumulabile dal governo, mentre sempre in Cina desta preoccupazione il rischio default del gruppo Evergrande (anche se non è un caso isolato, ma piuttosto la punta dell’iceberg di una solida dinamica sottostante), un gigante del mercato immobiliare con più di 300 miliardi di debito sulle spalle, e le possibili ricadute sul sistema finanziario mondiale stile Lehman Brothers.
In tutto questo, il prezzo di gas e carbone sta andando alle stelle, il petrolio seguirà a breve visto il vuoto di investimenti (anche se omicron spaventa e potrebbe far rallentare nuovamente l’economia), e con essi la bolletta elettrica, il cibo e praticamente qualsiasi prodotto industriale. Lo spettro dell’inflazione preoccupa i mercati.
È la scarsità generalizzata di combustibili fossili che crea problemi nelle supply chain globali
Proviamo a districarci in questo puzzle di eventi, solo apparentemente indipendenti. Cominciamo dicendo che non sono i colli di bottiglia nelle varie supply chain che fanno alzare il prezzo della bolletta elettrica e delle commodities (per quanto contribuiscano), ma la scarsità generalizzata di combustibili fossili che crea problemi nelle supply chain globali.
Se per il petrolio questa connessione è o dovrebbe essere di dominio pubblico – pur forse non nella sua portata, essendo ricondotto più al suo ruolo di combustibile che di feedstock – lo è senz’altro meno per il metano che tuttavia ha molteplici usi al di là della generazione elettrica e di combustibile per automotive, tra i più importanti come feedstock per la produzione di idrogeno, per la produzione di ammoniaca e fertilizzanti, per la produzione chimica, petrolchimica, farmaceutica e alimentare.
L’interconnessione può essere poco conosciuta ed evidente, ma esiste. I fertilizzanti sono prodotti quasi esclusivamente a partire dal gas. Per cui alti prezzi del gas si traducono in alti prezzi del cibo, che, vale ricordare, furono la causa scatenante delle Primavere árabe del 2011.
La plastica è onnipresente, dai cellulari computer tablets, al packaging, a prodotti di industrie più pesanti. La plastica può essere prodotta a partire da nafte (petrolio) o gas naturale, dipende dalla scelta del produttore. Se il gas aumenta di prezzo, la domanda di petrolio (specialmente leggero) aumenterà.
La capacità dei settori energetici di garantire una fornitura crescente si è fatta più debole
Dal lato produzione, la capacità dei settori energetici di apportare energia netta all’economia e di garantire una fornitura energetica crescente si è fatta più debole negli ultimi anni, come abbiamo discusso in un precedente articolo. Tra le cause, il naturale depauperamento delle risorse e la transizione verso risorse fossili non convenzionali (tight oil e tight gas), con la conseguente necessità di investire nel tempo quantità maggiori di risorse solo per mantenere un’adeguata produzione giornaliera.
In realtà, l’insufficienza di investimenti nei settori estrattivi è spaventosa, come ci informa l’ultimo report dell’Agenzia di Parigi (World Energy Outlook 2021). Non solo: quando si discute di esaurimento delle risorse, non sono importanti le effettive riserve o la quantità assoluta di risorse estratta (energia lorda, a sinistra nella figura sottostante), ma il flusso giornaliero di energia netta (a destra)in forma utile che si riesce a fornire al sistema economico. Cioè il livello di potenza utile.
Secondo una prospettiva economica biofisica, è il flusso di energia dall’ambiente al sistema economico, coadiuvato da altri importanti fattori (tecnologia, lavoro, capitale), ciò che genera nel lungo periodo crescita e sviluppo economico.
Dal lato consumo, una società multifunzionale e diversificata è dispendiosa da mantenere
Se immaginiamo le società moderne come network di nodi (istituzioni, imprese, organismi internazionali, individui) che scambiano energia, materia e informazione, l’incremento della complessità del network, cioè (i) del numero di nodi; e/o (ii) delle connessioni tra i nodi esistenti; implica un aumento della richiesta energetica per essere realizzato.
Le istituzioni, ad esempio, non sono in sé energy intensive, ma, secondo la prospettiva della Institutional economics e partendo dalla distinzione tra “transaction cost” e “production costs” riconducibile a Douglass C. North (Nobel 1993), creano le condizioni sistemiche affinché si possa generare un alto consumo energetico per creare e mantenere sofisticate strutture economiche e sociali.
Dal lato consumo dunque, una società multifunzionale e diversificata è dispendiosa da mantenere. Lo sviluppo economico e la globalizzazione richiedono più energia per sostenere nel tempo le molteplici “possibilità di vita” e le sofisticate strutture materiali, sociali, istituzionali.
La crescita verde è un ossimoro
La crescita cinese degli ultimi vent’anni ha tirato fuori dalla povertà quasi un miliardo di persone, al prezzo di un incredibile aumento assoluto del consumo di risorse fossili (e relative emissioni). I paesi ricchi consumano più energia pro capite (nonostante transizioni digitali e smart working) di quelli in via di sviluppo, soprattutto se si tengono in conto i costi esternalizzati.
In ultima analisi, non è tanto importante il livello assoluto di potenza utile fornito, quanto quello necessario a garantire il punto d’incontro tra richiesta e produzione. E in un’economia espansiva, sia pro capite sia in termini assoluti, tale punto si muove continuamente (o dovrebbe farlo) verso l’alto: ciò implica che la crescita verde è un ossimoro.
[Continua: Il costo della complessità/2: la retorica verde non ci salverà dalle crisi di oggi e domani]
Michele Manfroni è PhD student presso ICTA-UAB
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