Le crisi energetiche inducono ad adottare misure che causano debito e inflazione – strumenti di economia virtuale – confidando che l’economia reale riparta. Ma cosa succede se le cause sono dovute a limiti biofisici, dunque strutturali e parzialmente fuori dal controllo umano? La seconda parte dell’analisi sulla complessità mostra come la narrativa di una crescita verde non ci salverà dalle crisi che stiamo osservando. Ad ogni incremento di complessità corrisponde un aumento del consumo energetico. Le nuove tecnologie verdi non possono sostituire funzionalmente i fossili, ma potrebbero contribuire ad inasprire le iniquità.
[Segue: Il costo della complessità/1: crisi energetiche, debito e inflazione]
In un’economia espansiva, sia pro capite sia in termini assoluti, il punto d’incontro tra richiesta e produzione si muove continuamente (o dovrebbe farlo) verso l’alto.
Tale dinamica ha però un limite: ad ogni incremento di complessità corrisponde un aumento del consumo energetico, fintanto che la capacità produttiva dei settori energetici è satura e il flusso giornaliero di potenza utile non ha più margine per essere incrementato con ritorni (economici ed energetici) positivi.
Sfortunatamente, incrementare la complessità è necessario per affrontare qualsiasi problema, dal costruire nuove infrastrutture (e.g., tecnologie verdi) per soddisfare nuovi bisogni/aspettative (e.g., “combattere” il Cambiamento Climatico) all’istituire nuove organizzazioni scientifiche (e.g., IPCC) e facilitare la cooperazione internazionale (e.g., le varie COP).
Non c’è alcuna evidenza che possiamo mantenere il nostro attuale sistema economico basandoci esclusivamente su tecnologie verdi
Dulcis in fundo, la retorica verde. Enfatizzare le narrative del peak oil demand e della transizione ecologica non aiuta: gli investitori scappano dai fossili, credendo che non siano più necessari per via dell’imminente e rapida transizione, e il loro mercato in declino, per buttarsi “sul nuovo che avanza”: idrogeno verde, veicoli elettrici o il power-to-X (solare e eolico usati per produrre idrogeno, che poi può essere destinato a molteplici scopi).
Ma non c’è alcuna evidenza che possiamo mantenere il nostro attuale sistema economico basandoci esclusivamente su tecnologie verdi. E se le tecnologie low carbon non fossero sufficientemente remunerative, in termini energetici ed economici, per essere autosufficienti senza sussidi? E, di fondamentale importanza, generare un adeguato gettito, non solo per le aziende produttrici, ma anche per le finanze pubbliche? Che senso ha elettrificare pesantemente, se le rinnovabili non garantiscono adeguata sicurezza energetica e al primo problema bisogna ricorrere ai fossili?
I noti problemi di intermittenza e stabilità di rete fanno sì che, nonostante l’aumento di capacità installata rinnovabile, si ha comunque bisogno di mantenere centrali a carbone o gas per ammortizzare i picchi e compensare i vuoti creati dall’imprevedibilità di sole e vento. Se così fosse, stiamo generando un forte disinvestimento da quelle attività che ci mantengono in vita (giova ricordare che i fossili costituiscono l’85% di tutta l’energia primaria che si consuma nel mondo) per gonfiare una gigante bolla di debito e un’inflazione strutturale, spinta dalla percezione positiva dei mercati e la sopravvalutazione dei titoli verdi.
Le tecnologie low carbon potrebbero quindi contribuire ad inasprire le iniquità
Le tecnologie low carbon potrebbero quindi contribuire ad inasprire le iniquità, favorendo chi ha investito a tempo (intascando i sussidi) ma lasciando alla comunità fonti energetiche inaffidabili e non funzionali, e costringendola a ulteriori investimenti, magari pubblici, in capacità di back-up (gas, per esempio, ma anche carbone). Sono domande a cui dobbiamo decisamente dare risposte, al momento elusive.
Le odierne crisi che stiamo sperimentando non sono riconducibili esclusivamente ad eventi contingenti (la pandemia COVID e le dispute con la Russia su tutti), ma hanno radici strutturali che vengono da lontano.
Scrive Robert U. Ayres nel suo Turning point: the end of exponential growth? del 2006, “Se uno dei principali motori della crescita economica nell’ultimo secolo è stato una crescente offerta di lavoro utile, allora il continuo rallentamento dei guadagni di efficienza significa un graduale rallentamento futuro della crescita economica. La crescita economica concettualizzata come un approccio continuo a un equilibrio sempre più avanzato può trasformarsi in declino economico come reazione a un crescente squilibrio.” (p.1193).
Se la domanda di risorse non può essere adeguatamente soddisfatta per limiti biofisici, i prezzi vanno alle stelle e si generano crisi economiche. In risposta, si fa debito e si adottano misure monetarie espansionistiche, per stimolare nuovi investimenti e sperare che in futuro risolveremo.
Scrive ancora Ayres “La speranza (dei governi e dell’industria) che la scarsità a breve termine possa essere superata da un aumento della produzione dell’Arabia Saudita (o fracking USA, NdA) potrebbe essere delusa. La prossima volta, potremmo non essere così fortunati. I prezzi del petrolio non diminuiranno a meno che, o fino a quando, la domanda non diminuirà, e ciò accadrebbe solo in caso di una grave recessione o depressione” (Ibid., p.1195).
Se tale speranza non si concretizza, emerge l’inflazione. Quest’indicatore è solo il sintomo del disequilibrio biofisico sottostante, per cui occuparsi di tenerlo basso con aggiustamenti monetari ha poco senso.
Nella terza parte entreremo nel dettaglio delle implicazioni economiche.
[Continua: Il costo della complessità/3: la profezia di Soddy e l’accettazione dei limiti biofisici]
Michele Manfroni è PhD student presso ICTA-UAB
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