Le crisi energetiche inducono ad adottare misure che causano debito e inflazione – strumenti di economia virtuale – confidando che l’economia reale riparta. Ma cosa succede se le cause sono dovute a limiti biofisici, dunque strutturali e parzialmente fuori dal controllo umano? Che la stagflazione può diventare strutturale. Continuare questa nostra corsa è una scommessa che si fa sempre più rischiosa. Più sensato sarebbe accettare una riduzione della complessità e lavorare in quella direzione. La terza e ultima parte de “Il costo della complessità”.
[Segue: Il costo della complessità/2: la retorica verde non ci salverà dalle crisi di oggi e domani]
“Ci sono solo tre modi per far fronte ai conti non pagati di una nazione. Il primo è la tassazione. Il secondo è il ripudio. Il terzo è l’inflazione.” Herbert Hoover
Nella prima e seconda parte abbiamo analizzato le radici biofisiche delle crisi energetiche che stiamo attualmente osservando. Qui proseguiamo con le implicazioni economiche.
Frederick Soddy, premio Nobel in Chimica, già nel 1926 (Wealth, Virtual Wealth and Debt) criticava l’eccessiva attenzione degli economisti ai flussi monetari nello studio del processo economico. Nella sua comprensione biofisica dell’economia, fondamentale era la distinzione tra “ricchezza”, cioè la reale produzione e consumo di beni e servizi, e “ricchezza virtuale”.
Secondo Soddy, la ricchezza virtuale, cioè la quantità di denaro in circolo nell’economia, rappresenta il debito biofisico che una società contrae con i suoi cittadini, dal momento che, in un futuro, tale denaro verrà speso in beni e servizi che richiederanno energie e risorse per essere erogati.
Si confonde cioè l’economia “virtuale” (monetaria), sistema di controllo dell’economia reale, con l’economia reale stessa
Segue da questa concezione che una caratterizzazione quantitativa di flussi economici basata esclusivamente sulla contabilità monetaria usa erroneamente come riferimento il debito stesso. Invece di quantificare la ricchezza reale, cioè l’insieme di fattori di produzione e risorse, quali energia, combustibili fossili, lavoro e tecnologia, entro un contesto istituzionale in grado di garantire i processi di produzione e consumo, cioè il sistema socio-economico. Si confonde cioè l’economia “virtuale” (monetaria), sistema di controllo dell’economia reale, con l’economia reale stessa.
Se ci si ferma ad una pura contabilità monetaria, le economie con maggior quantità di denaro in circolo sono considerate quelle con la miglior performance economica. Di fatto, la leva finanziaria è uno strumento tipico delle economie sviluppate.
Trascurare la fondamentale distinzione tra reale e virtuale porta a ricercare soluzioni primariamente in quest’ultimo dominio, concentrandosi su regolare accuratamente i tassi di interesse sul debito o mantenere sotto controllo l’inflazione. Curando il sintomo e disinteressandosi della malattia sottostante. Eppure nel mondo reale non si può generare un flusso netto di beni o servizi senza consumare energia e risorse nel processo.
L’era del primato della banca centrale nel sistema finanziario mondiale
Il debito globale, sia corporativo che governativo, era già enorme e in crescita prima del COVID. “Il debito eccessivo” scrive Art Berman “è stato la causa primaria del collasso finanziario del 2008. La crisi è stata risolta con più debito e politiche monetarie che hanno inaugurato l’attuale era del primato della banca centrale nel sistema finanziario mondiale. Quantitative easing, tassi di interesse quasi nulli e alti prezzi del petrolio hanno portato alla prima onda del boom del tight oil. Investimenti eccessivi hanno creato un’eccessiva produzione e collasso dei prezzi nel 2014”.
La senescenza del settore petrolifero è segnalata dalla più alta volatilità dei prezzi nella parte destra della grafica sottostante.
Il debito è un catalizzatore, aumenta la velocità dei processi biofisici già in atto. In un’economia che cresce velocemente (come nei paesi occidentali fino a circa gli anni 80, o in Cina negli ultimi 30 anni), il debito è un acceleratore di innovazione e viene ripagato velocemente, rimanendo sotto controllo.
Il debito è un catalizzatore, aumenta la velocità dei processi biofisici già in atto
Quando c’è una crisi energetica per qualsivoglia motivo, i prezzi si alzano, si adottano politiche monetarie espansionistiche e tassi bassi (si fa ancora più debito) per stimolare gli investimenti, aspettando che l’economia reale riparta sotto la spinta ottimistica dell’economia virtuale. Ma ciò è possibile poiché il settore energetico reagisce in fretta e la produzione cresce velocemente, dal momento che le risorse sono ancora facili da sfruttare e i prezzi alti favoriscono i produttori. La domanda segue, continuando il processo di ripresa.
Ma in un’economia piena e matura, la resilienza è minore e la sensibilità agli shock maggiore. E’ più difficile adattarsi ai cambiamenti e, da facilitatore di innovazione, il debito diventa fattore di inerzia. Le imprese oberate dal debito hanno bisogno di più tempo per aumentare la produzione, e con minori guadagni, quindi sono più fragili e vulnerabili rispetto a una domanda volatile. I governi indebitati fanno più fatica ad adottare misure di social welfare o fornire sussidi alle imprese. Quindi il debito si accumula, e ce ne vuole sempre di più e più tempo di pay-back (crescita minore e cicli economici più brevi) per ottenere la stessa ripresa.
Il fardello dei baby boomers
Ultimo, pesante fardello su questo lungo processo è dato dall’avvicinarsi dell’età pensionabile dei baby boomers. In Occidente, ma anche in Cina, dove la politica del figlio unico ha ristretto la base della piramide demografica, una larga fetta della popolazione reclama il suo diritto a ritirarsi a vita privata proprio nel momento in cui ci troviamo in quest’impasse. Chi coprirà tali costi, e con quali risorse? Aumentare l’età pensionistica sembra inevitabile, a meno di voler ridurre l’aspettativa di vita.
Le misure espansive per uscire dalla crisi COVID dopo un anno di lockdown e restrizioni hanno creato un cocktail esplosivo. Qualsiasi politica di espansione fiscale e monetaria a cui non segua un’effettiva crescita della produttività porterà a stagflazione, cioè “la situazione nella quale sono contemporaneamente presenti nello stesso mercato sia un aumento generale dei prezzi (inflazione), sia una mancanza di crescita dell’economia in termini reali (stagnazione economica)”. E le ombre della stagflazione, si legge su Sole24Ore, minacciano ora la ripresa economica globale.
Le ombre della stagflazione
La capacità produttiva dei paesi (e settori) fornitori di commodities è erosa da prezzi bassi dell’energia (specialmente nel 2020, ma tale trend per il petrolio era già iniziato nel 2015), poiché non riescono a coprire i loro costi. Basta qualche collo di bottiglia in punti strategici (trasporto marittimo, gas naturale o semiconduttori) per creare problemi sistemici e minare ulteriormente la stabilità dei processi produttivi.
La ripresa economica successiva spinge i prezzi troppo in alto, a causa delle lacune produttive create nel periodo precedente e delle misure monetarie espansionistiche; mina la stabilità delle economie più ricche e differenziate, bisognose di investire una piccola percentuale del loro PIL in energia per un’adeguata crescita; e genera inflazione.
Ogni crisi aumenta la spirale distruttiva e le disuguaglianze sociali: periodi di alti prezzi delle materie prime, e inflazione progressivamente crescente, a fronte di una produzione strutturalmente insufficiente, saranno seguiti da bruschi cali della domanda, in un ciclo economico drogato da bassi tassi di interesse e accumulo di debito.
Infine, volatilità e instabilità dei mercati ostacoleranno gli investimenti strutturali e la crescita nel lungo periodo, a causa dell’avversione degli investitori al rischio.
Volatilità e instabilità dei mercati ostacoleranno gli investimenti strutturali
Si diceva che l’inflazione sarebbe stata controllabile nonostante le politiche monetarie espansive. Ma se le cause sono biofisiche, dunque strutturali e parzialmente fuori dal controllo umano, la stagflazione potrà essere strutturale.
In un capitalismo maturo, l’inflazione cambia identità: da problema regolatorio di responsabilità delle banche diventa indicatore del gap biofisico tra domanda e offerta; di responsabilità di ingegneri, scienziati e imprese (dal lato produzione) e individui e società civile (dal lato consumi).
A fronte di inflazione, dipendendo dal contesto, può dunque saltare l’assunzione di equilibrio di mercato dei comuni modelli economici. Potremmo essere testimoni della profezia di Soddy: una progressiva perdita di contatto con la realtà dovuta a un’economia virtuale chiusa in sé stessa, generando un profondo divario tra realtà biofisica e aspettative sociali.
Speranze appese a silver bullet tecnologico?
Forse riusciremo abilmente a proseguire, camminando in bilico tra un somministro di energia in diminuzione e un livello di debito strutturale alto di default. Sperando che il tight oil americano (o qualche altro silver bullet tecnologico) posticipi il declino come successe dieci anni fa, ma neppure questi operatori sono esenti da problemi di debito e ritorni energetici decrescenti. Lasciando ai posteri e ai poveri del mondo il conto da pagare.
Più realisticamente, vedo un’alternanza di periodi di austerità (a proposito, negli Stati Uniti sembra che già da giugno la Fed revocherà il Quantitative Easing), con politiche espansive. Quindi verso la stagflazione strutturale, in un circolo distruttivo di domanda e offerta, volatilità e incertezza.
L’austerità concentra il capitale e gli investimenti nei settori più remunerativi, verso chi è stato più efficiente e produttivo, ergo affidabile, nel tempo. Tale dinamica stimola la competizione e la crescita economica, ma se per vincoli biofisici tale crescita non si concretizza, il risultato finale è un gioco a somma zero con incrementi progressivi delle disuguaglianze sociali. Fino a che le tensioni crescenti porteranno a rimettere in discussione la percezione che l’Occidente ha di sé, come “il migliore dei mondi possibili”.
Le nuove tecnologie richieste per un rapido sviluppo economico inducono un uso sempre maggiore di energia (treadmill of production)
Già negli anni 70 Allan Schnaiberg descriveva il treadmill of production: le nuove tecnologie richieste per un rapido sviluppo economico inducono un uso sempre maggiore di energia. Ogni volta che questo accade, il degrado ambientale peggiora.
Continuare questa nostra corsa è una scommessa che si fa sempre più rischiosa. Più sensato sarebbe accettare una riduzione della complessità e lavorare in quella direzione.
“Gli ecosistemi hanno sviluppato sagge strategie lungo milioni di anni per far fronte all’interazione tra diverse comunità che condividono risorse limitate. La soluzione naturale è creare differenziazione di nicchia, cioè ridurre il livello di interconnessione di sistemi interagenti generando reti metaboliche che eliminano la competizione diretta per le risorse comuni. Gli ecosistemi hanno provato che questa è una potente strategia per innalzare la stabilità di una rete metabolica complessa. Probabilmente l’economia mondiale dovrebbe imparare dalla saggezza della Natura” (Mario Giampietro, “The metabolic pattern of societies: where economists fall short”, p.328).
Michele Manfroni è PhD student presso ICTA-UAB
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