La nascente rivoluzione dei veicoli elettrici sta trainando la domanda di metalli rari come il cobalto. La Repubblica Democratica del Congo ne è il principale detentore e la Cina non ha perso tempo ad entrare nella gestione delle miniere congolesi. Il modello usato da Pechino “risorse in cambio di infrastrutture” è oggetto di recenti inchieste che evidenziano tutte le contraddizioni di una strategia basata sull’accaparramento. Con l’Occidente che, immerso nelle sue contraddizioni, sembra avergli dato una discreta mano.
Si chiama “Congo Hold-up” l’inchiesta di un consorzio – costituito da Platform to Protect Whistleblowers in Africa con sede a Parigi, da Mediapart e dalla rete European Investigative Collaborations – che rivela come società cinesi abbiano trasferito milioni di dollari alla famiglia e agli alleati dell’ex presidente della Repubblica Democratica del Congo Joseph Kabila per ottenere il controllo delle ricchezze minerarie del paese.
Un’indagine che getta una nuova luce su alcuni dei sistemi con cui le aziende cinesi sono arrivate a dominare le ricchezze minerarie del paese africano, una delle nazioni più povere del mondo ma anche il più grande produttore mondiale di cobalto e il primo produttore di rame africano.
Anche il gruppo anti-corruzione The Sentry, con sede a Washington, ha monitorato i legami finanziari della famiglia Kabila con le compagnie minerarie cinesi attraverso l’utilizzo di dati bancari.
Il rapporto che ne è uscito spiega come le aziende cinesi, intenzionate ad espandere il loro controllo sulla fornitura di rame e cobalto al centro della nascente rivoluzione dei veicoli elettrici, in meno di un decennio abbiano acquisito il controllo della metà della produzione di cobalto del Congo e circa il 70% della sua produzione di rame.
Sotto accusa il dominio cinese sulle ricchezze minerarie del Congo e il ruolo dell’ex Presidente Kabila
Il fulcro di questa trasformazione è un accordo che frequentemente si realizza tra la Cina ed i paesi che aderiscono alla Belt and Road Initiative (BRI): risorse in cambio di infrastrutture.
Quel che è accaduto con l’accordo da 6,2 miliardi di dollari stipulato sotto il governo di Kabila con China Railway Group Ltd. e Power Construction Corp. of China, il più grande investimento nella storia del Congo, che prevedeva la costruzione da parte delle società cinesi di infrastrutture chiave come strade e ospedali in cambio di una quota maggioritaria nel progetto Sicomines per lo sviluppo di una miniera di rame e cobalto nel distretto minerario di Kolwezi.
Tale accordo, a suo tempo, è stato salutato come un orgoglioso simbolo del nuovo modello cinese di finanziamento, in alternativa alle rigide condizioni imposte ai prestiti dalle Istituzioni occidentali come la World Bank e il Fondo Monetario Internazionale.
Oggi, invece, è sotto revisione del governo congolese in quanto non sembra stia avvantaggiando sufficientemente il Congo.
Le contraddizioni occidentali
L’uscita in questi giorni del libro “Laptop from Hell” dell’editorialista del New York Post, Miranda Devine, riporta alla ribalta la società di investimento BHR che ha contribuito a mediare l’accordo che nel 2016 ha permesso a China Molybdenum, un colosso minerario cinese in parte controllato dallo Stato, di acquisire il controllo della gigantesca miniera congolese di cobalto e rame Tenke Fungurume per poco meno di 4 miliardi di dollari.
Nulla di strano se tra i fondatori di quella società, nel 2013, non comparisse Hunter Biden il figlio dell’attuale Presidente degli Stati Uniti d’America che controllava insieme ad altri due americani il 30% della società mentre il resto era detenuto da investitori cinesi, tra cui la Bank of China.
Il Presidente Biden quando fu raggiunto l’accordo era il vicepresidente di Obama ma probabilmente si era scordato di spiegare al figlio che gli USA erano in competizione con il Dragone Cinese per “vincere il 21° secolo“, come lo stesso Biden affermò in seguito al Congresso.
Quel che risulta evidente è che il figlio del Presidente ha contribuito a mettere a repentaglio la sicurezza nazionale: il cobalto costituisce una risorsa sempre più strategica per gli USA nella corsa all’auto elettrica.
Questi eventi rappresentano l’ennesima contraddizione su cui si stanno avvitando le democrazie occidentali in uno scontro impari contro il Governo cinese.
È facilmente intuibile l’imbarazzo del Presidente alle dichiarazioni di Amnesty International riguardo le brutali repressioni dell’esercito congolese verso la popolazione e il fenomeno illegale dei cosiddetti “minatori artigianali”, spesso bambini, che hanno attirato la condanna anche di altre associazioni per i diritti umani.
Ma la vicenda di Hunter Biden ricorda quella di un altro figlio celebre, Archibald Cox Jr., figlio del procuratore dello scandalo Watergate. Anche in questo caso la Sextant Group, società di investimento guidata da Archibald Cox Jr acquisì la società Magnequench, con sede a Indianapolis, che aveva una competenza unica nella produzione di magneti al neodimio ad alta potenza, e che aveva permesso a General Motors, sua società madre, di aprire la strada nelle tecnologie da utilizzare negli airbag e nei sensori meccanici.
L’affaire Magnequench è un altro esempio dell’incapacità USA di difendere il proprio know-how tecnologico dalla Cina
Magnequench fu messa in vendita, nonostante il suo pedigree high-tech e il suo portafoglio-clienti, annoverando anche il Pentagono che ne utilizzava i magneti come componenti cruciali dei sistemi di guida missilistici.
Pochi sapevano, all’epoca, che Sextant Group era una società di copertura per due società cinesi: San Huan New Material e China National Non-Ferrous Metals Import and Export Corporation, forti entrambe di stretti legami con il governo cinese.
Il 15 settembre 2004 Magnequench chiuse il suo ultimo impianto in Indiana, licenziò quattrocentocinquanta dipendenti e trasferì le sue apparecchiature tecnologiche in un nuovo stabilimento in Cina.
L’Impero di Mezzo non sarebbe stato in grado di sviluppare la propria industria REE senza il know-how di Magnequench e del suo brevetto – uno dei due disponibili a livello globale l’altro è giapponese – per la produzione di magneti permanenti.
Negli Stati Uniti, gli investimenti esteri su società che operano nei settori tecnologici e della difesa sono sottoposti a verifica e regolamentazione da un apposito organismo, il Comitato per gli investimenti esteri (Committee on Foreign Investments in the United States – CFIUS): appare improbabile un’approvazione dell’operazione Magnequench da parte del CFIUS senza la copertura fornita da Cox e dal Sextant Group (L’argomento è trattato nel libro “Energia Verde? Prepariamoci a scavare”).
Verso un oligopolio?
Per quanto la tendenza delle case produttrici sia quella di cercare di sviluppare nuove batterie con un ridotto utilizzo di cobalto per kWh (si veda Il manganese: un metallo “dimenticato” (ma non dalla Cina) si prevede che la domanda crescerà a un CAGR del 7% nel periodo fino al 2030.
Tale crescita costante della domanda sarà in gran parte sostenuta dall’adozione di veicoli elettrici a livello globale e dalla domanda a medio termine da parte dell’elettronica portatile, oltre al lancio della tecnologia 5G.
Entro il 2025, le prime tre compagnie estrattive di cobalto nella Repubblica Democratica del Congo – Glencore con il 29%, China Molybdenum con il 17% ed Eurasian Resources Group con l’11% – potrebbero rifornire più della metà del mercato mondiale. Una situazione che potrebbe portare il settore ad evolversi in un oligopolio nel prossimo futuro.
Questa previsione si spiega con il fatto che le miniere si stanno progressivamente convertendo dall’estrazione a cielo aperto verso quella in sotterranea, poiché i depositi di cobalto di alta qualità che un tempo si trovavano abbondantemente vicino alla superficie si stanno esaurendo.
Nel caso delle miniere congolesi, aumentando la profondità nel sottosuolo aumenta il rapporto rame/cobalto, riflettendo contenuti di rame sempre più elevati a discapito del cobalto.
La raffinazione del cobalto vede un unico grande player a livello globale: la Cina
Questo comporta che, per accedere a minerali con tenori abbastanza alti da rendere l’attività economicamente sostenibile e prolungare la vita delle miniere, è necessario aumentare gli investimenti infrastrutturali con il risultato di alzare una barriera all’ingresso di nuove compagnie con risorse inferiori sia economicamente che tecnicamente.
Ma se per la parte estrattiva si può parlare di oligopolio, la raffinazione del cobalto vede un unico grande player a livello globale: la Cina.
Generalmente il cobalto viene estratto come sottoprodotto dell’estrazione di rame o di nichel da cui si ottiene un concentrato di rame-cobalto (Cu-Co) o nichel-cobalto (Ni-Co).
Questo concentrato viene quindi trasformato in un prodotto intermedio principalmente idrossido di cobalto che a sua volta viene trasformato in cobalto raffinato, più specificatamente in sostanze chimiche (come il solfato e il tetrossido di cobalto) che vengono utilizzate nelle batterie e in altre applicazioni.
Mentre la lavorazione intermedia viene effettuata principalmente dove viene estratto il cobalto, la raffinazione è concentrata soprattutto all’estero.
La Cina è il più grande produttore mondiale di cobalto raffinato, la maggior parte del quale è prodotto da intermedi di cobalto importati; un primato che continuerà a mantenere nei prossimi decenni.
Nel 2020 la Cina ha prodotto oltre l’80% del solfato di cobalto del mondo. Mentre tutte le forme raffinate sono prodotte in Cina, il solfato di cobalto e il tetrossido di cobalto, utilizzati nelle batterie agli ioni di litio, dominano la quota di mercato.
È facilmente prevedibile che la produzione cinese di cobalto raffinato sia destinata ad aumentare, anche se la quota di mercato del paese probabilmente si ridurrà nei prossimi anni per i nuovi progetti di industrie di raffinazione che si stanno sviluppando a livello globale e che entreranno in attività nei prossimi anni.
Giovanni Brussato è ingegnere minerario e autore del volume Energia verde? Prepariamoci a scavare, ed. Montaonda
Su Cina e metalli per la transizione energetica leggi anche:
Il manganese: un metallo “dimenticato” (ma non dalla Cina), di Giovanni Brussato, 11 novembre 2021
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