Va detto e va sottolineato: il Patto di Glasgow è retorico, poiché ciò che conta non è il meta-target ma gli obiettivi di taglio dichiarati. Tra le due dimensioni vi è, oggi, un baratro. È questo ciò che emerge dal confronto tra il generico target -45% emissioni indicato nel Glasgow Climate Pact e gli impegni concreti espressi dai medesimi Stati nei loro Nationally Determined Contribution, che secondo l’Accordo di Parigi devono essere rivisti al rialzo ogni cinque anni. L’editoriale di ENERGIA 4.21 a firma di Enzo Di Giulio.
“La storia si ripete, Glasgow come Parigi: i giudizi vanno dall’estremamente positivo al disastroso. Da una parte, il Commissario europeo Frans Timmermans che parla di risultato storico e dà voto 9 al summit (1). Dall’altra, i delegati delle isole del Pacifico che parlano di fallimento epocale (2). Chi ha ragione? Dove sta la verità?”
Enzo Di Giulio nell’editoriale di ENERGIA 4.21 propone una riflessione a freddo su COP26 che eviti atteggiamenti emotivi e, soprattutto, valutazioni basate su aspetti parziali del Glasgow Climate Pact, ma che anzi lo travalichi guardando le policy effettive degli Stati e le strategie del business che “stanno all’esterno, nella realtà delle azioni”.
“Riteniamo che una proficua linea interpretativa dello stato dell’arte sia confrontare tre piani: obiettivo, ambizione, azione. Il primo si riferisce ai target definiti dalla scienza. Per rendere la riflessione più semplice e comprensibile, chiameremo questo piano «dove dovremmo andare». Poi vi è l’ambizione, ovvero l’espressione delle nostre volontà: «dove diciamo che vorremmo andare». Infine, vi sono le azioni che indicano il reale: «dove stiamo andando»”.
La posta in gioco della COP26 era chiara e il numero dei partecipanti lo testimonia: 40.000, il più alto di sempre, 10.000 in più di Parigi
“Il Glasgow Climate Pact è ciò che esprime il livello dell’ambizione del genere umano oggi. (…) Questo statement è di importanza cruciale perché lega l’obiettivo finale – il grado e mezzo – a una precisa, quantificata riduzione delle emissioni di CO2. Il -45% è condizione necessaria per il grado e mezzo. Non vi è il secondo senza il primo.
Ma è noto che la dichiarazione finale della COP è solo un pezzo dell’ambizione delle Parti. Ben più importanti sono i cosiddetti NDCs (Nationally Determined Contributions), ovvero i target che i paesi hanno esplicitato, in larga parte prima che la Conferenza avesse inizio (…).
Ora, in data 4 novembre, ovvero quattro giorni dopo l’inizio della COP26, la UNFCCC ha pubblicato il Report Message To Parties and Observers. Nationally determined contribution synthesis report (5), che offre un quadro limpido dello stato dell’arte dei target (…).
Se infatti ci concentriamo sulle 151 Parti aderenti alle UNFCCC che hanno dichiarato nuovi pledge, vediamo che il livello delle loro emissioni è ancora eccessivo, del 5,9% superiore a quello del 2010. Il numero è imbarazzante, se confrontato con il -45% necessario a rimanere entro il grado e mezzo.
In parole povere, ciò che emerge è che vi è un doppio registro: nel contesto generico del Patto di Glasgow – come anche nella Dichiarazione del G20 di Roma – i paesi esprimono l’obiettivo nobile del grado e mezzo, ma poi quando si tratta di mettere nero su bianco ed esplicitare i tagli che vogliono fare, siamo a distanza siderale da ciò che sarebbe necessario (…).
Riteniamo che questa semplice aritmetica contenuta in un documento ufficiale dell’UNFCCC – non in un report prodotto da qualche associazione ambientalista di visioni estreme – sia sufficiente ad affermare che la battaglia sul clima è oggi persa”.
Ma allora, si chiede Di Giulio, “come fanno importanti leader e uomini di scienza a dire che il Patto di Glasgow non è perfetto ma ha comunque tenuto vivo il sogno del grado e mezzo?”
Che certi target siano possibili in potenza non implica che lo siano nella realtà. “Siamo esseri con razionalità limitata” – Herbert Simon
La risposta è nei modelli, in grado di ipotizzare “una curva delle emissioni che, pur essendo ancora piatta nell’anno 2030, viri velocemente verso il basso annullandosi intorno all’anno 2050”. Questi modelli riflettono una “sistematicità del rimandare, che non può non indurre a dubitare dei futuri tagli”.
Infatti, “è molto semplice, per un policy maker, assumere un impegno di lungo periodo, la prova del cui verificarsi avverrà quando egli non sarà più sulla scena. Molto più complesso è assumere un impegno di medio periodo, come dimostra la fiacchezza dei target al 2030. (…) In base a quale indecifrabile meccanismo coloro che non riducono le emissioni, oggi, dovrebbero farlo, domani, in misura molto superiore? (…)
Infine, vi è il piano dell’azione che, ovviamente, è quello che ha maggiore importanza. Se anche le ambizioni fossero vigorose, rimarrebbe il problema di trasformarle in realtà. Una prima riflessione sintetica che può essere fatta è quella che ha origine dal famoso grafico della IEA, contenuto nel Report dedicato alle emissioni nette zero (8) (…).
Per dirlo con parole diverse, il mito del net zero emissions nel 2050 congettura salti quantici verso un mondo green che possono esistere solo nell’empireo dei modelli matematici. Alla realtà appartiene una complessità che i modelli, purtroppo, non incorporano.
Sempre nel contesto del livello dell’azione, riteniamo che sia utile qualche cenno a ciò che i paesi più importanti dovrebbero fare per annullare le emissioni nette in alcune decadi”.
In Europa il calo delle emissioni entro il 2030 deve avvenire a un ritmo più che il doppio di quello storico
“Dunque, potrebbe chiedersi il lettore, non si salva nulla di questa COP26? Non saremmo così negativi perché, al di là dei timidi passi avanti della dichiarazione finale, qualche progresso c’è stato. Gli accordi sulle foreste, il metano e il carbone, seppure imperfetti, testimoniano una volontà nuova.
Positivi sono anche i passi avanti sulle regole del trading di carbonio e sulla contabilizzazione delle emissioni associate ai progetti internazionali, come pure l’accordo sui crediti pregressi generati nell’ambito del Clean Development Mechanism, che potranno essere utilizzati solo se registrati dopo il 1° gennaio 2013.
Forse il punto più positivo è la richiesta ai paesi di sottoporre alla UNFCCC nuovi target (NDCs) entro un anno, alla COP27 di Sharm El-Sheikh. Se l’esortazione della UNFCCC venisse accolta dalle Parti, si tratterebbe di un deciso progresso che accelererebbe il rinnovo dei pledge di ben quattro anni (…).
È questo – il tempo – il punto critico di tutta la vicenda. Occorrerebbe fare di tutto per «comprare» anni, tempo utile da dedicare alla transizione energetica, in modo da sfruttare al meglio il budget di carbonio rimasto a nostra disposizione.
Ciò è possibile solo compensando le emissioni: la via più economica è, al momento, anche quella più semplice e naturale: le foreste”.
Il post presenta l’editoriale di Enzo Di Giulio COP26: la retorica è più forte della volontà (pp. 8-17) pubblicato su ENERGIA 4.21
Enzo Di Giulio è membro del Comitato scientifico di ENERGIA
Foto: Unsplash
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