88 dollari al barile: i prezzi del petrolio hanno toccato il livello più alto dal crollo di ottobre 2014. Un aumento del 74% rispetto a un anno fa, a cui consegue un aumento dell’inflazione domestica di quasi il 3%. E lì sono attesi restare, seppur non si escludono strappi a 100-150 doll/bbl nei prossimi anni. Frettolosi gli annunci di un imminente picco della domanda petrolifera, prevista al contrario in costante, pur graduale, crescita. Con investimenti upstream che languono e spare capacity che si assottiglia, la corda della flessibilità del mercato si fa sempre più tesa.
Mentre tutti osservano le gravi ripercussioni su famiglie e imprese dell’esplosione dei prezzi del metano e dell’elettricità, non minori preoccupazioni dovrebbe sollevare quel che va accadendo sul fronte del petrolio.
Anche nel nuovo anno i prezzi del benchmark Brent Dated hanno infatti proseguito la loro crescita portandosi a 88 dollari al barile: il 74% in più dei circa di 50 dollari di un anno fa ed il più alto livello dall’ottobre 2014.

Altra benzina può ben dirsi sul fuoco dell’inflazione. L’alta pressione fiscale ha attutito l’impatto sui nostri prezzi finali con quelli della benzina, aumentati comunque in un anno del 20% a livelli medi di 1,72 euro al litro (dati unem) con punte oltre 1,90.
Difficile quindi possano esservi misure del governo contro il ‘caro carburante’ simili a quelle contro il ‘caro bollette’, anche perché la più parte dei prezzi (oltre 60%) va alle casse dello Stato.
Difficile che il Governo possa intervenire come fatto con le bollette
Molto peggio andrà negli Stati Uniti dove l’impatto dei maggiori prezzi del petrolio su quelli alla pompa sarà molto più elevato per la sostanziale assenza di tasse. Ne risentirà il tasso di inflazione già salito nel dicembre scorso al 7%, il più alto da quarant’anni in qua.
Studi econometrici dimostrano che un aumento del 10% dei prezzi del petrolio aumenta l’inflazione domestica dello 0,4%.
Vi è un largo consenso che il range dei prezzi del petrolio possa nel breve comprendersi tra 80 e 90 dollari al barile contro i 60-65 dollari della pre-pandemia.
Questo aumento dimostra l’erroneità delle frettolose analisi che sostenevano che non tutto il male vien per nuocere e che il crollo della domanda causato dalla pandemia avrebbe inevitabilmente significato il raggiungimento del suo picco: per il diffondersi dello smart working, per i minori trasporti, per la (presunta) accelerazione della transizione energetica.
Non abbiamo ancora toccato il picco
Perché allora, si chiedeva Faith Birol dell’Agenzia di Parigi, continuare ad investire nella ricerca di nuovi giacimenti di idrocarburi? Bastano e avanzano, proseguiva con sicumera, quelli già scoperti.
Niente di più errato e pericoloso data anche l’autorevolezza della fonte che molte imprese reputano la ‘bibbia’ su cui orientare le loro decisioni. Affermazioni formulate proprio mentre prendevano a scorgersi all’orizzonte le onde dello tsunami della grande crisi energetica causato da una scarsità fisica del metano a fronte di una impennata della sua domanda.
Parallelamente, riprendeva a crescere la domanda di petrolio salita a fine 2021 a circa 99 milioni di barili al giorno: poco sotto la media di 100 registrati nell’anno pre-pandemia.
La previsione dell’Agenzia di Parigi, in netto contrasto con quel che sosteneva il suo direttore, era che possa portarsi a 101 milioni di barili al giorno nella seconda metà di quest’anno. La variante Omicron del virus dovrebbe avere un impatto sulla domanda molto contenuto, limitato al trasporto aereo (0,5 mil.bbl/g).
In sintesi: la curva della domanda di petrolio è prevista in graduale costante crescita.
Quali i driver della risalita dei prezzi?
Quali i driver della risalita dei prezzi? La combinazione tra aumento della domanda, per le minori restrizioni e il gas-to-oil switching indotto dal balzo dei prezzi del metano; la necessità di drenare ulteriormente dalle scarse scorte disponibili; l’acuirsi di tensioni geopolitiche in Medio Oriente (droni degli yemeniti houthi sugli Emirati Arabi); l’esplosione del gasdotto che collega Turchia e Iraq; l’acuirsi dello scontro tra Russia e Ucraina; le difficoltà estrattive in diversi paesi produttori (Nigeria, Angola, Malesia, Libia).
Prima di tutto però: l’avvertirsi del drastico calo degli investimenti nell’usptream minerario registrato da circa un decennio in qua.
La reazione delle oil majors all’attuale rialzo dei prezzi è molto diversa da quella del passato per diverse ragioni: le pressioni degli azionisti perché si convertano agli investimenti green; l’ostilità generale che ne vincola l’azione; gli annunci di aggressive politiche di decarbonizzazione, come il blocco delle vendite in Europa di auto a combustione interna dal 2035. Trovarsi domani a lamentare stranded costs non incentiva certo a spendere.
Gli investimenti minerari nel 2022 potrebbero segnare solo una leggera ripresa – in modo comunque coerente col rispetto di una severa disciplina finanziaria preferendo le imprese remunerare gli azionisti – con livelli di produzione che dovrebbero però rimanere inalterati per la preferenza a spendere in progetti di ridotta dimensione e complessità ma anche poco produttivi.
Un mercato che dipende sempre più da un’offerta ‘just in time’ non può che essere esposto ad ogni sorta di tensione.
Le raffinerie, grazie anche agli accresciuti margini, hanno ripreso ad acquistare a premio cargo provenienti da ogni paese produttore temendo che l’offerta possa scarseggiare.
Timori che si sono riflessi nei futures dei due maggiori benchmark (Brent e WTI) con livelli inferiori a quelli attuali (backwardation).
La spare capacity è scesa ad appena 1 mil. bbl/g: meno dell’1% della domanda
La domanda di petrolio, ma anche quella di metano, ha mostrato una resilienza al diffondersi della nuova variante del virus Omicron e ai maggiori prezzi superiore a quanto poteva stimarsi. Se la domanda crescerà, come atteso dall’Agenzia di Parigi, si ridurrà in modo parallelo la capacità produttiva disponibile (spare capacity).
Il Petroleum Intelligence Weekly del 13 gennaio 2021 riportava che se Opec Plus manterrà l’impegno di aumentare ogni mese la produzione di 400 mila barili al giorno – resistendo alle pressioni americane di fare di più – essa possa assottigliarsi ad appena 1 milione di barili al giorno: meno dell’1% della domanda.
Capacità quasi totalmente localizzata in Arabia Saudita ed Emirati Arabi, mentre la Russia ha ridotti margini per aumentare la sua produzione oltre i 10 mil.bbl/g.
La corda della flessibilità del mercato si fa sempre più tesa
La corda della flessibilità del mercato si fa quindi sempre più tesa, col rischio che possa rompersi alla minima tensione geopolitica.
Non resterebbe a quel punto che attingere alle scorte, sperare che lo shale oil americano riprenda nel breve più di quanto atteso (+0,7 mil.bbl/g nel 2022 e +0,4 mil.bbl/g nel 2023), far conto sulla ripresa della produzione iraniana condizionando i colloqui di Ginevra sul nucleare iraniano.
Guardando al medio termine si dovrà soprattutto fare affidamento sugli investimenti delle National Oil Companies dei paesi produttori, dal cui volere dipenderemo sempre di più specie se la transizione energetica non camminerà speditamente (nel 2021 i consumi di carbone hanno registrato un aumento del 9% segnando un nuovo massimo storico).

Il 2022 resta comunque un anno con molti fattori di incertezza, difficile quindi da prevedere. Non potendo però escludere lo scenario più temibile: che la domanda cresca oltre i livelli di produzione addizionale.
Timori che portano operatori o banche di affari a prevedere prezzi del petrolio a tre cifre: Goldman Sachs a 100 dollari al barile nel 2022 e JPMorgan a 125 nel 2022 e 150 nel 2023.
Livelli di gran lunga superiori a quelli assunti dalla Banca Centrale Europea (69,.4 doll/bbl nel 2024). Quel che rafforza i timori che la transizione energetica ci traghetterà lontano dall’era dell’energia a basso costo e facilmente accessibile.
Alberto Clò è direttore del trimestrale ENERGIA e del blog RivistaEnergia.it
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Foto: Unsplash
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