8 Febbraio 2022

Tre lenti per leggere il futuro delle rinnovabili

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Nella narrazione corrente, si possono individuare tre “lenti” attraverso cui leggere il futuro delle rinnovabili. Quella della certezza del loro trionfo, o 100% renewables, grazie alla raggiunta competitività economica che ne decreta il successo di mercato. Quella dei target, o “politica”, che traccia la strada sulla base degli obiettivi fissati. La terza è quella dell’incertezza, o del realismo, che pone l’attenzione sulle criticità che va incontrando la diffusione e penetrazione delle rinnovabili.

La prima lente attraverso cui leggere il futuro delle rinnovabili possiamo definirla della certezza del loro trionfo. È quella dei sostenitori del 100% renewable (detto anche tout renouvelable), secondo i quali il futuro dell’energia nel mondo è irrimediabilmente e inevitabilmente rinnovabile. Per la salvezza del Pianeta e, si sostiene, il rilancio delle economie.

Più ragioni vengono avanzate per sostenere questa certezza, a partire dalla conquistata piena competitività economica delle rinnovabili, che dovrebbe consentirle di camminare sulle loro gambe senza la necessità di alcun sussidio o incentivo. Sarà il mercato a decretarne il successo, mentre l’intervento dello Stato dovrà limitarsi a risolvere ostacoli regolatori specie riguardo i processi autorizzativi. 

Una certezza che in realtà lascia non pochi dubbi. È vero, ad esempio, che la potenza installata del solare e dell’eolico – il dato che normalmente si enfatizza – è aumentata enormemente.  Ma questa crescita è largamente superiore all’elettricità effettivamente generata, quel che alla fine conta, non essendo stata ridotta la loro intermittenza così da aumentarne la controllabilità.

Una potenza utilizzata per appena un quarto o poco più, rispetto a percentuali altamente superiori per altre tecnologie di generazione, ad iniziare da quella nucleare utilizzata al 90 e passa per cento della sua capacità produttiva.

Fare riferimento alla potenza e non alla producibilità è quindi fuorviante nel porre a confronto le varie fonti di energia. Negli Stati Uniti, ad esempio, il nucleare pesa per il 9% della complessiva potenza elettrica, ma per il 20% della elettricità prodotta. Percentuali inverse per solare ed eolico.

La quota della generazione eolica può, ad esempio, nell’arco di un brevissimo tempo passare da percentuali a due cifre a zero, con le altre tecnologie necessariamente pronte a sopperire alla sua intermittenza.

La grande crescita delle rinnovabili è un fatto peraltro sinora circoscritto per l’80% a una decina di Stati dei 195 definiti come sovrani. Una concentrazione che proietta grandi potenzialità negli altri paesi, ma che testimonia anche delle difficoltà a sfruttarle.

Bisogna infine considerare che il 100% renewables interessa sostanzialmente la parte elettrica e che può incidere in termini climatici solo se questa accresce via via la propria quota sui consumi energetici totali.

Una crescita largamente superiore all’elettricità generata, non essendo possibile aumentarne la controllabilità

L’aumento dell’elettrificazione costituisce infatti l’architrave dell’intero processo di decarbonizzazione, ma da anni è ferma a livello mondiale ed europeo al 20% (si veda Di Giulio, Il rebus elettrico: non basta decarbonizzare), segno che questo processo non sta affatto consolidandosi, come pure si continua a sostenere (tra questi, Enel nel suo Electricity’s strategic role in leading Europe’s decarbonization 2021).

La seconda lente è quella dei target di penetrazione delle rinnovabili fissati dagli Stati e organismi internazionali. Potremmo definirla politica e deriva dall’esistenza di obiettivi vincolanti e dalla possibilità di fissarne di nuovi.

L’Unione Europea, ad esempio, obbliga gli Stati membri a conseguire, da ultimo col Fit for 55, il 40% dei consumi di energia al 2030 da fonti rinnovabili. Similmente, vi sono i solenni impegni assunti dagli Stati nelle recenti G20 di Roma e COP 26 di Glasgow a ridurre le emissioni così da rispettare il limite di aumento della temperatura di 1,5 °C. Quel che inevitabilmente richiede una massiccia penetrazione delle rinnovabili.

Questa prospettiva avrebbe dovuto chiamarsi della pianificazione se non fosse che il raggiungimento dei target è tutt’altro che certo, a causa dello iato tra annunci e decisioni dei governi.

Una volta definiti, resta la possibilità che i target non vengano raggiunti o che vengano raggiunti ‘truccando’ i dati

Non si può trascurare, ad esempio, che mentre a Glasgow i leader discettavano di nuovi target e impegni, la grave crisi energetica che imperversava li costringeva ad adottare decisioni opposte, come l’aumento del ricorso al carbone (Gran Bretagna e Germania) rimettendo in alcuni casi in funzione vecchie centrali pronte ad essere dismesse.  

Si pensi, ancora, all’annuncio del presidente francese Macron di voler rilanciare l’opzione nucleare. Un annuncio che solo pochi mesi era impensabile sotto la pressione politica per il tout-renouvelable.

Leggere il futuro delle rinnovabili solo attraverso gli impegni e i target assunti dai governi rischia di rivelarsi in conclusione fallace, nel bene e nel male, per diversi motivi: la loro mutevolezza, data dalla necessità di aggiornarli periodicamente (i cosiddetti Nationally Determined Contribution); la possibilità, non remota, che non vengano raggiunti; l’eventualità che vengano raggiunti “truccando” i dati, come fatto dall’Italia raggiungendo nel 2015 il target rinnovabili al 2020.

Fonte: EEA

La terza prospettiva potremmo definirla dell’incertezza, o del realismo, e pone l’attenzione sulle criticità che va incontrando la diffusione e penetrazione delle rinnovabili.

Il recente rapporto Renewables 2021 della IEA dà conto di alcuni aspetti cruciali.

Primo: il forte aumento nei costi di produzione delle rinnovabili per i maggiori costi dei materiali che ha interrotto la loro curva discendente che si osservava da un decennio, stimata nell’ordine dell’80%. Da inizio 2020, l’acciaio ha segnato un +50%, l’alluminio +80%, il rame +60%, i trasporti +600%.

Un aumento dovuto a tre fattori:

  • il generale incremento dei prezzi delle commodity a seguito della ripresa delle economie nel post-pandemia;
  • il forte aumento della domanda di questi materiali indotto dalla crescita delle stesse rinnovabili e della mobilità elettrica;
  • l’intensificarsi della concorrenza tra industria verde e altre industrie che impiegano i medesimi materiali (es. industria hi tech).

Secondo la IEA, i costi di investimento per solare ed eolico onshore, che costituiscono la quasi totalità dei costi pieni, sono aumentati nel 2021 del 25%. Un aumento che cancella tre anni di loro riduzione e che è prevedibile possa perdurare per non breve tempo.

The era of ever-cheaper clean power is over’ hanno scritto Will Wade, David R. Baker e Josh Saul il 20 gennaio su Bloomberg, notoriamente vicino al mondo green, lamentando un aumento dei prezzi dei pannelli solari del 50% e delle turbine eoliche del 13%, la crescente scarsità di materiali, la crescente instabilità dei sistemi elettrici per l’aumento troppo rapido degli investimenti.

Uno dei presupposti della prospettiva della certezza – la piena convenienza economica delle intermittenti rinnovabili – si è in conclusione fortemente attenuato.

La conseguenza è, secondo la IEA, che una potenza programmata di 100 GW sarà probabilmente cancellata o ritardata, specie da chi aveva vinto aste sul presupposto di un ulteriore forte calo dei costi. Per realizzare la medesima potenza si richiedono 100 miliardi di dollari in più, aumentando di un terzo gli investimenti annuali nelle rinnovabili.

L’impennata dei prezzi del metano e del carbone avvantaggia le rinnovabili anche se la loro imprevedibilità e volatilità non assicura con certezza la sostenibilità economica dei nuovi investimenti.

Questo aumento dei costi associato agli obiettivi sempre più ambiziosi derivanti dall’opzione Net-Zero – che richiede un maggior apporto (80%) delle rinnovabili con un raddoppio delle loro installazioni nei prossimi cinque anni – rendono l’intervento degli Stati massimamente rilevante. Sul versante economico e su quello regolatorio.

Nonostante il gran dire sull’impegno degli Stati verso la decarbonizzazione, alle rinnovabili è andato poco più del 10% del totale della loro spesa nella green economy. Opportuno evidenziare che tale spesa è in grado di mobilitare una cifra ampiamente superiore di parte privata. Per riuscirvi è necessario tuttavia fornirle adeguate garanzie di ritorno.

L’impennata dei prezzi di metano e carbone avvantaggia le rinnovabili, anche se la loro volatilità non assicura la sostenibilità dei nuovi investimenti

Non meno complesso l’intervento pubblico sul versante regolatorio, specie riguardo i processi autorizzativi che rappresentano sempre più il vero ostacolo alla crescita delle rinnovabili, solare ed eolico, riguardo soprattutto al loro consumo del terreno e all’impatto paesaggistico.

Quando sono piccole, le fonti di energia non sollevano problemi, ma crescendo per dimensione unitaria, numerosità, diffusione territoriale, incontrano un’opposizione sociale sempre più forte e organizzata. Si rallenta di conseguenza la realizzazione di nuova potenza.

Il caso italiano è emblematico: quando gli incentivi erano stratosferici e scarsa era l’attenzione dell’opinione pubblica si arrivò a realizzare 10.000 MWe di potenza rinnovabile in un solo anno. Da quando gli incentivi sono gradualmente svaniti e la vigilanza della popolazione si è accentuata non si è andati oltre i 700-800 MWe.

L’eolico onshore, come recentemente analizzato da Domenique Finon in Europa è sostanzialmente bloccato. Sparare futuri grandi tassi di crescita dandoli per certi è poco significativo.

La pandemia ha accentuato l’incertezza sul futuro della transizione energetica. Non tenerne conto non aiuta a comprendere come le cose siano cambiate e come i precedenti scenari si siano giocoforza modificati.

L’incerto destino delle FER si riverbera su quelle fonti che dovrebbero sopperire alla loro discontinuità, specie le centrali a gas naturale

Queste considerazioni portano a nostro avviso a due conclusioni.

Primo: che parlando di rinnovabili, ma lo stesso potrebbe dirsi per altre opzioni a partire dall’idrogeno o della mobilità elettrica, lo scarto tra il possibile e il realistico è enorme. Occorre prendere atto del fatto che le difficoltà realizzative che esse vanno incontrando non consentono alcuna certezza sul loro possibile sviluppo.

Secondo: che questa incertezza si riverbera ineludibilmente su quello delle altre fonti che dovrebbero sopperire alla loro discontinuità, specie le centrali a gas naturale. Quale investitore arrischierebbe il suo denaro per realizzare queste centrali che bilanciano l’intermittenza di sole e vento senza certezza alcuna sulla loro crescita e senza garanzia di redditività?

In assenza di un approccio programmatico che dia agli operatori-investitori quelle minime condizioni necessarie sulla sostenibilità economica dei loro investimenti si rischia di andare a sbattere, come accaduto con la crisi energetica che stiamo attraversando.

Dovuta a ragioni in parte contingenti, come la bassa ventosità che ha ridotto nel Nord Europa l’apporto dell’eolico, ma anche a ragioni strutturali come la scarsità del gas naturale dovuta al crollo degli investimenti minerari nell’industria petrolifera in un contesto di sempre più piena globalizzazione dei mercati.

La crisi energetica appare sempre più come frutto avariato della narrazione dominante sulla transizione energetica, che non sta portando quegli esiti propagandati – riduzione dei prezzi, riduzione dei consumi di energia, riduzione delle emissioni – ma sta avendo disastrosi impatti economici e sociali che si dicono ‘inattesi’ pur essendo perfettamente prevedibili.


Alberto Clô è direttore del trimestrale ENERGIA e del blog RivistaEnergia.it


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Photo: PXhere

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