L’evolversi della crisi energetica in Europa dipenderà soprattutto da due fattori: la disponibilità di gas, che pare sufficiente nel breve termine ma molto più incerta nel medio, e l’efficacia delle sanzioni, con particolare riferimento al gasdotto Nord Stream 2. Restano aperte diverse questioni. Una tra tutte, in campo energetico l’Europa ha un qualche potere negoziale nei confronti della Russia? I cittadini europei possono resistere alla scarsità energetica più di quelli russi al peggioramento della loro economia?
Il riconoscimento da parte della Russia delle repubbliche popolari di Lugansk e Donetsk il 22 febbraio seguita la notte del 24 febbraio dall’invasione dell’Ucraina da parte delle forze armate russe ha gettato nel panico i mercati energetici.
Tutte le piattaforme negoziali europee del metano hanno segnato in due giorni un balzo superiore al 20%, con quella italiana (PSV) che si è portata a circa 30 dollari/Mil. Btu. Minore l’aumento del petrolio, col greggio Brent che si è tuttavia portato sui 105 dollari al barile, come non si aveva dal 2014.
L’evolversi delle cose in Europa dipenderà soprattutto da due fattori. Primo: la disponibilità di gas che, pur soffrendo di una riduzione dei flussi dalla Russia (per altro aumentati nelle ultime ventiquattro ore) nelle diverse linee di transito e di bassissime livelli delle scorte, sembra essere in grado di coprire una domanda prevista in flessione per la fine della mite stagione invernale.
La disponibilità di gas sembra in grado di coprire la domanda nel breve periodo
Tutt’altro discorso è quello relativo ai prossimi mesi che potrebbero conoscere, se la domanda non dovesse scendere, seri problemi di sua copertura. Quel che accadrà se la Germania manterrà l’impegno a chiudere le ultime tre centrali nucleari, rimpiazzabili con centrali a metano e certo non con pale eoliche nel nord del paese.
Secondo: l’efficacia delle sanzioni alla Russia decise dagli Stati Uniti, soprattutto di natura finanziaria, e dall’Europa. Centrate in questo caso sulla sospensione decisa dal presidente tedesco Olaf Sholz del processo di certificazione (da parte del regolatore tedesco) del gasdotto Nord Stream 2, ultimato a settembre ma non ancora operativo.
Le reazioni di Mosca a questa decisione sono state sinora abbastanza pacate, volte più a confermare l’affidabilità della Russia come fornitore di metano e a smentire il volto aggressivo di chi lo utilizza come arma di pressione politica. Una lezione che in futuro è sperabile sia appresa.
In campo energetico l’Europa ha un qualche potere negoziale nei confronti della Russia?
Da qui una conseguente domanda: in campo energetico l’Europa ha un qualche potere negoziale nei confronti della Russia? Dipendendo dalle sue forniture di metano non è che l’Europa si è tirata “la zappa sui piedi”?
Mi sembra che l’Unione vada sempre più credendo alle sue bugie. Ad iniziare dal convincimento che la transizione energetica abbia ormai spazzato via sia il metano che il petrolio, che invece soddisfano il 60% dei suoi fabbisogni primari di energia, cinque volte il contributo delle sempre-crescenti rinnovabili.
L’Unione Europea, al di là delle centinaia di documenti sulla ‘sicurezza energetica’, è legata mani e piedi dalla Russia, che è divenuto il nostro primo fornitore energetico: non solo di metano, col 40% dei consumi, ma anche di petrolio, col 25% dei suoi consumi, e di carbone, per il 55% dei suoi consumi.
È indiscutibilmente vero che l’intera economia russa e le sue casse statali dipendono massimamente dalle esportazioni energetiche verso l’Europa ma dubito che i cittadini europei potrebbero resistere alla scarsità energetica più di quelli russi al peggioramento della loro economia.
La crisi politico-militare avviata da Putin si è riverberata su tutti i mercati energetici, non solo quello del gas ma nondimeno quello del petrolio e del carbone, che ha conosciuto lo scorso anno un’enorme crescita non solo nei paesi emergenti, con un aumento del 9% nella generazione elettrica.
Fosche prospettive per il mercato petrolifero
Totalmente fuori rotta rispetto allo scenario net-zero contribuendo a renderlo sempre più irrealistico. Anche se il rimbalzo dei prezzi del petrolio è stato sinora abbastanza contenuto, le aspettative sono fosche.
Per la semplice ragione che a causa del crollo degli investimenti upstream, la spare capacity disponibile di petrolio si è progressivamente assottigliata dovendo far conto solo su quella saudita. Quel che dipenderà dalla tenuta del sistema Opec Plus che fa perno sul binomio Riyad-Mosca.
La bassa spare capacity si deve in buona parte all’irresponsabile posizione dell’Agenzia Internazionale dell’Energia di Parigi che dopo aver sproloquiato su “no new investment in oil&gas ever again” ha avuto la sfrontatezza nei giorni scorsi di ammonire sui rischi prodotti da bassi livelli degli investimenti nella ricerca di nuovi giacimenti!
A dire di Moody’s, se si vogliono evitare shock di prezzi del petrolio bisognerebbe aumentarli del 50% a circa 550 miliardi di dollari l’anno. Con prezzi, altrimenti, che si porterebbero a 150-200 dollari al barile.
Demonizzare petrolio e metano ha portato alla situazione attuale – rendendo i rumori di guerra ancor più pericolosi – dimenticando che la loro domanda continuerà a crescere e che “net-zero” non significa “zero-oil”. Se non altro per il fatto che petrolio e metano sono parte essenziale della transizione energetica, se si rammenta che le rinnovabili abbisognano oltremodo di minerali estratti grazie a e materiali prodotti con gli idrocarburi, alcuni dei quali le rinnovabili proprio non riescono a produrre.
Geopolitica, mercati energetici e il ruolo della scarsità
Su tutte queste considerazioni incombe comunque in queste ore il dramma della guerra ucraina. Ci sia almeno di lezione. Una di quelle che avremmo dovuto trarre dalla storia energetica dell’ultimo secolo – e che dovrebbe servirci guardando al futuro – è che la politica può diventare dirompente nelle sue potenzialità distruttive quando i mercati energetici conoscono una situazione di scarsità relativa.
Quel che conferisce un enorme potere a chi ne dispone, come accadde con le crisi petrolifere negli scorsi anni Settanta. Il contrario invece in situazioni di abbondanza, come constatammo nel 2014 quando nonostante l’invasione della Crimea da parte della Russia i prezzi del petrolio crollarono grazie alla grande bonanza nei mercarti internazionali consentita dallo shale oil americano.
Oggi, a fronte dell’ennesima azione di forza militare della Russia, siamo in una situazione esattamente opposta a quella di allora e non a caso i prezzi sono tornati agli alti livelli pre-Crimea, ma in un contesto in cui il coltello energetico è ancor più nelle mani di Mosca.
Alberto Clò è direttore di ENERGIA e RivistaEnergia.it
Foto: Unsplash
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