15 Marzo 2022

Dalla crisi ucraina lezioni anche sul fronte CO2

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Mentre imperversa la guerra ucraina catalizzando l’attenzione mediatica, IEA e IPCC ci avvertono che le emissioni di CO2 hanno toccato nuovi massimi storici e che i danni crescono; che c’è un perfetto accoppiamento tra PIL ed emissioni; che cresce il ricorso al carbone e le emissioni aumentano proprio in quei settori dove le rinnovabili dovrebbero dominare. 4 le lezioni che possiamo apprendere dai due report e dalla contestuale escalation della crisi ucraina.

Il fragore della guerra ha sovrastato, negli ultimi giorni, la questione climatica, relegando in un angolo tanto il nuovo rapporto della IEA sulle emissioni di CO2 quanto il volume dell’IPCC su Impatti, Adattamento e Vulnerabilità (qui una presentazione dei 6 messaggi chiave del nuovo rapporto IPCC tratta da World Resources Institute, NdR). Eppure, i dati che entrambi i report ci consegnano sono pessimi.

La ripresa economica del 2021 ha fatto rimbalzare le emissioni di CO2 portandole al +6% rispetto al 2020: 36,3 miliardi di tonnellate di anidride carbonica derivanti dagli usi energetici. Il livello più alto di sempre, dell’intera storia umana.

Il livello più alto di sempre

Sorprende, certo, che ciò accada sei anni dopo l’Accordo di Parigi, che avrebbe dovuto contenere le emissioni, non certo farle aumentare. Ma i dati che la IEA ha comunicato nel suo recente report Global Energy Review: CO2 Emissions in 2021 sono implacabili: il grafico mostra un trend che punta verso l’alto.

Dal 2015, anno dell’Accordo, ad oggi, le emissioni sono sempre aumentate eccetto nel 2020, l’anno del Covid, e nel 2016, che si caratterizza per un modesto decremento. Poi nel 2021 il balzo, circa 2 miliardi di tonnellate che raggiungono l’atmosfera e vanno più che a compensare la diminuzione indotta dal lockdown (-1,9).

Passano gli anni, le stagioni, e pure le pandemie, ma sul fronte del carbonio nulla sembra mutare: le emissioni inesorabilmente aumentano. C’è poco da fare: Parigi non sta funzionando. E ciò è estremamente grave e preoccupante per le ragioni che recentemente ci ha ricordato l’IPCC nel volume del suo Sesto Assessment Report dedicato a Impatti, Adattamento e Vulnerabilità.

Sovrastata dal fragore delle bombe in terra d’Ucraina, flebile, la voce dell’IPCC si è persa nell’etere e non ha raggiunto, come avrebbe dovuto, gli orecchi dei policy maker e dei cittadini.

“Una raccolta della sofferenza umana e un atto d’accusa schiacciante per il fallimento dei leader nell’affrontare i cambiamenti climatici. I colpevoli sono i più grandi inquinatori del mondo, che incendiano la sola casa che abbiamo”, queste le parole con le quali il Segretario Generale dell’ONU Antonio Guterres descrive il rapporto.

Da una parte, dunque, il grido degli scienziati, dall’altra le dichiarazioni roboanti delle COP e dei G7: su entrambe si staglia la sagoma scura della cruda realtà. Il combinato disposto delle voci della scienza e della politica non muove il moloch del carbonio, vera catena elicoidale della nostra epoca, apriori dell’economia e delle nostre vite.

Un accoppiamento perfetto

Il balzo del 2021 evidenzia l’assenza dell’agognato decoupling tra crescita economica ed emissioni. Al contrario, siamo di fonte al fenomeno opposto, ovvero a un accoppiamento perfetto. Il PIL mondiale sale del 5,9% e le emissioni crescono del 6%.

D’altra parte, non si può dire, come alcuni fanno, che il problema di fondo è la crescita e che occorre andare verso un mondo “post-growth”. Perché ciò di cui abbiamo bisogno è una decrescita vigorosa delle emissioni, che le porti negli anni verso lo zero, e non la loro stabilizzazione. Dunque, anche senza crescita il problema permarrebbe.

E che ciò vada fatto prima possibile emerge dai numeri. La dinamica flusso-stock è tale che l’anidride carbonica emessa oggi si accumuli e permanga nell’atmosfera per decenni o secoli: dal 2005 al 2020 la concentrazione di CO2 è cresciuta a una media di 2,4 ppm all’anno, e anche nel 2020 – l’anno del lockdown che ha portato a una decrescita delle emissioni del 5,1% – la concentrazione è cresciuta di 1,73ppm.

Dunque, occorre decarbonizzare prima possibile l’economia mondiale. E tuttavia, ciò che la IEA ci mostra è che nel 2021 è accaduto esattamente il contrario, con un contributo del carbone alla crescita delle emissioni di oltre il 40%.

Il grafico che segue mostra i volumi delle emissioni nei tre anni 2019, 2020, 2021 per le fonti carbone, petrolio e gas naturale. Il rimbalzo maggiore nel 2021 proviene dal carbone che non solo cresce più delle altre fonti ma raggiunge il record assoluto di emissioni prodotte nella storia (15,3 Gt), superando il precedente picco del 2014.

Come se l’Accordo di Parigi non ci fosse mai stato

In parole povere, si torna e si supera il livello pre-Parigi, come se questo accordo – che alcuni commentatori hanno definito storico – non ci fosse mai stato.

Altro dato interessante è quello relativo ai settori. Il maggiore incremento di CO2 si è verificato nella generazione elettrica e nella produzione di calore (46% dell’aumento totale), ovvero nel settore all’interno del quale le rinnovabili dovrebbero espandersi e dilagare.

Il triangolo carbone, elettrico, Cina

E in realtà questa espansione c’è stata, avendo le rinnovabili raggiunto il picco di sempre (8.000 TWh), superando di 500 TWh il precedente record del 2020, ma ciò non è stato sufficiente a compensare la spinta indotta dal carbone, soprattutto in Cina.

In sintesi, il triangolo carbone, elettrico, Cina racchiude gran parte della spiegazione dell’incremento record della CO2 nel 2021. Va comunque sottolineato che il rimbalzo delle emissioni si è verificato un po’ in tutti i paesi, in misura minore in quelli avanzati e in misura maggiore in quelli emergenti.

È significativo che le emissioni pro-capite cinesi (8,4 ton) abbiano superato quelle medie delle economie avanzate (8,2 ton), a conferma del fatto che il problema delle emissioni cinesi non è più solo originato dalla dimensione straordinaria della sua popolazione ma da una diffusione del benessere tra i cittadini che, data il ricorso diffuso al carbone, ne eleva oltre misura le emissioni medie.

Questa la fotografia, fosca, che l’Agenzia di Parigi ci consegna. Quattro i messaggi impliciti. Primo, la dinamica economica è ancora più forte delle policy per il clima. E a nulla vale demonizzare la Cina perché quello che la recente crisi ucraina ci insegna è che quando la sicurezza energetica è in pericolo – quando vuoti reali o potenziali di offerta energetica impattano sulla vita di milioni di persone – la questione climatica è relegata in un angolo: le barriere psicologiche cadono e financo il carbone torna a essere un valido alleato.

4 messaggi impliciti

Le criticità che l’Occidente esperisce oggi in forma, si spera, temporanea non sono altro che ostacoli che economie in crescita, quali quella cinese o indiana, patiscono strutturalmente. Di qui il loro ricorrere al carbone, senza farsi troppi problemi.

Il secondo messaggio è che rimpiazzare le fonti fossili non è affatto semplice. Anche in questo caso, la crisi ucraina ci è maestra: i paesi europei cercano altro gas per rimpiazzare quello russo. La sostituzione non è con le rinnovabili ma con il medesimo combustibile fossile.

Certo, si progetta un più veloce ricorso alle fonti low carbon, ma esso per ora rimane sullo sfondo: troppo lenta la loro penetrazione. Di qui il ritorno al gas, se non al carbone. In tal senso, la crisi ucraina rappresenta un test cruciale per la transizione verificandone soprattutto la dimensione temporale.

Il terzo messaggio che traiamo dal report IEA è che il mercato ha una sua forza che prescinde dalle politiche climatiche: circa 250 milioni di tonnellate di CO2 aggiuntive sono state emesse a causa della sostituzione del gas naturale con il carbone, indotta dagli alti prezzi del primo.

Il quarto messaggio, elementare, è che il budget carbonico è quasi eroso del tutto. Come mostra l’orologio del Mercator Research Institute, che elabora dati dell’IPCC, rimangono meno di otto anni all’esaurimento del budget carbonico compatibile con una crescita della temperatura non superiore a un grado e mezzo, ovvero in linea con il target del Glasgow Pact.

2 alternative

Poiché, di certo, sfonderemo il nostro budget, restano due alternative: la prima è rappresentata dalle emissioni negative, ovvero bilanciare nel futuro le emissioni pregresse già accumulate nell’atmosfera, attraverso forme di compensazione naturale (es. foreste) o tecnologica (es. cattura diretta della CO2). È possibile? Riusciremo a fare, in futuro, molto più di quanto dovremmo fare oggi e non riusciamo a fare?

La seconda alternativa è rappresentata dall’adattamento, ovvero il contrasto degli effetti negativi indotti da un cambiamento climatico che non siamo riusciti a evitare. È un’opzione che, dati alla mano, il genere umano farebbe bene ad approfondire.

In sintesi, nell’ambito della questione climatica, il 2021 rappresenta un altro anno perso. I dati gettano una luce negativa sull’efficacia degli accordi internazionali. Parigi e le varie COP appaiono un dichiarare per dimenticare, un wishful thinking, un credere vero qualcosa che si desidera sia vero.

Che cosa? Che la transizione possa essere realizzata celermente, e pilotata dall’alto, dalla mano visibile e potente del policy maker. Ma i dati ci dicono che, fino ad oggi, la mano invisibile dell’economia è ancora quella più forte. Ed è fatta di carbonio.


Enzo Di Giulio è membro del Comitato Scientifico di ENERGIA


6 messaggi chiave del nuovo rapporto IPCC,
di Redazione, 15 Marzo 2022

Foto: Unsplash

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